
In Gran Bretagna, Boris Johnson invita alla calma sulla variante Omicron e non parla di lockdown. In Francia si fermano solo le discoteche. E anche in Spagna non c’è panico. Da noi, invece, si pensa ancora di chiudere.Il green pass rafforzato è una realtà, con oltre un milione e 300.000 italiani che l’hanno scaricato nelle prime 24 ore, eppure il governo ipotizza nuove restrizioni. Colpa dell’indice di contagio Rt che continua ad aumentare e dell’aumento dei ricoveri: ieri in ospedale c’erano 6.078 pazienti contro i 5.879 del giorno precedente. Di fronte a questa progressione il premier Mario Draghi non esclude l’ipotesi di nuove restrizioni, che potrebbero essere definite anche intorno a Natale, con Regioni dichiarate gialle o arancioni e sottoposte a vincoli. Le regole sono chiare: una Regione passa in zona gialla quando il tasso delle terapie intensive supera il 10 per cento e contemporaneamente il tasso di occupazione dell’area medica supera il 15 per cento e poi diventa arancione se le terapie intensive superano il 20 per cento e l’area medica il 30 per cento. Numeri che portano a divieti generalizzati e anche a chiusure. Una prospettiva che sembra inevitabile al nostro governo, nel caso di un incremento della curva del contagio, ma che in altri Paesi vicini a noi e con caratteristiche analoghe, non viene contemplata. Prendiamo il caso della Gran Bretagna, dove il contagio dovuto alla variante Omicron è triplicato nell’arco di una settimana, ma non sono state definite contromisure. L’unica iniziativa è stata quella di imporre doppio tampone a chi entra nel Paese, che deve mostrare un certificato di negatività quando varca il confine e comunque deve sottoporsi ad un altro test entro due giorni dall’arrivo e rimanere isolato finché non riceve l’esito negativo anche di questo secondo test. Per il resto si procede come sempre, con le mascherine al chiuso ma non all’aperto e i locali regolarmente in funzione. Proprio ieri mattina il primo ministro Boris Johnson ha analizzato la situazione. «È possibile che la variante Omicron sia più trasmissibile della variante Delta», ha dichiarato, «ma è troppo presto per trarre delle conclusioni». A suo parere serviranno altre verifiche per capire se questa variante aggira il vaccino e determina contagi eccessivi. Per tale ragione il governo ha deciso di non discutere nemmeno il piano B per l’inverno, che potrebbe comportare più restrizioni nel caso in cui la pressione sull’Nhs, il sistema sanitario nazionale, diventasse eccessiva. I dati più recenti parlano di 51.459 nuovi casi in un giorno, con 7.485 persone ricoverate in ospedale di cui 913 in rianimazione. I casi confermati di Omicron sono 336. Anche il collegamento tra il virus e i ricoveri si è ridotto, come pure il numero dei decessi. Pure in Francia, nonostante ci siano 50.000 nuovi casi al giorno e il tasso di crescita sia passato da 378 casi per milione a 545 casi per milione, sono state chiuse solo le discoteche e per il resto la vita procede come sempre. Per fronteggiare Omicron il governo d’Oltralpe punta sui vaccini, tanto che sono stati riaperti gli hub vaccinali per consentire di rendere rapida la somministrazione della terza dose e anche il contatto con coloro che, a causa della nuova variante, hanno pensato di cominciare il ciclo di immunizzazione.In Spagna, poi, dove il tasso di crescita è molto simile al nostro, con un aumento dei casi giornalieri che è di un terzo superiore a quello delle settimane precedenti, nessuno si è fatto prendere dal panico. La penisola iberica ha mantenuto le regole esistenti: si usa la mascherina negli ambienti chiusi - ma in fondo non si è mai smesso di farlo - , ci sono otto delle 17 regioni che hanno introdotto il Covid Passport per alberghi e ristoranti. Poi si insiste nella campagna di vaccinazione, che ha percentuali simili alle nostre, con l’85 per cento della popolazione che ha ricevuto le due dosi. Nessuno ha ancora avanzato proposte per restrizioni o limitazioni dei cittadini, con l’ex ministro della sanità spagnolo Salvador Illa, che qualche giorno fa ha precisato che fino a quando si procede con le vaccinazioni e i cittadini rispettano le regole del distanziamento, non servono altri interventi radicali. Anche perché i dati dei ricoveri in terapia intensiva e soprattutto delle morti causate dal virus rimangono bassi (simili a quelli italiani) e quindi non sembrano giustificare la necessità di un giro di vite. Per ora, insomma, i Paesi nelle nostre condizioni non si stanno spaventando. Soprattutto, nessun governo sembra assumere decisioni facendo riferimento solo alle percentuali dei ricoveri e della saturazione dei posti letto in terapia intensiva. Anche perché i parametri spesso sono molto diversi. Qualche esperto, peraltro, è scettico sulla soglia di saturazione, che viene considerata allarmante e spinge a proporre restrizioni. L’impressione è infatti che non sia abbastanza alta o che comunque rispecchi il livello di ricoveri che anche in passato era stato registrato nelle terapie intensive durante le fasi critiche dei picchi influenzali invernali. A dimostrare che si tratti di un dato non così significativo, potrebbe forse contribuire anche la decisione assunta ieri dalla Regione Lombardia, che rischiava di diventare gialla intorno a Natale. È bastato procedere a una riorganizzazione ospedaliera per affrontare la crescita dei contagi e aumentare i posti letto, per evitare questo pericolo. Adesso il numero di letti a disposizione per il ricovero dei pazienti Covid in area medica è passato da 6.646 a 7.945 (con un aumento di 1.299 unità), facendo salire il numero di posti letto a disposizione per ogni 100.000 abitanti da 66,7 a 79,2 e allineandosi ai dati comunicati dalle altre Regioni e alla media nazionale, che rimane comunque più alta e pari a 99,8. Intanto dal Giappone arrivano notizie incoraggianti: il Covid sembra non essere più un problema, con 800 positivi totali e un solo morto.
Vladimir Putin (Ansa)
Il piano Usa: cessione di territori da parte di Kiev, in cambio di garanzie di sicurezza. Ma l’ex attore non ci sta e snobba Steve Witkoff.
Donald Trump ci sta riprovando. Nonostante la situazione complessiva resti parecchio ingarbugliata, il presidente americano, secondo la Cnn, starebbe avviando un nuovo sforzo diplomatico con la Russia per chiudere il conflitto in Ucraina. In particolare, l’iniziativa starebbe avvenendo su input dell’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che risulterebbe in costante contatto con il capo del fondo sovrano russo, Kirill Dmitriev. «I negoziati hanno subito un’accelerazione questa settimana, poiché l’amministrazione Trump ritiene che il Cremlino abbia segnalato una rinnovata apertura a un accordo», ha riferito ieri la testata. Non solo. Sempre ieri, in mattinata, una delegazione di alto livello del Pentagono è arrivata in Ucraina «per una missione conoscitiva volta a incontrare i funzionari ucraini e a discutere gli sforzi per porre fine alla guerra». Stando alla Cnn, la missione rientrerebbe nel quadro della nuova iniziativa diplomatica, portata avanti dalla Casa Bianca.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.





