2020-06-22
Gian Carlo Blangiardo: «L’onda lunga della pandemia saranno 6.000 nascite in meno»
Gian Carlo Blangiardo (Istat.it)
Il presidente dell’Istat: «Il Covid ha invertito una tendenza positiva sui decessi di inizio anno. Temo un effetto Chernobyl sulle giovani coppie: angoscia per il futuro e culle vuote»Professor Blangiardo, solo lei sa esattamente quante vittime ha prodotto il Covid.«Mi piacerebbe. Ma non è così: l’Istat sa dire esattamente quanti morti ci sono stati in più, o in meno, in Italia».Ed è un calcolo diverso, dunque.«Solo studi medici e epidemiologici più accurati potranno dire quanti dei morti che risultano a noi sono addebitabili al Covid».Come descrive l’epidemia da un punto di vista demografico?«Una bufera che si è scatenata in Italia, e nel mondo, cogliendoci impreparati».Che ha stravolto la tendenza in atto?«Come le dimostrerò, numeri alla mano, l’ha addirittura invertita».Adesso la tempesta è cessata?«Speriamo di essere riusciti a contenerla. Ma sul campo sono rimaste a tutt’oggi 37.000 vite».Gian Carlo Blangiardo, 72 anni. Novarese di Arona, demografo, professore di demografia, presidente dell’Istat. È l’uomo che - con il suo istituto - ha prodotto il primo inventario scientifico sulle vittime del Coronavirus. I dati che spiega in questa intervista fanno molto riflettere sulla natura della «tempesta» che abbiamo subito.Si discuterà per anni su questi dati.«Procediamo per ordine. Sulla mortalità le evidenze sono di due tipi. La prima sono i casi che vengono presentati come decessi per Covid. La seconda i numeri assoluti su tutti i decessi».Lei sta dicendo: non tutti i morti in più di quest’anno sono morti per Covid.«Ovviamente: alcuni sono legati indirettamente all’epidemia. Ad esempio un infarto non curato, nel pieno della crisi ospedaliera. Tuttavia sui numeri assoluti non c’è da discutere».Ovvero la differenza tra i morti dello scorso anno e quelli del 2020.«Esatto: questo dato è quel che noi chiamiamo un “eccesso di mortalità”».A livello Paese ci sono stati circa 40.000 decessi in più: come li interpreta? «In modo articolato: in alcune realtà c’è stato un aumento importante. In altre - penso a Palermo, Agrigento, Roma - addirittura in diminuzione».Come si spiega, visto che ci sono state vittime anche lì?«Con la tendenza. Nel bimestre gennaio-febbraio si era partiti bene. Abbiamo registrato su base nazionale circa 10.000 morti in meno rispetto agli stessi mesi nel quinquennio 2015-2019. Una tendenza positiva».Poi si è scatenata l’apocalisse.«Infatti, il bilancio complessivo dal 1° gennaio al 15 maggio 2020 è diventato di circa 40.000 morti in più. Per essere precisi: considerando un insieme di 7.300 comuni - che coprono la quasi totalità del territorio nazionale - si contano 38.000 decessi in più al Nord, 200 in meno al centro e 1.000 in meno nel mezzogiorno».È una mappa che ricalca quella del contagio. Su cui voi avete una stima ancora più accurata.«L’Istituto superiore di sanità ha diviso il territorio in tre zone: ad alta, media e bassa diffusione del contagio. Gli aumenti di mortalità sono 36.000 nella zona ad alta diffusione, 3.000 in più nella zona di media diffusione e 3.000 in meno in quella di bassa diffusione».La prima zona comprende la Lombardia e parti del Piemonte e dell’Emilia Romagna.«Più o meno. Esiste per esempio una sacca ad alta diffusione anche nella Provincia di Pesaro e Urbino».Cos’altro deduce da questi numeri?«La statistica, quand’anche con un dato ancora grezzo, ci aiuta a capire dove bisogna andare a scavare per conoscere meglio cosa è accaduto. E intendo sviluppando analisi approfondite sulla densità antropica, l’inquinamento e altre importanti condizioni di contesto, come possibili fattori che hanno favorito la diffusione e la capacità aggressiva del virus».Parliamo dei dati peggiori.«La presenza di un eccesso di mortalità è localizzata soprattutto in un ristretto gruppo di province: Cremona, Bergamo, Piacenza, Lodi, Brescia, Parma, Pavia, Lecco, Biella e Alessandra sono le dieci che si distinguono in tal senso». E i picchi negativi?«In molti comuni di queste province la variazione è stata tale da dar luogo in molti casi al raddoppio dei decessi. Dati impressionanti, anche perché abbiamo una certezza: i morti da noi non vengono certamente nascosti».Ci saranno altre conseguenze demografiche dell’Italia?«Certo: quelle sui nati, e sui possibili non nati».Lei pensa che potremmo avere un ulteriore calo della natalità?«Vorrei tanto che non fosse così, ma va messo in conto. Le giovani coppie si sono trovate immerse in una storia di angoscia e paura. E questo non può non ver pesato nelle scelte riproduttive. A dicembre temo che ci possano essere 5-6.000 nati in meno».Mi faccia un esempio.«Ricorda la tragedia di Chernobyl, nel 1986? Ai primi di maggio eravamo tutti lì a valutare il peso del cesio, del plutonio ...»....Nell’insalata.«Esatto: nove mesi dopo, a febbraio 1987, si è registrata una diminuzione delle nascite del 10% rispetto al febbraio dei due anni adiacenti».Si può evitare questo effetto depressivo?«Bisogna combattere lo Stato di incertezza psicologico. I 435.000 nati del 2019, in epoca pre-Covid - sono già il record più basso di natalità di sempre. Ma io temo quel che accadrà subito dopo, con gli effetti economici della crisi».Maggiore incertezza, disoccupazione, precarietà?«Sì. Anche qui c’è un precedente: nel 1989. Prima della caduta del muro di Berlino, in Germania Est c’erano 200.000 nati annui. Dopo la caduta, e le conseguenze negli equilibri che ne sono derivate, si è scesi a circa 90.000».Covid a parte, si può invertire la tendenza italiana?«Nei tempi in cui c’è indubbiamente un ampio controllo sul piano contraccezione, e quindi le nascite sono normalmente il frutto di una libera scelta, si dovrebbero creare delle condizioni per consentire a chi vuole avere figli e poterli fare senza incontrare ostacoli di varia natura».Ad esempio?«Permettere conciliazione maternità-lavoro, favorire i servizi di cura dell’infanzia. In Italia esiste un problema culturale: l’idea che i figli siano fatti tuoi e non siano anche una ricchezza collettiva».È la differenza con la Francia. «Ed infatti lì ci sono 300.000 nati in più. Vede, non è una questione di partiti, è un problema di cultura nazionale».Da che famiglia viene?«Mio padre era un commerciante ambulante. Mia madre casalinga. Eravamo tre fratelli».Cosa voleva fare da piccolo?«L’ingegnere. Ma poi ho studiato ragioneria».Come è diventato demografo? «Sono laureato in economia e commercio nel 1971 con in indirizzo statistico».Come spiegherebbe a un nipotino il suo mestiere?«La statistica è un modo per raccontare in maniera oggettiva la realtà».Bello, ma forse non basta.«Gli direi che ogni essere umano fa statistica senza accorgersene. Quando un padre dice «Esco sennò faccio tardi», sta utilizzando i dati di una sua rilevazione statistica personale sul tempo che impiega da casa al lavoro».Mi faccia un esempio della fantasia che le ha trasmesso suo padre.«Ad esempio in tema di immigrazione. Alla fine degli anni Ottanta dovevamo capire quanti stranieri c’erano davvero in Italia, anche quelli irregolari sul territorio».E come ha fatto?«Ci ho messo quasi un anno a immaginare come costituirmi un campione senza avere la lista da cui estrarlo. E poi, con la fantasia, ho trovato un metodo».E cioè?«Se lei deve intervistare dei conigli su un’isola come fa?».Non ne ho idea.«Lei sa che il coniglio si abbevera e che mangia. E quindi se va al ruscello o nel prato lo trova».E quindi dove si cercano gli emigranti?«Al sindacato, al corso di Italiano, dal medico, a scuola per i figli, nel parco dove si incontrano o nei luoghi di culto in cui vanno a pregare».Mi racconti l’impresa più difficile nelle sue ricerche.«C’è stato un periodo, fine anni Settanta, in cui cercavo di sviluppare sul piano metodologico la cosiddetta casualizzazione delle risposte».Cioè?«Immagini quanto è difficile fare una inchiesta chiedendo: sei mafioso? Ti droghi? Sei evasore? Si trattava di trovare il modo per superare tali difficoltà».E come ha fatto?«A avevo lavorato per definire, anche rispetto alle proprietà delle stime che si ottenevano, un metodo di casualizzazione delle risposte. La procedura era quasi un gioco. Ad esempio, si diceva all’intervistato: “Pensa al numero di telefono della persona a cui vuoi bene. Pensa all’ultima cifra del telefono e poi rispondimi la verità solo se questo numero è 0, 1 o 2”. In questo modo si otteneva la risposta ma, non conoscendo il numero pensato, non si sapeva la reale condizione del rispondente».L’intervistato poteva mentire comunque.«Certo. Doveva farlo se il numero era diverso da quelli indicati, ma non interessava la verità del singolo, bensì la stima del fenomeno nel complesso degli intervistati. Sapendo che la distribuzione dei numeri era uniforme, e che quindi c’erano tre possibilità su dieci che si dicesse la verità, mettendo insieme tale informazione con quanto dichiarato dagli intervistati si otteneva la stima corretta della frequenza del fenomeno “delicato”». Non mi ha detto perché ha fatto il demografo.«Mi piaceva l’idea di studiare demografia: era un modo per capire le persone, la dimensione dei fenomeni della vita di tutti noi».
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)