2022-08-18
Lode a «The Sandman» una pecora nera tra i fumetti buonisti
Grazie all’adattamento Netflix, rivive l’opera di Neil Gaiman. Una fuga dalla «cancel culture» nelle pieghe dei sogni.The Sandman su Netflix. Un altro mito postmoderno creato per la carta approda all’immagine in movimento. E non fa che alimentare la querelle degli ultimi decenni: dare corpo tridimensionale a personaggi di origine bidimensionale comporta solo un trasferimento di modalità espressive o un palinsesto che sa di rigenerazione? Qui, però, entra in ballo il «fattore G». Neil Gaiman non si può assimilare alla pletora di «nuovi autori» che hanno infestato invece di arricchire i comics dopo l’implosione degli anni Ottanta, quando iniziò l’olocausto caratteriale e contenutistico della cancel culture, che accentuava la deriva di Stan Lee e dei «supereroi con superproblemi».Intanto Gaiman è inglese, e nel suo sistema circolatorio creativo scorre un flusso europeo ancora più dilatato dalle origini familiari ebraiche. Ne è impregnata la sua vena di fantasy vero, non surrogato dal bisogno di costruirsi un passato remoto e una conseguente epopea da parte di troppi praticanti americani nati nel Nuovo Mondo. Lo si capisce bene da questa sorta di proclama etico di Gaiman: «Ogni persona mai esistita o esistente o che esisterà ha una canzone sua. Non è una canzone scritta da qualcun altro. Ha una melodia e parole sue. Sono poche le persone che riescono a cantare la loro canzone. La maggior parte di noi ha paura di non riuscire a renderle giustizia con la voce, oppure che le parole siano troppo sciocche o troppo oneste o troppo strane. Perciò, invece di cantarla, la vive». Detto da uno che ha collaborato con Alice Cooper ed è attualmente sposato con una musicista.Una personalità, la sua, non ingabbiabile nel woke e nella negazione della libera prospettiva individuale, come alberga tra i fiordi epici della tradizione nordica. Lassù perfino il paganesimo acquisisce una parvenza francescana, perché mira al cuore di una condizione interiore irreperibile nel panteismo, nell’animismo e del «puntinismo» delle cosiddette religioni «altre». Si rilegga (o legga) American Gods. La quotidianità del protagonista, Shadow, trascende nell’ultraterreno dinanzi alla scoperta che Mister Wednesday, l’individuo da cui è stato ingaggiato per fargli da guardia del corpo, è Odino. Il re degli Asi, gli dei scandinavi, convoca tutta la sua cerchia per dare battaglia alle nuove entità, decise a soppiantarli nelle coscienze, e quindi nella morale. C’è tutta l’eco cristiana di Gilbert Keith Chesterton in L’uomo che fu giovedì, al quale tocca scoprire che l’uomo di nome domenica è Dio. Una canzone, per riprendere le considerazioni di Gaiman, che qui risuona ad altezze incommensurabili, o, se si preferisce, nell’altro dei cieli.I lettori italiani poterono apprezzare il romanzo nella collana della Mondadori «Urania», dove successivamente fu proposto anche un racconto dell’autore sulla fine del mondo, quando apparve l’antologia La Terra al tramonto.Anche nella versione televisiva di Sandman, sebbene Gaiman non vi abbia messo mano più di quanto necessitasse a mantenere l’imprinting della propria creatura originale, quest’ultima basta da sola a imporre sé stessa, con il suo portato altamente spirituale. La missione di Morfeo, una volta risvegliato dall’incantesimo che lo imprigiona nel sonno, è inequivocabile: quella di tutelare, da custode dei sogni, l’equilibrio del dualismo bene/male risalente ad Abele e a Caino, svincolati da qualsiasi lettura riduzionista ed elevati nuovamente ad archetipi del libero arbitrio. Il Morfeo interpretato da Tom Sturridge anima sullo schermo quello realizzato su schizzi di Gaiman da vari disegnatori avvicendatisi per le tavole pubblicate dal 1989 al 1996 negli albi della DC Comics. Tra loro spiccava Sam Kieth, che comunque a un certo punto si chiamò fuori e in seguito dichiarò di non trovarsi più a proprio agio: «Come si sarebbe sentito Jimi Hendrix nei Beatles. Sono nella band sbagliata».Un problema che non tange Gaiman, genio solista più che solitario. Anzi capace di anticipare fin dagli esordi quella che oggi volgarmente si chiama «multimedialità», quando invece si tratta della produzione versatile di chi sa passare da un’arte all’altra. Partendo dalla letteratura, cioè dai libri. Afferma Gaiman: «Una città non è una città senza una biblioteca. Magari pretende di chiamarsi città lo stesso, ma se non ha una biblioteca sa bene di non poter ingannare nessuno».Si pensa all’universo-biblioteca di Jorge Luís Borges, in un’allegoria più misurata. Non un agglomerato indecifrabile di volumi, bensì un contenitore in un contenitore. Ambedue discernibili nel panorama del reale. Persino se questo trasecola nel Nessun dove scoperto casualmente da Richard Mayhew, che soccorre una ragazza lungo la strada per Londra, dove inizierà una nuova esistenza lontano dalla Scozia. Nell’opera narrativa più emblematica di Gaiman, lo sconfinare altrove acquisisce un valore edificante. Il Nessun dove è un reame fantastico popolato di personalità concrete, escluse dai normali perché uniche e non «diverse», nella stantia nomenclatura del politicamente corretto.