2023-06-18
«L’Occidente è ormai un ospizio per depressi»
Pubblicato in italiano l’atto d’accusa di Limonov contro le società liberali. Che ormai assomigliano a un sanatorio gestito dalle autorità pubbliche e popolato non più da cittadini ma da pazienti che tirano avanti solo grazie a sedativi e tranquillanti.Eduard Limonov è un po’ l’improbabile somma di Arthur Rimbaud e Jean Genet, con un po’ di Pasolini e un po’ di Céline. È un personaggio inclassificabile, impossibile da incasellare in una qualsivoglia tavola di Mendeleev degli scrittori dei nostri tempi! Poeta e teppista, vagabondo e maggiordomo, miliziano filo-serbo durante la guerra di Bosnia, dandy dissidente, cane da guerra, oppositore nel cuore, pazzo della letteratura, amante delle donne e delle risse, oppositore e poi sostenitore di Vladimir Putin, la sua stessa vita alla vodka è un romanzo incredibile. Slobodan Despot, scrittore serbo ora residente in Svizzera, che ha pubblicato La sentinelle assassinée (La sentinella assassinata) con L’Âge d’Homme di Losanna, lo ha definito un «Rimbaud alla fine del mondo», geniale creatore dalle molte vite che si è fatto simbolo di gran parte della storia russa contemporanea. «Tutto poteva essere trash in lui, ma niente era basso», ha detto, per poi aggiungere: «Avrebbe preferito essere un guerriero piuttosto che un pensatore. Il suo discepolo Zachar Prilepin ha riunito le due cose». Un altro dei suoi più cari amici francesi, lo scrittore e traduttore Thierry Marignac, che ha vissuto a lungo a Mosca e ora risiede a Bruxelles, è della stessa idea. Eduard Veniaminovich Savenko, più noto come Eduard Limonov, nasce nel 1943 a Djerzhinsk, città industriale dell’ex Unione sovietica, ma trascorre la propria infanzia a Kharkov, in Ucraina. Suo padre è un ufficiale inferiore dell’Nkvd. Da giovane legge Jules Verne e Alexandre Dumas, sognando avventure eroiche. Finisce ben presto in una banda di teppisti responsabile di vari misfatti, come racconterà più tardi nel suo Autoportrait d’un bandit dans son adolescence (Autoritratto di un bandito adolescente) e ne Le petit salaud (Il piccolo bastardo). Al tempo stesso, frequenta la scena bohémien locale - soprattutto i circoli letterari - e comincia a scrivere le sue prime poesie. All’età di 30 anni raggiunge gli Stati Uniti, dove scrive anche romanzi. Si unisce ai circoli punk e alle avanguardie di New York ma vive miseramente, spostandosi di tugurio in tugurio. Si butta nella malavita, frequentando ladruncoli, drogati e senzatetto, con i quali moltiplica le proprie esperienze sessuali (descritte in Le poète russe préfere les grands nègres, cioè Il poeta russo preferisce i grandi negri, opera che in russo si intitola Eto ja - Edička , Sono Edička, dove Edička è l’archetipo del teppista dandy, del poco di buono) prima di trovare lavoro per qualche tempo come domestico per un milionario di New York. Nel 1980 si trasferisce a Parigi, dove si fa molti amici negli ambienti più anticonformisti della Capitale, scrivendo sulla stampa comunista (L’Humanité) ma anche sulle riviste della destra radicale. Più avanti lo si legge pure su L’Idiot international, foglio incendiario curato dallo scrittore Jean Edern Hallier, dove incontra Patrick Besson, Philippe Sollers e Marc-Edouard Nabe. Si dichiara subito un «nazional-bolscevico». Al crollo del sistema sovietico attacca violentemente Gorbaciov, ma anche il «gendarme del mondo» americano. È in questo periodo che scrive lo straordinario pamphlet Grande ospizio occidentale, ora finalmente disponibile per i lettori italiani. Tradotta dal russo da Michel Secinski, l’opera esce per la prima volta in Francia nel 1993 da Belles-Lettres, nella collana L’Idiot international. Viene poi ripubblicata nel 2016 da Bartillat, con una nuova prefazione dell’autore. Il titolo russo è ancora più eloquente: Disciplinarnyj sanatorij (Sanatorio disciplinare). La tesi può essere riassunta in poche parole. Vivere nelle società occidentali oggi significa vivere in un ospizio. Un ospizio gestito dalle autorità pubbliche (qui chiamate «amministratori») e popolato non da cittadini ma da pazienti che vivono sotto sedativi, tranquillanti e altri antidepressivi. Finché si comportano in modo obbediente - e la reclusione sotto l’epidemia di Covid-19 è stata un test in scala reale della loro docilità -, vengono accuditi dalle autorità, che offrono loro attività ricreative sempre più sofisticate per distrarli dalla loro condizione. Ma se si ribellano, se si comportano da «agitati», cioè da oppositori che «pensano male», allora viene inflitta loro una severa repressione. In breve, descrivendo il ricovero generale nella società capitalistica avanzata, Limonov evoca la «violenza morbida» così come il totalitarismo morbido, il capitalismo della seduzione e la dittatura dei diritti umani, il moralismo e l’«impero del bene», quello che Christopher Lasch ha definito Stato terapeutico e infantilizzazione programmata, la «moralità» e la «produzione di opinioni prefabbricate», la normalizzazione attraverso la mercificazione del mondo e schiere di schiavi innamorati delle loro catene. Viene in mente ciò che Solzenicyn disse agli studenti di Harvard: «Vengo da un Paese in cui non si poteva dire nulla, e scopro un mondo in cui si può dire tutto senza che ciò serva a nulla». Sorge allora una domanda: quale libertà rimane quando la preoccupazione principale delle democrazie liberali è quella di governare senza il popolo e contro il popolo? Il libro è stato ispirato a Limonov soprattutto dagli anni trascorsi a Parigi. Per lui, la Francia è il «laboratorio» esemplare in cui viene sviluppato il principio dell’ospizio. Se avesse potuto vedere i deliri a cui hanno portato oggi la teoria del gender, la cancel culture e il wokismo, probabilmente avrebbe scritto che l’intero Occidente è diventato una sorta di ospedale psichiatrico. Durante la guerra in ex Jugoslavia Limonov si impegna ardentemente con i nazionalisti serbi e si lega a Radovan Karadzic. Lo si vede anche in Abcasia e in Transnistria. Nel 1994, tornato in Russia, fonda il Partito nazionalbolscevico (Pnb) con Aleksandr Dugin (che litigherà presto con lui) e lancia il giornale nazionalista-rivoluzionario Limonka («Bomba a mano», in gergo militare). Nel 2001 viene arrestato per traffico d’armi e un tentato colpo di Stato in Kazakistan! Questo gli costa due anni di prigione. Nel 2007 il Pnb viene messo fuori legge. Tre anni dopo, Limonov si unisce agli oppositori di Putin, e lancia il movimento «Strategia 31». Cerca quindi di candidarsi alle elezioni presidenziali, cosa che gli vale un ennesimo arresto. Nel 2016, la biografia romanzata di Limonov dello scrittore Emmanuel Carrère riceve il Prix Renaudot a Parigi, e lo riporta alla ribalta dei media. A proposito di Carrère, Limonov dice: «Gli auguro di finir male. Tutti i grandi scrittori finiscono male!». Nell’introduzione al suo Libro dell’acqua, scritto in prigione, si chiede quali cose siano state per lui essenziali: «Ne ho scoperte solo due: la guerra e le donne». Nel maggio 2019 torna a Parigi per l’ultima volta, desideroso di portare il suo sostegno ai gilet gialli. È già molto malato, ma continua a bere come sempre, bruciato da quella stessa fiamma che lo ha tenuto in piedi per tutta la vita. Più antiamericano che mai, si dichiara solidale alle repubbliche indipendenti del Donbass e approva l’annessione della Crimea. Continua a pubblicare a tutto spiano. Muore il 17 marzo 2020 a Mosca, all’età di 77 anni. «Questa morte di cancro nel bel mezzo di una pandemia è stata la sua ennesima provocazione», ha scritto Slobodan Despot. Limonov era fiero di essere sempre stato «dalla parte sbagliata». Fiero di essere sempre rimasto libero.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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