«Gli occhi sono lo specchio dell’anima». La prova è che sono la sola parte del corpo a non invecchiare.
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Quando sono arrivato a Parigi, la città comprende va diversi quartieri, che avevano tutti una personalità diversa. Avevano una propria musicalità. Un tempo, ognuno aveva addirittura il proprio linguaggio. Oggi non vi sono più quartieri, ma solo distretti.
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La vista contro l’udito, lo spazio contro il tempo, la concretezza contro l’astrazione - è tutt’uno.
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L’ossessiva questione della natura delle origini o degli inizi. Perfezione originaria che poco a poco si degrada o magma indifferenziato che poco a poco si mette in forma? Decidersi per l’una o per l’altra concezione significa aderire a filosofie della storia totalmente opposte. Per ostilità all’ideologia del progresso, sono spinto verso la prima, ma è davvero possibile prenderla sul serio? Paradiso perduto, Età dell’Oro, Tradizione primordiale - troppa speculazione metafisica per i miei gusti. Credo che il passato possieda un altro tipo di autorità. D’altronde, tra i greci, è proprio il caos a regnare all’inizio (e non alla fine).
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Passata una certa età, si scopre la saggezza triste. Una saggezza nata dalla tristezza? Com’è triste!
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In un romanzo poliziesco, leggo questa «ricetta del la felicità», espressa in forma scherzosa. Essere felici è molto semplice: basta prendersi tutto il merito, attribuendo i torti agli altri. È probabilmente questo il motivo per cui penso di non essere mai stato veramente felice (ammesso che questa parola abbia un senso).
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L’uomo è un erede, ma ciò che eredita non è un passato, quanto la capacità di plasmare l’avvenire.
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Non si ha mai troppo denaro quando si crede che il suo valore sia relativo; se ne ha sempre troppo quando si crede sia assoluto.
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Il mio lato «kantiano» - eccome se esiste! - fa parte del mio gusto per l’imparzialità. L’imparzialità esige che ci si astragga da sé (dal proprio punto di vista, dal proprio contesto); tuttavia, la giustifico con Heidegger (critica della metafisica della soggettività) e non tramite Kant. Lo stesso vale per la mia convinzione secondo cui un principio non vale che per la sua generalità (dato che è la sua generalità a conferirgli il carattere di principio). Il diritto dei popoli di disporre di sé stessi vale per tutti i popoli: la causa di un popolo, in questo senso, è indissociabile dalla causa dei popoli. Al tempo stesso, è un dato di fatto che, dal punto di vista della filosofia morale, la ricerca dell’imparzialità possa anche portare al contrattualismo o all’utilitarismo. Si tratta dunque di conciliare due cose: la necessità dell’imparzialità, garanzia di una maggiore oggettività, e il fatto che siamo degli esseri situati. Sempre in bilico.
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Motto della famiglia de Benoist: «Gusto, ordine, pazienza e tempo».
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Non amiamo coloro che sono morti, ma il ricordo che ne serbiamo. Amare i propri ricordi è amare sé stessi. Pensiero piuttosto deprimente.
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Il peggior crimine contro l’umanità è l’umanità. Detto altrimenti, il segreto dell’umanità è la sua inumanità.
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La crisi dell’identità europea è esattamente paragonabile a quella dell’identità maschile. L’Europa non sa più chi è da quando non domina più il mondo. Gli uomini non sanno più chi sono dalla fine del patriarcato.
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Prima si sopprimono le frontiere, poi si erigono muri. Le frontiere regolavano, i muri bloccano (o si suppone lo facciano). Che progresso!
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Tra uomo e donna non c’è più «medesimezza» di quanta non ce ne sia nel semplice desiderio, poiché per l’uomo l’amore implica sempre l’amore di un corpo (che appartiene a una persona), mentre per una donna è l’amore di una persona (che possiede un corpo).
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Gli africani, troppo estroversi. Gli asiatici, troppo introversi. L’equilibrio europeo?
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Dalla gioia del corpo si è passati al godimento del corpo. Dopodiché, il godimento del corpo ha screditato il corpo. Come riabilitarlo (non «ripararlo» o «aumentarlo»)?
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A destra, disprezzo del pensiero; a sinistra, disprezzo della realtà.
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Quando sento parlare italiano, mi sento già meno misantropo.
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L’inferiorità degli uomini rispetto agli dèi è che non sono immortali. L’inferiorità degli dèi rispetto agli uomini è che non possono darsi la morte.
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La libertà è l’essenza della verità. Il contrario della verità non è l’errore o la menzogna, ma l’inautentico.
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Differenza di natura tra l’individualismo dei Paesi del Nord e quello dei Paesi del Sud. Nel Nord, nasce da un’esagerazione dell’idea di libertà; nel Sud, da una deformazione dell’idea di eguaglianza.
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L’Italia è bella, la Germania è grande, la Francia è o eccezionale o mediocre
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Ricordo un pranzo a Roma, il 7 giugno 1989, con Giano Accame, allora direttore del Secolo d’Italia, e Mario Baccianini, responsabile di MondOperaio. Secondo Accame, Baccianini non era abbastanza socialista; il socialista gli rimproverava amichevolmente, di non essere abbastanza liberale! Immagino la faccia di un intellettuale parigino a quel pranzo.
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17 dicembre 2013. La morte di Dominique Venner, avvenuta ormai più di sei mesi fa, mi ossessiona poiché la vedo come una sfida personale. Camus dice va: «Morire per un’idea è il solo modo di essere all’altezza dell’idea».
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Il razzismo ispirato dall’ideologia del progresso: «Gli altri popoli non hanno creato civiltà». Hanno fatto di più: hanno creato culture.
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Ammiro quelli che dicono di poter condurre, con uguale successo, la propria vita pubblica e la propria vita privata. Ma ho il sospetto che, se non mentono, per lo meno si illudano.
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Si è rimproverato al marxismo di credere all’onnipotenza, «in ultima istanza», dell’economia. Oggi si con stata che sono le democrazie liberali quelle più al servizio delle potenze economiche (e finanziarie), mentre gli ultimi Stati comunisti si sforzano di salvaguardare le prerogative del politico (cosa che d’altronde viene loro rimproverata). A modo suo, Marx aveva ragione.
Eduard Limonov è un po’ l’improbabile somma di Arthur Rimbaud e Jean Genet, con un po’ di Pasolini e un po’ di Céline. È un personaggio inclassificabile, impossibile da incasellare in una qualsivoglia tavola di Mendeleev degli scrittori dei nostri tempi! Poeta e teppista, vagabondo e maggiordomo, miliziano filo-serbo durante la guerra di Bosnia, dandy dissidente, cane da guerra, oppositore nel cuore, pazzo della letteratura, amante delle donne e delle risse, oppositore e poi sostenitore di Vladimir Putin, la sua stessa vita alla vodka è un romanzo incredibile. Slobodan Despot, scrittore serbo ora residente in Svizzera, che ha pubblicato La sentinelle assassinée (La sentinella assassinata) con L’Âge d’Homme di Losanna, lo ha definito un «Rimbaud alla fine del mondo», geniale creatore dalle molte vite che si è fatto simbolo di gran parte della storia russa contemporanea. «Tutto poteva essere trash in lui, ma niente era basso», ha detto, per poi aggiungere: «Avrebbe preferito essere un guerriero piuttosto che un pensatore. Il suo discepolo Zachar Prilepin ha riunito le due cose». Un altro dei suoi più cari amici francesi, lo scrittore e traduttore Thierry Marignac, che ha vissuto a lungo a Mosca e ora risiede a Bruxelles, è della stessa idea.
Eduard Veniaminovich Savenko, più noto come Eduard Limonov, nasce nel 1943 a Djerzhinsk, città industriale dell’ex Unione sovietica, ma trascorre la propria infanzia a Kharkov, in Ucraina. Suo padre è un ufficiale inferiore dell’Nkvd. Da giovane legge Jules Verne e Alexandre Dumas, sognando avventure eroiche. Finisce ben presto in una banda di teppisti responsabile di vari misfatti, come racconterà più tardi nel suo Autoportrait d’un bandit dans son adolescence (Autoritratto di un bandito adolescente) e ne Le petit salaud (Il piccolo bastardo). Al tempo stesso, frequenta la scena bohémien locale - soprattutto i circoli letterari - e comincia a scrivere le sue prime poesie. All’età di 30 anni raggiunge gli Stati Uniti, dove scrive anche romanzi. Si unisce ai circoli punk e alle avanguardie di New York ma vive miseramente, spostandosi di tugurio in tugurio. Si butta nella malavita, frequentando ladruncoli, drogati e senzatetto, con i quali moltiplica le proprie esperienze sessuali (descritte in Le poète russe préfere les grands nègres, cioè Il poeta russo preferisce i grandi negri, opera che in russo si intitola Eto ja - Edička , Sono Edička, dove Edička è l’archetipo del teppista dandy, del poco di buono) prima di trovare lavoro per qualche tempo come domestico per un milionario di New York.
Nel 1980 si trasferisce a Parigi, dove si fa molti amici negli ambienti più anticonformisti della Capitale, scrivendo sulla stampa comunista (L’Humanité) ma anche sulle riviste della destra radicale. Più avanti lo si legge pure su L’Idiot international, foglio incendiario curato dallo scrittore Jean Edern Hallier, dove incontra Patrick Besson, Philippe Sollers e Marc-Edouard Nabe. Si dichiara subito un «nazional-bolscevico». Al crollo del sistema sovietico attacca violentemente Gorbaciov, ma anche il «gendarme del mondo» americano. È in questo periodo che scrive lo straordinario pamphlet Grande ospizio occidentale, ora finalmente disponibile per i lettori italiani.
Tradotta dal russo da Michel Secinski, l’opera esce per la prima volta in Francia nel 1993 da Belles-Lettres, nella collana L’Idiot international. Viene poi ripubblicata nel 2016 da Bartillat, con una nuova prefazione dell’autore. Il titolo russo è ancora più eloquente: Disciplinarnyj sanatorij (Sanatorio disciplinare). La tesi può essere riassunta in poche parole. Vivere nelle società occidentali oggi significa vivere in un ospizio. Un ospizio gestito dalle autorità pubbliche (qui chiamate «amministratori») e popolato non da cittadini ma da pazienti che vivono sotto sedativi, tranquillanti e altri antidepressivi. Finché si comportano in modo obbediente - e la reclusione sotto l’epidemia di Covid-19 è stata un test in scala reale della loro docilità -, vengono accuditi dalle autorità, che offrono loro attività ricreative sempre più sofisticate per distrarli dalla loro condizione. Ma se si ribellano, se si comportano da «agitati», cioè da oppositori che «pensano male», allora viene inflitta loro una severa repressione. In breve, descrivendo il ricovero generale nella società capitalistica avanzata, Limonov evoca la «violenza morbida» così come il totalitarismo morbido, il capitalismo della seduzione e la dittatura dei diritti umani, il moralismo e l’«impero del bene», quello che Christopher Lasch ha definito Stato terapeutico e infantilizzazione programmata, la «moralità» e la «produzione di opinioni prefabbricate», la normalizzazione attraverso la mercificazione del mondo e schiere di schiavi innamorati delle loro catene. Viene in mente ciò che Solzenicyn disse agli studenti di Harvard: «Vengo da un Paese in cui non si poteva dire nulla, e scopro un mondo in cui si può dire tutto senza che ciò serva a nulla».
Sorge allora una domanda: quale libertà rimane quando la preoccupazione principale delle democrazie liberali è quella di governare senza il popolo e contro il popolo? Il libro è stato ispirato a Limonov soprattutto dagli anni trascorsi a Parigi. Per lui, la Francia è il «laboratorio» esemplare in cui viene sviluppato il principio dell’ospizio. Se avesse potuto vedere i deliri a cui hanno portato oggi la teoria del gender, la cancel culture e il wokismo, probabilmente avrebbe scritto che l’intero Occidente è diventato una sorta di ospedale psichiatrico. Durante la guerra in ex Jugoslavia Limonov si impegna ardentemente con i nazionalisti serbi e si lega a Radovan Karadzic. Lo si vede anche in Abcasia e in Transnistria. Nel 1994, tornato in Russia, fonda il Partito nazionalbolscevico (Pnb) con Aleksandr Dugin (che litigherà presto con lui) e lancia il giornale nazionalista-rivoluzionario Limonka («Bomba a mano», in gergo militare). Nel 2001 viene arrestato per traffico d’armi e un tentato colpo di Stato in Kazakistan! Questo gli costa due anni di prigione. Nel 2007 il Pnb viene messo fuori legge. Tre anni dopo, Limonov si unisce agli oppositori di Putin, e lancia il movimento «Strategia 31». Cerca quindi di candidarsi alle elezioni presidenziali, cosa che gli vale un ennesimo arresto. Nel 2016, la biografia romanzata di Limonov dello scrittore Emmanuel Carrère riceve il Prix Renaudot a Parigi, e lo riporta alla ribalta dei media.
A proposito di Carrère, Limonov dice: «Gli auguro di finir male. Tutti i grandi scrittori finiscono male!». Nell’introduzione al suo Libro dell’acqua, scritto in prigione, si chiede quali cose siano state per lui essenziali: «Ne ho scoperte solo due: la guerra e le donne». Nel maggio 2019 torna a Parigi per l’ultima volta, desideroso di portare il suo sostegno ai gilet gialli. È già molto malato, ma continua a bere come sempre, bruciato da quella stessa fiamma che lo ha tenuto in piedi per tutta la vita. Più antiamericano che mai, si dichiara solidale alle repubbliche indipendenti del Donbass e approva l’annessione della Crimea. Continua a pubblicare a tutto spiano. Muore il 17 marzo 2020 a Mosca, all’età di 77 anni. «Questa morte di cancro nel bel mezzo di una pandemia è stata la sua ennesima provocazione», ha scritto Slobodan Despot. Limonov era fiero di essere sempre stato «dalla parte sbagliata». Fiero di essere sempre rimasto libero.
«Ritengo che la storia del mondo e delle società», scrive il sociologo Paul Yonnet, «sia integralmente interpretabile secondo due grandi principi: il principio di egualizzazione e quello di differenziazione (ovvero la tendenza alla somiglianza e quella allo scostamento), tra i quali si instaurano sempre relazioni di riequilibrio, di compensazione (vere, false, simboliche o reali) o di consolazione». Io condivido questo punto di vista, ed è per questo che penso che, dietro la retorica egualitaria, occorra in realtà leggere un’altra cosa: la crescita dell’aspirazione all’omogeneità, al riassorbimento delle differenze, l’ascesa di quella che si potrebbe chiamare l’ideologia del Medesimo. L’ideologia del Medesimo si sviluppa a partire da ciò che è comune a tutti gli uomini. Essa si dispiega tenendo conto solo di ciò che hanno in comune, interpretandolo come il Medesimo. In assenza di un criterio preciso che consenta di valutarla in concreto, l’uguaglianza non è che un altro nome del Medesimo. L’ideologia del Medesimo esibisce dunque l’uguaglianza umana universale come un’eguaglianza in sé, scollegata da ogni elemento concreto che consentirebbe appunto di constatare oppure confutare una tale uguaglianza. Per dirla semplicemente, l’ideologia del Medesimo appare nel momento in cui l’eguaglianza è (a torto) formulata come sinonimo di medesimezza. Si tratta di un’ideologia allergica a tutto ciò che specifica, che interpreta ogni distinzione come potenzialmente svilente, che giudica le differenze contingenti, transitorie, inessenziali o marginali. Il suo motore è l’idea di Unico. L’unico è ciò che non sopporta l’Altro e intende ridurre tutto all’unità: un Dio unico, una civiltà unica, un pensiero unico. L’ideologia del Medesimo si mantiene oggi largamente dominante. [...]
Questa ideologia vuole essere al contempo descrittiva e normativa, poiché pone l’identità fondamentale di tutti gli uomini tanto come un fatto acquisito quanto come un obiettivo auspicabile e realizzabile, senza mai interrogarsi (o facendolo raramente) sull’origine di questo divario tra il già esistente e la realtà che verrà. Essa pare così procedere dall’essere al dover-essere. Ma in realtà è sulla base della propria normatività, della propria concezione del dover-essere che essa postula un immaginario essere unitario, semplice riflesso della mentalità che la ispira.
Nella misura in cui proclama l’identità innata degli individui, l’ideologia del Medesimo si scontra, com’è ovvio, con tutto ciò che, nella vita concreta, li differenzia. Deve allora spiegare che queste differenze altro non sono che caratteristiche secondarie, sostanzialmente insignificanti. Gli uomini possono anche differire molto nell’aspetto, ma ciò non toglie che, in fondo, siano gli stessi. Essenza ed esistenza vengono così scisse, come accade per l’anima e il corpo, lo spirito e la materia, e anche per i diritti (presentati quali attributi della «natura umana») e i doveri (che si esercitano solo all’interno di una relazione sociale, in un contesto preciso). L’esistenza concreta non è più che un’ingannevole ricopertura, che impedisce di vedere l’essenziale. Se ne deduce che l’ideologia del Medesimo non è essa stessa unitaria nel suo postulato. [...]
Per sradicare la diversità, per ricondurre l’umanità all’unità politica e sociale, l’ideologia del Medesimo, il più delle volte, è ricorsa, nelle sue formulazioni profane, alle teorie che collocano nella sovrastruttura sociale gli effetti della dominazione, l’influenza dell’educazione o dell’ambiente, la causa di quelle distinzioni che considera un male transitorio. (Si noti, per inciso, che le teorie in questione individuano delle cause immediate dello stato di fatto che deplorano, senza mai interrogarsi sulla causa di queste cause, cioè sulla loro origine primaria e sulle ragioni per le quali esse riemergono incessantemente). Il male (fons et origo malorum) viene così posto al di fuori dell’uomo, come se l’esterno non fosse innanzitutto il prodotto dell’intimo. Modificando le cause esterne, si giungerebbe a trasformare il foro interiore dell’uomo, oppure a far emergere la sua vera «natura». Per riuscirci si ricorre talvolta a metodi autoritari e coercitivi, talora a condizionamenti o contro-condizionamenti sociali, a volte al «dialogo» e all’«appello alla ragione», senza d’altronde ottenere maggiori risultati nell’un caso che nell’altro, visto che il fallimento lo si attribuisce invariabilmente, non ad un errore nelle posizioni di partenza, bensì alla quantità ancora insufficiente dei mezzi impiegati. L’idea latente è quella di una società pacificata e perfetta, o almeno di una società che diverrebbe «giusta» nel momento in cui fossero fatte scomparire tutte le contingenze esterne che impediscono l’avvento del Medesimo.





