2019-02-19
Lo Stato si riprenda la Banca d’Italia per mettere al sicuro il nostro oro
Per fugare i dubbi sulla proprietà delle riserve auree basterebbe approvare una legge per nazionalizzare l'istituto, le cui quote ora sono in mano ai privati. Giulio Tremonti fece una riforma ad hoc, poi abrogata da Enrico Letta.È possibile risolvere il problema dell'oro della Patria con una sottospecie di sillogismo? Pensiamo al celebre fondamento della logica aristotelica: tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, ergo Socrate è mortale. Nel caso dell'oro potrebbe funzionare così: la Banca d'Italia possiede l'oro, l'Italia possiede la Banca d'Italia, ergo l'Italia possiede l'oro. Potrebbe sembrare un giochino, in realtà ha basi giuridiche molto più solide rispetto all'idea di riportare a casa le riserve auree attraverso il sistema dell'interpretazione autentica. L'interpretazione autentica consiste nel chiarimento del senso da attribuire a una norma previgente (di dubbio contenuto) effettuato dallo stesso organo che l'ha emanata. Ma la proprietà di un bene non si acquista con una legge siffatta, ma con una compravendita. La domanda è: chi ha comprato l'oro italiano?Intendiamoci, l'iniziativa dei promotori di cui ha parlato La Verità sul piano del buonsenso ha un suo perché. Le 2.452 tonnellate d'oro attualmente detenute dalla Banca d'Italia sono state acquisite in un lunghissimo arco di tempo da un ente di diritto pubblico le cui quote appartenevano, quantomeno fino ai primi anni Novanta, a enti pubblici. Ora, secondo l'interpretazione classica, ma anche secondo la direttiva Ce 18/04, l'ente di diritto pubblico è connotato dal fatto di soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale. Non solo. Gran parte di quell'oro (il grosso dell'attuale «malloppo»: almeno 2.000 tonnellate) venne comprato, a partire dal 1951 e fino al 1960, dall'Ufficio italiano cambi, un ente strumentale (poi soppresso) di Banca d'Italia, ma che operava per conto e sotto la vigilanza del Tesoro. Insomma, sia l'Ufficio italiano cambi sia la Banca d'Italia hanno agito nell'interesse della collettività nazionale anche quando accumulavano oro nei caveau. Poi, però -pur restando istituto di diritto pubblico - Bankitalia ha finito per essere «posseduta» pro quota da varie banche private (oggi, in larga maggioranza, da Intesa Sanpaolo, Unicredit, Generali, Carige e Cassa di risparmio di Bologna).L'obiettivo di rivendicare l'oro all'Italia, perseguito con l'interpretazione autentica, è dunque tutt'altro che campato in aria. Soprattutto se consideriamo che neanche la Banca d'Italia ha le idee chiarissime. Nel suo sito, infatti, si trovano due affermazioni contraddittorie. Da un lato si legge che essa «amministra le riserve ufficiali del Paese» e dall'altro che «l'ordinamento assegna la proprietà delle riserve alla Banca d'Italia». Fare chiarezza è più che mai opportuno. C'è da chiedersi se l'interpretazione autentica sia la strada migliore: alla domanda iniziale (chi ha comprato quell'oro?), ragionando da azzeccagarbugli, Via Nazionale potrebbe rispondere: l'ho comprato io, quindi è mio. Infatti, il metallo è stato acquistato da enti di diritto pubblico in grado di essere centri di imputazione di diritti e doveri giuridici e quindi, tra l'altro, di acquistare la proprietà di beni mobili e immobili. Se l'oro è stato acquistato da Banca d'Italia (o dall'Ufficio italiano cambi che poi l'ha trasferito alla prima), non è azzardato sostenere che l'oro è di Banca d'Italia. E allora? C'è una strada molto lineare, conforme ai trattati europei, e già sperimentata dal nostro Paese: nazionalizzare Bankitalia. Il percorso fu tentato con una legge del 2005, la numero 262, che prevedeva, all'articolo 19 comma 10, nel giro di tre anni, il ritorno in capo allo Stato o ad altri enti pubblici delle quote di partecipazione della Banca ancora possedute da privati. Nessuno si curò di dare attuazione a quanto previsto da tale normativa. Anzi, il governo Letta, con due righe inserite nel decreto legge numero 133 del 30 novembre 2013, abrogò la rivoluzionaria riforma voluta da Giulio Tremonti.Quindi, un modo per risolvere il rebus sull'oro italiano c'è, ed è tornare alle origini. A quando cioè la Banca d'Italia era d'Italia davvero. Se Bankitalia fosse nazionalizzata, tutti i suoi beni, compresi i lingotti e i dobloni di cui oggi tanto si parla, automaticamente transiterebbero in capo allo Stato italiano. E ciò senza la necessità di leggi di interpretazione autentica. Tra l'altro, neppure reggerebbe l'obiezione, pure rinvenibile nel sito di Bankitalia, secondo cui ormai i giochi sono fatti perché le riserve auree costituirebbero, in base all'articolo 127 del Trattato di Lisbona, «parte integrante delle riserve dell'Eurosistema». L'articolo 127, infatti, prevede che la Bce detenga le riserve in «valuta estera» degli Stati membri, non le riserve auree. Infine, la riforma con cui dirimere una volta per tutte la faccenda dell'oro non sarebbe solo semplice, ma anche elegante e ineccepibile sotto l'aspetto del diritto italiano ed europeo. A meno che non si voglia obiettare che in questo modo si attribuirebbe l'oro a un'autorità pubblica, con rischi per l'affidabilità, la credibilità e l'indipendenza del famoso «sistema». Ma perché mai gli attuali soci privati di Bankitalia dovrebbero essere in grado di garantire l'indipendenza e l'oculato impiego delle risorse auree italiane e lo Stato invece no?
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)