2024-11-10
Più che i dazi, l’Italia teme il collasso tedesco
Il governo dovrà negoziare con Trump le tariffe sui prodotti venduti negli Usa, ma può contare su rapporti solidi e compensare con il Sudamerica. I guai di Berlino (e di Parigi) mettono a rischio il tessuto delle Pmi del Nord, che dovranno reinventarsi.Effetto dazi. Scontato che all’indomani della schiacciante vittoria americana di Donald Trump, i tagli economici di giornali e tg fossero pieni di analisi e studi sulle conseguenze negative per l’Europa e quindi per l’Italia delle probabili nuove tasse (perché alla fine di questo si tratta) in arrivo dagli Usa. Trump l’ha detto in tutte le salse e quindi alla fine lo farà. C’è solo da capire entità e flessibilità del balzello. Non proprio un dettaglio visto che il sistema Italia nel 2023 ha esportato circa 67 miliardi di beni negli Stati Uniti, importandone appena 25. Con ogni probabilità Washington ci chiederà di ridurre l’avanzo commerciale e lì si aprirà una partita one to one rispetto alla quale è lecito ipotizzare che i buoni rapporti tra i due governi di centrodestra e le relazioni ormai consolidate con uno dei principali esponenti della new generation trumpiana, Elon Musk, possano fare la differenza. «Oggi l’Italia vanta un surplus commerciale verso gli Stati Uniti», evidenzia alla Verità Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity e consigliere del governo, «che richiederà per forza di cose una rinegoziazione. Noi dobbiamo lavorare per compensare le perdita con la conquista di nuovi mercati, come quello sudamericano, che hanno ottime prospettive di crescita». Detto questo, va anche sottolineato che le politiche protezionistiche dovrebbero portare a una crescita di salari e consumi americani e quindi, una parte della ricchezza che l’Italia perderà per i dazi potrebbe essere compensata dalla «voglia» di made in Italy che, dalla moda fino all’alimentare, agli Usa non fa mai difetto. Il problema, comunque, ci sarà e nessuno lo nega, così come è corretto iniziare a porselo adesso per provare ad anticipare le soluzioni. Il punto è che l’Italia ne ha altri di problemi, che in realtà insistono sulla realtà economica del Paese già da un po’ di tempo. E che dovrebbero avere la precedenza. Il principale si chiama Germania che sta festeggiando i 35 anni dalla caduta del muro nel pieno di una delle crisi più acute della sua storia recente. I numeri dicono molto ma non tutto. Del Pil che vira in negativo, del crollo della produzione industriale e della storica chiusura di stabilimenti come quelli della Volkswagen con l’immancabile taglio di migliaia di posti di lavoro si sa tutto, ieri però Il Sole 24 Ore pubblicava un dato che contribuisce a far cadere un altro mito della locomotiva tedesca. Negli ultimi giorni infatti il rendimento dei decennali di Berlino, i Bund che sono considerati l’obbligazione rifugio per eccellenza, ha superato quello del tasso (l’Irs) che viene ritenuto dai mercati senza rischio. Morale della favola, da qualche ora i titoli tedeschi si possono ritenere un investimento «pericoloso». Non era mai successo dal 1999.Il punto è che l’Italia è strettamente legata alla Germania e anche se la bilancia commerciale ci dice che nel 2023 abbiamo esportato 74,6 miliardi di beni nei vari Länder contro importazioni che sfioravano quota 90 miliardi, non si può dimenticare che il cuore produttivo del Paese deve ai costruttori d’auto tedeschi buona parte delle sue fortune. Migliaia di piccole e medie imprese in Piemonte, Lombardia e Veneto sono un tutt’uno con la Germania. «La crisi strutturale di Berlino», spiega ancora Torlizzi, «impatterà in modo importante sulla nostra componentistica, quindi dovremo essere bravi a incentivare la transizione della stessa componentistica verso il settore della difesa che sarà uno dei comparti trainanti. E ci auguriamo che nei prossimi anni possa essere sempre più italocentrico». Detto in altre parole. La crisi tedesca dell’auto è irreversibile, nel senso che il passaggio verso l’elettrico, che non sta funzionando, obbliga per forza di cose anche i fornitori di componenti a riprogrammare completamente le strategie per il futuro. In questo contesto l’Italia dovrà riuscire a spostare l’indotto dall’auto verso altri settori trainanti. E quello della difesa, è un’altra delle conseguenze del trionfo di Trump, è di sicuro uno di questi. Peraltro, che la Germania rappresenti la principale destinazione dell’esportazione manifatturiera italiana è risaputo, meno noto è che più di metà delle vendite (il 58%) riguarda i componenti non solo dell’auto che le piccole e medie imprese della meccanica e del settore chimico riescono a cedere nei vari Lander di riferimento. Avviare una transizione che riguarda migliaia di Pmi si presenta come una sfida epocale per il tessuto industriale del Paese. Anche perché se Berlino piange, Parigi, l’altro architrave del sistema economico europeo, non ride di certo. I numeri della crisi francese sono forse meno preoccupanti, ma la dissoluzione del tessuto sociale e politico è per certi versi più grave. Nel 2023 le esportazioni italiane hanno raggiunto quota 63 miliardi, contro un import di poco superiore ai 46 miliardi. Un avanzo commerciale di quasi 20 miliardi che viene confermato anche nel 2024. Attenzione però perché la mancanza di un governo stabile e di una linea politica definita potrebbe ritardare le scelte strategiche e peggiorare i fondamentali dell’economia. Anche se i rapporti Parigi-Roma non si contano ma si pesano, nel senso che con una Francia più debole è possibile anche che il pressing transalpino su risparmio, tlc, automotive e lusso del Belpaese rallenti. Ma qui siamo nel campo dei wishful thinking.