2018-10-02
L’istrione malinconico che non era mai triste
Voce inconfondibile, capace di variazioni dal velluto alla carta vetrata, faccia da quarto moschettiere, saggezza cosmopolita, l'artista era coccolato dal potere come chansonnier globale. Ha trascorso 70 anni cantando amori complicati e senza speranza.Due anni fa a Verona scendeva le scale dell'albergo come il notaio degli Aristogatti, allegro e malfermo, prima del concerto all'Arena con 8.000 fans ad aspettarlo. A un certo punto fece finta di perdere l'equilibrio e ai giornalisti che si precipitarono a sorreggerlo per evitare il ruzzolone sussurrò in perfetto italiano: «Ci siete cascati». Questa volta ha finito davvero, Charles Aznavour, a 94 anni, sazio di giorni, di canzoni, di applausi e di sole del Sud, a Mouriès nelle Alpi provenzali dove 30 anni fa aveva scelto di vivere. Ha salutato e si è addormentato, come aveva scritto in un suo brano immortale (Il faut savoir): «Bisogna saper lasciare la tavola, alzarsi con indifferenza. Bisogna saper lasciare la vita, ma l'amo troppo ancor e dirle addio non so».I numeri non dicono mai tutto, qualche volta non dicono niente, ma sempre rendono l'idea: 300 milioni di dischi, 294 album, 1.200 canzoni in sette lingue, concerti in 94 paesi, 80 film e una leggerezza che gli faceva interpretare il ruolo del nonno di Francia fischiettando come 62 anni fa quando Edith Piaf lo portò in tournée perché aveva del talento. Lui cantò Sur ma vie all'Olympia e venne giù il teatro. Voce inconfondibile (la Aznarvoice), capace di variazioni dal velluto alla carta vetrata, faccia da quarto moschettiere, saggezza cosmopolita, Aznavour era coccolato dal potere come chansonnier globale, icona transalpina della mondializzazione suo malgrado. Eppure a chi lo chiamava artista era solito rispondere: «Esagerato. Sono solo un artigiano». E a chi gli gettava sulle spalle la responsabilità d'essere stato il primo profugo dell'era moderna replicava ricordando: «Sono nato a Parigi nel 1924 da genitori armeni, mi sento al cento per cento francese e al cento per cento armeno. Nessuna confusione: ho due culture e non le mischio mai». Nonostante questo, ieri a Le Monde non è parso vero scrivere: «Lui era la Francia internazionalista, terra di accoglienza, che sa insegnare ai figli della Repubblica i valori fondamentali, ma anche lo charme, il romanticismo sexy e una sorta di leggerezza ed equilibrio costante tra il Nord introverso e il Sud stravagante». La narrazione è sempre quella che fa comodo, ma Aznavour non ha lasciato molti margini di discussione. Sul palco questo gigante di un metro e 60 ha fatto innamorare milioni di appassionati; con le sue melodie ha fatto struggere milioni di innamorati (Bohème, Lei, Ieri sì, Quel che non si fa più, L'istrione); con i duetti ha prolungato la sua carriera oltre le soglie dell'impossibile, cantando a fianco di Frank Sinatra, Liza Minnelli, Elton John, Compay Segundo, Bob Dylan, Placido Domingo, Mia Martini, Céline Dion. Ma giù dal palco ha pensato, riflettuto, espresso ciò che aveva nella mente e nel cuore ogni giorno, seguendo gli impulsi di un carattere estroverso ma mai spaccone. Così Shahnour Vaghinagh Aznavourian (all'anagrafe fu iscritto così) sulla patria dei suoi avi ha messo più volte in imbarazzo l'Eliseo, prima facendo l'ambasciatore armeno in Svizzera, poi quando se n'è uscito con questa frase: «Applaudo papa Francesco che a Erevan ha parlato del genocidio operato dai turchi. Lo ha chiamato proprio così, è stato coraggioso, incurante della timidezza con cui il resto del mondo, tranne la Germania, tace». E anche sul cruciale tema dei migranti non è stato poi così allineato come la pubblicistica macroniana pretenderebbe. Cinque anni fa, commentando l'espulsione dalla Francia di una famiglia kosovara irregolare, disse a Le Parisien: «Bisogna meritare di diventare francesi, chi fa figli solo perché questo è un modo per avere diritti e denaro è abominevole». Sempre in quell'intervista ricordò con tenerezza e determinazione lo status della sua famiglia. «Quando i miei genitori arrivarono in Francia non avevano aiuti sociali, hanno lavorato duro per diventare poco a poco francesi. Mio padre ha dovuto entrare a far parte della Resistenza. Essere francese è sposare la lingua della Francia, la sua cultura, e non volere essere altro».Aznavour ha molto amato l'Italia e gli italiani. Silvio Berlusconi, nella stagione giovanile da singer sulle crociere, cantava spesso la hit L'istrione, poi replicata per gli amici ad Arcore. Quando il cantante francese si rifiutò di duettare con lui in piazza del Duomo a Milano nel 2009, il Cavaliere disse: «Non vuole fare brutta figura». Aznavour venne a saperlo, si fece una risata e commentò: «Silvio mi piace perché è matto e io ho sempre amato i matti».Ha trascorso gli ultimi 70 anni cantando, non poteva essere un uomo triste. Sognava di tenere un concerto in Russia, in una delle sette lingue conosciute («Ho un bell'accento, non avrei problemi») e sperava di avere ancora un po' di tempo per continuare a disubbidire a sua madre che gli aveva lasciato la ricetta della longevità: evitare zuccheri, grassi, sale. Ma lui eccepiva: «Ne ho fatto largo consumo e sono ancora qui». Nuotava dieci vasche tutte le mattine e spiegava che il segreto per arrivare ai cento anni era tenere la schiena dritta, in tutti i sensi. «Si comincia a invecchiare davvero quando si curvano le spalle». L'estate scorsa Aznavour è stato costretto a interrompere un tour in Giappone per la frattura a un braccio riportata in una caduta. A chi gli chiedeva se avesse cominciato a pensare al grande passaggio, spiegava: «Ormai dovremmo essere abituati, quando si è nati si muore di sicuro». Poi ha ripreso a cantare quelle sue ballate disperate, piene di amori complicati e senza speranza. «La gente felice non ha una storia, gli infelici sì, solo che le chiamano disgrazie». Ci sono tre modi di affascinare il mondo: l'intelligenza, il potere e l'umorismo. Aznavour ha scelto quest'ultimo, mascherato d'una malinconia tutta francese, da sciogliere in una coppa di champagne.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)