
Il governatore dell'Emilia Romagna: «Vogliamo gestire meglio le risorse che abbiamo. Temo però che se nel governo prosegue questo scontro ideologico non se ne farà nulla».Stefano Bonaccini, governatore dell'Emilia Romagna, nel momento in cui esplode la grande polemica sulle autonomie, non teme di essere considerato un traditore della patria, almeno a sinistra?«La mia patria è l'Italia, una e indivisibile, e il mio compito è far funzionare al meglio l'Emilia-Romagna. Il resto sono chiacchiere che non parlano del merito». E il merito quale è? «La nostra è una regione con una profonda tradizione di buongoverno e di autonomia, mai disgiunta dall'interesse nazionale e dalla solidarietà con gli altri territori». Lei sta sostenendo Lombardia e Veneto? «Sostengo l'Emilia Romagna. E credo che il centrosinistra debba avere una propria proposta di buona autonomia, capace di coniugare l'efficienza e la responsabilità di governo locale con l'interesse nazionale». Questo modello per lei può diventare il progetto di tutto il Pd? «Perché no? Noi lo abbiamo condiviso con tutte le rappresentanze sociali e istituzionali del nostro territorio. Non ha ricevuto un solo voto contrario nell'Assemblea legislativa regionale, neppure dall'opposizione, Lega e 5 stelle compresi. Se il Pd facesse altrettanto sarebbe una buona cosa». A sinistra si pensa che l'autonomia rischia di diventare la secessione delle regioni ricche che si separano, senza spargimenti di sangue, da quelle povere.«La nostra proposta non chiede allo Stato un euro in più di quanto già non stia spendendo sul nostro territorio. Dunque non togliamo nulla ad altri. Questa critica non può certo essere rivolta all'Emilia Romagna». No?«Noi non abbiamo mai invocato i famosi residui fiscali né abbiamo accettato che ci si possa attestare sulla spesa media per funzione».E allora che cosa cambia?«Chiediamo che si definiscano sia i fabbisogni standard sia i livelli essenziali delle prestazioni, perché lo stesso diritto deve valere come tale in ogni parte del Paese». Il principio di sussidiarietà resterebbe intatto? «Siamo da sempre favorevoli al fatto che i territori più forti diano una mano a quelli più fragili, purché tutti si pongano il problema di essere più efficienti».Stefano Bonaccini. Modenese, 52 anni, governa l'Emilia Romagna dal 2014. In questi mesi ha associato la sua voce - da sinistra - a quella di chi chiede più autonomia. In questa intervista spiega come, perché, e respinge ogni accusa di «fare il gioco del giaguaro». Con l'autonomia l'Emilia Romagna migliorerebbe la sua efficienza?«Di sicuro. Superare le sovrapposizioni istituzionali, ridurre frammentazione burocratica e tempi di risposta a cittadini e imprese, rafforzare la programmazione: sono gli obiettivi che ci siamo posti». E tutto questo senza un euro in più? «Non si tratta di avere più risorse, ma certezza e programmabilità per poter spendere bene».Mi faccia un esempio. «Glielo dice il presidente di una Regione tra le meno indebitate, che ha centralizzato gli acquisti risparmiando centinaia di milioni di euro, che è la più veloce nell'impiego dei fondi nazionali ed europei, che è regione benchmark in sanità. Le basta?». In linea di principio sì. Ma facciamo un esempio concreto. «Noi abbiamo chiesto competenze in ambito di rigenerazione urbana, e abbiamo approvato una legge che blocca il consumo di suolo». E l'autonomia che cosa c'entra? «È decisivo avere organicità delle norme e un unico fondo regionale, in cui far confluire le nostre risorse e la quota parte di quelle nazionali che ci spettano». Che cosa cambierebbe? «Cosí potremmo garantire regole certe di intervento e risorse programmabili per il sostegno alla riqualificazione e al recupero degli spazi urbani nei Comuni». Non teme, ammesso che questo vostro sia un percorso virtuoso, di diventare il grimaldello che fa saltare il principio di sussidiarietà?«Al contrario: la sussidiarietà è quel principio per cui è giusto che una funzione sia gestita il più possibile vicino ai cittadini». Il rischio è che, un volta saltato il vecchio sistema nazionale, ne nasca uno nuovo in cui ognuno contratta per sé. «Noi non abbiamo chiesto più competenze per la Regione, ma per il sistema territoriale regionale, dove i Comuni sono protagonisti. Da noi nessuno paventa il rischio di un neocentralismo regionale: non è nel nostro dna. Il nostro compito è legiferare e programmare, la gestione spetta agli enti locali». La sua battaglia è la stessa di Zaia e di Fontana? O ci sono differenze?«Abbiamo svolto un percorso comune, ma su progetti diversi. Noi, ad esempio, non abbiamo mai chiesto la regionalizzazione della scuola, o delle concessioni autostradali, né la tutela ambientale e del patrimonio storico». Mi sembra di sentire un ragazzo che dice alla madre dopo una serata con gli amici: «Loro fumavano ma io non ho aspirato...».«Premesso che non ho mai fumato, sto parlando seriamente e al fondo c'è questo: Veneto e Lombardia hanno chiesto quanta più autonomia possibile, mentre per noi l'autonomia non è un fine, ma uno strumento con cui realizzare obiettivi di miglioramento». Ad esempio dove? «Messa in sicurezza di edifici e territorio, programmazione della gestione dei rifiuti, edilizia sanitaria. Per ogni obiettivo abbiamo fatto una ricognizione degli strumenti necessari e quelli abbiamo chiesto, non uno di più. E non ce n'è uno che divida il Paese o penalizzi altre Regioni». Che cosa ha capito del progetto del governo? Che cosa le piace e cosa no? «Manca un disegno complessivo. Se devi rapportarti con tre o quattro Regioni, devi anzitutto chiarire sulla base di quali criteri accorderai o no determinate funzioni». E poi? «Manca la cornice del disegno: fabbisogni standard e livelli essenziali delle prestazioni». Bisogna dettagliare tutto prima di poter attuare l'autonomia?«Devi fissare, con il Parlamento, e con tutte le Regioni, i paletti entro cui vuoi disegnare la devoluzione di determinate competenze». Con il ministro Stefani ci parla? «Ho un ottimo rapporto con la ministra, con lei la collaborazione è costante e leale. Ma un ministro, da solo, non può comporre il tutto se manca la volontà del governo nel suo insieme di determinare un risultato». E che cosa manca? «Da oltre un anno ogni settimana ci dicono: “La prossima settimana si chiude!", aggiungendo roboanti interviste e annunci. Dopodiché non solo non accade nulla, ma aumenta la litigiosità tra Lega e M5s! Un teatrino imbarazzante e surreale».Si può immaginare un sistema a macchia di leopardo in cui alcune Regioni avocano le competenze su alcuni temi e alcune su altri temi?«Se hai definito la cornice e le funzioni che intendi trasferire sì, e non sarebbe un Paese a macchia di leopardo, bensì uno Stato in cui si ottiene autonomia differenziata su specifiche funzioni nell'ambito di una cornice nazionale comune. Devolvere l'organizzazione delle aziende sanitarie o la valorizzazione dei beni culturali non comporta un arlecchino, così come il riordino delle funzioni tra Regione, Province e Comuni nei procedimenti amministrativi in materia ambientale. Cosa diversa è invece se decidi di frantumare il reclutamento e la contrattualizzazione degli insegnanti. È decisamente più complesso, a parte le valutazioni politiche, tenere insieme a quel punto regimi diversi». Si può dare alle regioni la possibilità di assumere gli insegnanti senza passare per il ministero? «Credo che il sistema nazionale di istruzione sia oggi ancor più necessario di ieri, se vogliamo costruire cittadinanza. Per questo l'Emilia Romagna non ha mai chiesto né di assumere gli insegnanti né di fare contratti territoriali». Però anche voi volete il controllo sugli organici. «Programmare, non controllare. Abbiamo chiesto di programmare i fabbisogni degli organici di concerto con il ministero, perché conosciamo i nostri andamenti demografici molto meglio del governo». Mi faccia un esempio. «È inaccettabile che ogni anno a settembre i nostri ragazzi inizino la scuola senza avere ancora gli insegnanti che li devono accompagnare tutto l'anno!». Volete anche più poteri sull'edilizia scolastica.«Abbiamo chiesto di gestire con Province e Comuni le risorse che già ci spettano, non un euro di più». Perché lo fate meglio? «Dopo il terremoto del 2012 tutti gli edifici furono danneggiati e resi inagibili. Eppure nessun ragazzo perse un solo giorno di scuola e oggi tutte le scuole sono più sicure e moderne di prima. Si chiamano efficienza e programmazione, che è quel che chiediamo».Lei rappresenta la Regione dove è nato il tricolore: questo processo di negoziazione mette a rischio l'unità del Paese o no?«Se gestito con gli obiettivi e i paletti che ho indicato certamente no, è anzi una grande occasione di ammodernamento e semplificazione dal basso». C'è un'altra possibilità? «Se invece l'esito fosse affidato a un braccio di ferro tra due forze politiche ogni esito diventa possibile». Lei che cosa prevede? «Temo che alla fine non se ne faccia nulla come spesso avviene in questo Paese». E che cosa può impedire questo risultato? «Ho sfidato il governo ad abbandonare lo scontro ideologico e assumere il nostro progetto come possibile impianto per coinvolgere tutti. Sarebbe una rivoluzione gentile ma concreta, responsabile».
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.
Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.






