
L'ex ambasciatore a Washington: «Il fronte degli analisti rispecchia le posizioni favorevoli a Joe Biden. I numeri dell'economia danno ragione al presidente e i suoi comizi sono affollati. Deciderà l'8% di indecisi».Sergio Vento, già ambasciatore italiano a Washington, Parigi e Belgrado, ha accettato una conversazione con La Verità a otto giorni dalle elezioni Usa del 3 novembre prossimo.Ambasciatore, anche lei pensa che quella notte non avremo un vincitore, ma l'inizio di lunghe settimane di contestazioni? «Tutto lascia presagire questo scenario. Anche se l'ultimo dibattito tra Trump e Biden, grazie all'escamotage dei microfoni spenti quando parlava l'altro, ha evitato il clima di rissa del primo confronto, resta la realtà di una strisciante guerra di valori e di principi, che va molto al di là del dissenso sulle policies, cioè sull'una o sull'altra ricetta o indirizzo politico sui singoli temi».Lo spartiacque è assoluto, par di capire…«Citando la nota formula di Pat Buchanan, è il confronto tra due visioni classiche: “repubblica" contro “impero". La prima visione vede gli Usa concentrati essenzialmente sulla crescita, la seconda - adottata da tanto tempo dai democratici - vede l'America proiettata nel mondo, importandone inevitabilmente elementi che hanno finito per scuotere i valori dell'America tradizionale. Questo confronto epocale è esploso durante la presidenza Trump».Al di là dei conflitti legali sul voto postale, crede che sarà forte la spinta a non «concedere», cioè a non riconoscere immediatamente la vittoria dell'avversario?«Il 3 novembre mi pare difficile che si chiuda la partita. Il 30% degli americani ha già votato per posta, con schede auspicabilmente conservate e custodite. Lo spazio per contestazioni sarà enorme, e si andrà a ritroso per verificare la regolarità del voto già espresso. Per questo prevedo nei due campi una fortissima riluttanza a “concedere" la vittoria agli altri, con notevoli possibilità che la disputa legale finisca davanti alla Corte suprema, che oggi avrebbe uno schieramento, diciamo, 6-3 pro repubblicani (la Corte ha 9 membri, e Trump ha appena nominato una nuova giudice costituzionale, ndr)».La cosiddetta «transition of power» è da molti anni sempre meno scontata in America. Come mai è così difficile accettare che il governo del tuo avversario sia legittimo?«Molto è cominciato nel 1992 con il successo di Bill Clinton contro Bush padre, un presidente autorevole, già vice di Reagan, già capo della Cia, protagonista della cacciata di Saddam dal Kuwait, eppure sconfitto a sorpresa da un oscuro governatore dell'Arkansas. Anche per questo gli otto anni di Clinton furono esposti a contestazioni, culminati come ricordiamo in una vicenda boccaccesca…».Poi?«Nel 2000 a essere sconfitto fu Al Gore, il vice di Clinton, con la nota contestazione dei voti in Florida: e quella volta furono i democratici a recriminare. Nel 2008 vinse Obama, presidente che rappresentava una frattura agli occhi di molti americani. E infine, nel 2016, toccò a Hillary Clinton perdere a sorpresa, anche a seguito di contestazioni e rotture nel suo partito».Che cosa intende comunicarci con questo excursus storico?«Che dai primi anni Novanta, un meccanismo riequilibratore, il famoso “mainstream", funziona sempre meno, e assistiamo a successioni presidenziali agitate, a contese fortissime non solo tra i due campi, ma anche dentro i due partiti. Si pensi tra i dem al fenomeno Sanders. E si pensi, dentro i repubblicani, ai neocon contro Trump».Trump si è schierato da sempre contro quelle che chiama le «endless wars».«Non le ha solo definite “interminabili", ma pure “stupide". Trump è un dealmaker, vuole accordi, punta sulla “massima pressione", non sulle guerre. Non solo: di recente ha fatto battute altamente significative sui generali del Pentagono che “s'inventano" le guerre anche per compiacere alcuni settori industriali. In fondo lo stesso recente Accordo di Abramo cos'è? È un modo per svuotare la minaccia iraniana in Medio Oriente puntando a creare momenti di crescita e sviluppo».Parliamoci chiaro: Trump avrà un carattere difficile, ma gli hanno reso per quattro anni la vita impossibile, come se fosse stato un usurpatore anziché il presidente legittimo.«Non c'è dubbio, è stato oggetto di un assedio. Ha infranto alcuni tabù. Ha scosso le certezze dei grandi media (Cnn, New York Times, Washington Post), dei social media, dei templi delle relazioni internazionali, dalla Brookings al Council of foreign relations, che avevano anche avallato errori di amministrazioni passate. Un certo establishment internazionalista ha reagito: si è visto smontare da Trump un sistema di analisi, lettura e influenza negli Usa e nel mondo».I sondaggi danno Trump indietro anche negli Stati in bilico, ma con un margine inferiore al vantaggio che, in quegli stessi Stati, veniva attribuito a Hillary Clinton quattro anni fa. È possibile un'altra sorpresa?«Attenzione, il fronte dei sondaggisti rispecchia quello dei media e dei think tank, e quindi da inizio anno sono partiti con l'idea di una designazione di Biden: c'è stato dall'inizio una specie di partito preso…».Quegli stessi sondaggi, pur premiando Joe Biden, attestano che una larghissima maggioranza di americani ritiene Trump più affidabile per rilanciare l'economia. Possibile che l'assedio contro Trump o il dato - diciamo - «caratteriale» finisca per oscurare la performance economica della sua amministrazione, che, fino al Covid, era stata eccellente? Ricordiamo che a febbraio la disoccupazione era distrutta, al 3,5%.«Verissimo, Trump aveva creato un numero impressionante di posti di lavoro. Certo, potremmo dire con un gioco di parole che ha i difetti delle sue qualità e le qualità dei suoi difetti: la sua natura si presta al prevalere dell'aspetto caratteriale sull'analisi della realtà obiettiva, che è poi quello che i suoi nemici desiderano. E non c'è dubbio che il coronavirus lo abbia colpito al cuore, ma…».Ma?«È vero che i numeri Usa sono spaventosi. Però se si sommano i numeri di Regno Unito, Francia, Spagna e Italia (in media 65 milioni di abitanti ciascuna: e tutte insieme fanno una popolazione paragonabile a quella Usa), escono fuori numeri analoghi a quelli americani sul Covid. Si obietta: ma in Usa ci sono sacche di povertà estrema e un sistema sanitario diverso. Vero, ma l'una e l'altra cosa esistevano anche prima di Trump, e non sono certo addebitabili a lui».Non le chiedo un pronostico, ma un'interpretazione dei prossimi 8 giorni.«Io vedo un enorme supporto dei suoi sostenitori verso Trump. Nei momenti del crollo, in genere, sei solo: invece i suoi raduni sono affollatissimi. Diciamo che tutto è in mano a un 6-8% di indecisi. Sento dire, e può esser vero, che i suoi toni sul Messico e sul famoso muro possano avergli fatto perdere qualche frazione presso gli elettori ispanici. Sento dire, ma questo mi persuade meno, che possa costargli la risposta forte della polizia ai disordini: ma la polizia dipende da sindaci che spesso sono dem, e anche il numero di afroamericani nelle forze dell'ordine è molto consistente».Scenario uno. Vince Biden. Un luogo comune abbastanza scontato dice che una presidenza Biden ricucirebbe con l'Europa. Ma questo vorrebbe dire un'ulteriore legittimazione di Berlino e Parigi. Come dovrebbe giocare la sua partita l'Italia? «Non è che Biden e i suoi consiglieri si siano sbracciati più di tanto a favore dell'Europa, che non gode di particolare simpatia presso gli elettori Usa, è percepita come egoista e opportunista, senza dire che la Germania ha addirittura un surplus commerciale con la Cina. Certo, sul piano del linguaggio e dei toni Biden sarebbe diverso da Trump, ma sulla sostanza non saprei… In fondo lo stesso Ttip (Trattato transatlantico su commercio e investimenti, ndr) è fallito durante la presidenza Obama, non dimentichiamolo».Biden rovescerebbe i successi della politica estera di Trump? C'è da temere che il regime di Teheran tornerebbe a essere più centrale?«Diffiderei delle semplificazioni. È vero, l'accordo obamiano aveva tolto le sanzioni sul nucleare, ma aveva lasciato le sanzioni legate alle politiche iraniane destabilizzanti nella regione (Libano, Iraq, eccetera), anche dissuadendo pesantemente le banche italiane, tedesche e francesi dal fare affari con Teheran».Scenario due. Vince Trump. Come sarebbe il suo secondo mandato?«Torniamo alla sua natura di dealmaker, all'uomo delle transazioni e non delle guerre. Potrebbe operare un taglio al bilancio della Difesa, con l'obiettivo di ridurre le tasse e aumentare la spesa sociale». E l'Europa nei suoi confronti?«Dipenderebbe più dall'Ue che da lui, per certi versi. Pensi alla Cina: solo di recente l'Europa ha leggermente inasprito i toni accennando alla riforma del Wto. L'Ue dovrebbe essere capace di intavolare un serio discorso con gli Usa, chiunque sia il presidente, su come fronteggiare il rischio cinese: riforma del Wto, maggiore reciprocità, stop a un certo 'short-termism' e a un affarismo spicciolo che ha mostrato mancanza di visione».Lei ha la sensazione che la politica italiana si stia preparando adeguatamente a questi scenari? «Mah, sentiremo le solite frasi: “Siamo pronti a collaborare…". Per il resto, diciamo, si ha difficoltà a individuare una politica estera italiana… Però gli americani gradirebbero un po' di attivismo da parte dei loro alleati. Non dovremmo solo chiedere a loro cosa intendano fare sulla Libia o su altri dossier, ma dovremmo dire cosa vogliamo fare noi. Esempio: l'Italia avrà la presidenza del G20, ma l'agenda italiana per ora è molto timida, elude i problemi veri a partire dalla Cina. Sarebbe invece importante arrivare con idee più robuste, a partire dalla necessaria riforma del Wto».E dovremmo essere meno attendisti anche in Ue.«Anche la vicenda del Recovery Fund lo dimostra. In Ue adottiamo un atteggiamento di attesa (“attendiamo le risorse…"), rischiando di passare per assistiti, poi pratichiamo all'interno dei nostri confini una politica assistenziale… Sarebbe l'ora di fare altro: ad esempio politica industriale e creazione di “campioni" nazionali».
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