2020-06-29
Luca Barbareschi: «Con la pandemia ha vinto Big Pharma»
L'attore: «Il virus è stato il più grande spot per i vaccini coatti. Ora chi potrà rifiutarli? In Italia troppe chiusure. Sarebbe meglio seguire il modello di Israele: ci si prende il rischio, con responsabilità, e però si torna a vivere».Barbareschi, come hai vissuto il lockdown?«Per me è stata una stagione fortunata. Per il Paese, invece, una catastrofe su cui ho diversi dubbi». Cominciamo dalla prima affermazione, che è stupefacente. «Il periodo, per me che sono ebreo, ha coinciso con due festività importanti». Quali? «È iniziato poco prima della Pasqua ebraica, e si è chiuso con i 49 giorni dell'Omer. Da tanti anni, ormai, li passo a studiare sul Talmud». E quindi?«Per noi non è causale che sia successo in questo periodo». In che senso?«Anche se Giuseppe Conte ha sostenuto che la Pasqua ebraica festeggi il ritorno in Egitto, per noi è l'esatto contrario, la fine della schiavitù». E invece quando parli dei tuoi dubbi sul lockdown a cosa ti riferisci? «Ai numeri che non tornano».Quali? «Quelli dei morti. Tu sai che sono un assoluto sostenitore della necessità dei vaccini, sai che credo alla scienza, che nulla è più lontano da me della dietrologia cospirativa, ma...».Cosa? «I numeri assoluti sul Covid non tornano con quelli della narrazione ufficiale: addirittura meno morti dello scorso anno, per influenza, e anche in numeri assoluti».E quindi? «Vuoi che te lo dica con una battuta? Il vero vincitore di questa pandemia sarà Big Pharma». Le case farmaceutiche, intendi. «È un fatto, e non c'è neanche nulla di malvagio. Ma il lockdown pare la più straordinaria campagna pubblicitaria della storia mai fatta a favore di un vaccino coatto». Vuoi dire che sarà obbligatorio? (Sorride) «Nel clima che si è instaurato mi pare molto difficile l'impresa di chi volesse dire: “Io non voglio vaccinarmi"». Cosa non ti piace di come è stata gestita questa epidemia? «Le scuole ancora chiuse. L'anima di una certa Italia un po' pantofolaia che si unisce nel coro struggente del “Restate a casa!"».E la soluzione Barbareschi invece quale sarebbe? «Modello israeliano». Luca Barbareschi spiazza sempre. In un momento parla da attore, in un altro da produttore, prosegue come «padre di sei figli», si avvia all'atto maggiore come «intellettuale disincantato», chiude da impresario teatrale, ovviamente «disgustato» per quella che lui definisce «la scelta di far fallire il teatro Eliseo» nel tempo del Covid. Ripartiamo dalla quarantena degli italiani. «Mi ha fatto venire in mente una bellissima espressione del grande Karl Kraus, “il balbettio di un uomo ubriaco"». Cioè? Chi sarebbe l'ubriaco?«Eravamo tutti in una sorta di catalessi collettiva. Sei chiuso in una casa, devi pensare, devi fare i conti con te stesso. Qualcuno ha parlato di trauma collettivo. Di certo privato, se mi riferisco a me stesso». Cioè? «Essendo nell'autunno della mia vita, da ultrasessantaquattrenne, sapevo già che - se Dio mi benedice - ho ancora dieci anni di vita cosciente e attiva, prima della fine». Non essere così pessimista. (Ride) «Questa era la prospettiva ottimistica. Durante il lockdown, nella neolingua della virologia, ho scoperto di essere un anziano a rischio, e potenzialmente non intubabile». La cosa sembra ti diverta: humour nero yiddish?«No, semplice constatazione. C'è la morte senza il dramma, è una nuova consapevolezza: Zoom ci ha distrutto la vita». Ah ah ah... adesso rido io. Non sei contento dello smart working? «Siamo matti? È l'esperienza più simile alla schiavitù, con l'unica dissimulazione della scelta volontaria. Raffica di interviste, impegni, conversazioni, terrificanti “call" lavorative a due, a tre, a quattro, la connessione che fatalmente cade proprio nell'unico momento in cui dovrebbe tenere, e poi lui: il mostro!». Zoom, la app?«Chi se no? Stai finendo una riunione, che segue un'altra riunione, e ne precede una nuova. Quando capisci che tra 40 secondi inizia la nuova zoommata e non hai nemmeno il tempo di prendere il caffé, o andare in bagno, ti viene nostalgia irrefrenabile di quando ci si vedeva “in presenza" e ti godevi il lusso dei tempi morti». Ma cosa hai combinato per zoommarti così tanto? «Sono il primo che ha aperto, ben tre set dopo l'epidemia». Dicono che non si possa fare più cinema. «Si può, si può. Basta pagare la nuova tassa sul Covid». Cioè? «Una lauta assicurazione obbligatoria su tutto il set». Che già c'era.«Ma che con il Covid è diventata enormemente più alta. I premi sono quasi raddoppiati».Quanto? «Per una serie siamo arrivati a 200.000 euro». E non la stipuleresti? «Assolutamente, senza non si campa. Anzi, ne farei anche un'altra, oltre che sulla vita degli attori, sulla vita dei personaggi».Scherzi? «Affatto: prova a pensare a Dallas senza J.R., ovvero Larry Hagman. Oltre all'attore muore tutto il progetto». Pirandelliano ma innegabile. «Il vero costo non è la malattia ma l'interruzione di un set. Sulla lunga serialità l'assicurazione è sacra. Io voglio l'assicurazione sulla vita dell'attore e su quella, creativa, del personaggio». Vedo che parli di possibili decessi senza tensioni liriche. «La possibilità che ti muoia un attore è abbastanza marginale. Però si possono perpetrare altri misfatti». Quali? «Basta uno che va sul set senza mascherina e finisco in carcere. Ti pare possibile?». Non credi al distanziamento sociale? «Dal momento che vivo a Roma, e ora sono a Fregene, il punto è che non lo vedo. O meglio: constato che non esiste più, in certe spiagge-carnaio uno sull'altro, come ai bei tempi». Al mare. «Perché, altrove? Ma questi sono mai saliti su un autobus a Roma? O sulla Tuscolana quando c'è l'assalto alla metro?».Quindi meglio la soluzione israeliana? Uscire fuori? «Mio nonno, che aveva fatto la prima e la seconda guerra mondiale, diceva: “Alla fine, dalla trincea, qualcuno deve pure uscire". Come in un Un anno sull'altopiano, il capolavoro di Emilio Lussu, chi resta in trappola è comunque morto». Cosa ha funzionato a Tel Aviv? «È un modello cazzuto: ci si prende il rischio, con responsabilità, e si torna a vivere. Non è meglio della enorme pantofola italiana di cui sopra?». Non pensi alla vite salvate?«Ci hanno ridotto a dei fuchi obbedienti». Molti lo fanno per paura. «Incontro sempre più persone, sopratutto in America, che mi raccontano entusiasti, di essersi fatti trapiantare il chip sottocutaneo». Dicono che salvi vite, sopratutto dagli infarti. «Meglio salvarsi e diventare un big data? Per me no». Così preoccupato per la privacy? «Tutti questi dati sono condivisi, venduti: a me non piace». Quindi più coraggio, meno distanziamento. «Immagino questo modello: ma noto lo scarto della politica. Buonista ma senza morale. E sempre bugiarda. Fanno credere di essere mago Zurlì. Ma io, con i miei figli, sono più rispettoso di loro con i cittadini». Addirittura?«Sognavo di avere otto soldati, mi ritrovo otto anarchici». Consigliamo un libro importante per questi tempi. «Non sono ancora tradotti, ma io direi: Non nel nome di Dio, o Morality, del rabbino capo di Londra, Jonathan Sacks. Aggiungerei il nuovo film di Brizzi». Qualcosa ti rattrista? «Sono l'unico italiano che ha messo di tasca sua 6 milioni per ristrutturare due teatri. Ma l'Eliseo chiuderà nel silenzio della politica». Volevi aiuti speciali? «Gli stessi che hanno dato a 19 teatri “di rilevanza culturale" come il mio, che prendono 12 milioni. Io ricevo solo 400.000 euro, ci pago a malapena i pompieri, otto, che girano per il teatro». Hai avuto solidarietà, però. «Quella degli spettatori. Tutti i miei colleghi, invece, zitti e pavidi. Non hanno speso una sola parola per paura di contraddire Dario Franceschini». Cosa ha fatto? «Ha aperto la trattativa, però non l'ho mai visto». Ti sta antipatico? «Al contrario, mi sta simpaticissimo. Gli presentavo i libri da narratore, a Ferrara. Ma Beppe Sala mi ha detto: “Se a Milano chiudesse il Piccolo ci sarebbe la rivoluzione"». Non hai più visto il ministro? «Quando ho vinto il Leone di Venezia, è corso a farsi la foto. Poi non l'ho più visto». Grande film: L'ufficiale e la spia. Cosa hai in cantiere? «Sto preparando il prossimo Roman Polanski, il prossimo Emir Kusturica. Ma non dico una parola: segreti industriali».Consegniamo un'ultima battuta per chiudere il sipario.(Ride) «Eccola: “Voglio più di tutto vivere. Ma se per vivere devo morire, lo farò". Non è un gran bel finale?».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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