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Il regista presenta il suo nuovo film tratto dal capolavoro di David Mamet: uno schiaffo alla cultura della cancellazione.
Il regista presenta il suo nuovo film tratto dal capolavoro di David Mamet: uno schiaffo alla cultura della cancellazione.
Innesti, «ritornanze» e alcuni vuoti da riempire. È la sintesi della «nuova Rai meloniana», sintesi che l’amministratore delegato Roberto Sergio disapprova, presentata ieri al Centro di produzione di Napoli. Ma tra le tante «ritornanze», nel linguaggio di Stefano Coletta, è rimasta coperta quella che potrebbe scuotere davvero l’annata televisiva. Comunicarla ieri avrebbe catalizzato l’intera giornata e non solo. E di certo restano ancora parecchi dettagli da definire fra le parti, come avviene per il trasferimento di un importante calciatore. Ma tra le ipotesi che in Rai si stanno considerando per la sostituzione di Bianca Berlinguer potrebbe prendere corpo proprio la ritornanza di Michele Santoro. Siamo ancora a uno stadio embrionale, la notizia delle dimissioni dell’ex conduttrice di Cartabianca è appena di lunedì. Perciò, «ci stiamo prendendo ancora un momento di riflessione per confrontarci con l’ufficio marketing e fare la scelta giusta», ha detto Coletta. Giustificazione fragile dopo una settimana in cui l’addio della Berlinguer ha tenuto banco.
Più sul pezzo era parso il governatore Vincenzo De Luca nel suo benvenuto ai vertici aziendali quando, dopo gli elogi di rito, aveva strappato le risate della platea con la doglianza «per non poter più vedere quel Neanderthal, quel troglodita vestito da capraio afghano, da pastore yemenita» che di solito accompagna la Berlinguer, «questa sòla che avete rifilato a Mediaset».
Esauriti il momento cabaret e il capitolo attenuanti, ovvero il breve tempo a disposizione della nuova governance per preparare i palinsesti, «appena 53 giorni nei quali si è dovuto fare i conti con alcuni dolorosi addii», si è passati a snocciolare titoli e volti dell’autunno/inverno 2023-2024. Alla faccia dell’occupazione meloniana, il compito è stato curiosamente affidato a Coletta, l’autore seriale di flop da direttore dell’Intrattenimento nella Rai del centrosinistra che ora dirige la Distribuzione, cioè i palinsesti.
La vera novità della prossima stagione dovrebbe essere «la narrazione», il vocabolo più gettonato della giornata. Quella che andrà in onda dall’autunno è finalmente la Rai ristrutturata per generi, «ideata nel 2019 dall’allora amministratore delegato Fabrizio Salini. È questo il modo migliore per dare centralità al prodotto», ha assicurato il direttore generale Giampaolo Rossi. E se si teme di veder annacquate le identità che un tempo animavano le reti generaliste «è perché il disegno non è ancora completato. Le tre reti non si diversificheranno più per impostazione ideologica, ma per linguaggi e marchi: Rai 1 sarà la rete del racconto e dell’autorevolezza, Rai 2 la rete dell’innovazione, Rai 3 la rete dell’approfondimento. Il nuovo claim “Rai di tutto, di tutti” sta a indicare che, in fondo, la Rai non è di nessuno perché vuol essere di tutti».
Vedremo meglio fra qualche mese cosa vorrà dire. Intanto, andando sul concreto, Roberto Inciocchi, proveniente da Sky, avrà la conduzione di Agorà su Rai 3 mentre Filippo Facci guiderà I Facci vostri, una striscia quotidiana prima del Tg2 delle 13. La strategia dei nuovi vertici è «aggiungere per essere più pluralisti di come la Rai è stata in passato: un obiettivo che siamo riusciti a raggiungere e che è anche un investimento per il futuro», ha sottolineato l’ad Sergio. Ma, alla fine, i veri innesti si esauriscono qui. Per il resto, si tratta di recuperi e «ritornanze», appunto. Con La volta buona Caterina Balivo prenderà il posto di Serena Bortone nel pomeriggio di Rai 1, Nunzia De Girolamo condurrà Botta e risposta in prima serata su Rai 3, dove, in seconda serata, tornerà Luca Barbareschi con In barba a tutto. Sempre in seconda serata, il lunedì su Rai 1 ricomparirà Francesco Giorgino con un approfondimento intitolato XXI secolo, quando il presente diventa futuro, mentre in dicembre Enrico Ruggeri condurrà Gli occhi del musicista su Rai 2. Un chiacchierato ritorno con Il mercante in fiera su Rai 2 è quello di Pino Insegno, visto alle convention di Fratelli d’Italia. «Fatte salve le nostre policy aziendali, se dovessi escludere tutti gli artisti e i giornalisti che partecipano a eventi politici ogni estate, temo che dovrei allungare la lista», ha replicato Sergio.
Ancora incerta, invece, la sorte di Viva Rai 2 di Fiorello, evento televisivo dell’anno, «uno show da prima serata che va in onda al mattino e ha avuto grande successo su tutte le piattaforme. In Via Asiago ci sono dei palazzi e abitano delle persone», ha proseguito Sergio. «Con il mio staff e i condomini speriamo di trovare una sintesi che consenta a Rosario, che considera fondamentale quella location, di riprendere il programma. Ma in questo momento non sono in grado di dire se accadrà».
A proposito dei «dolorosi addii», tre su quattro sono stati curati con risorse interne (Report la domenica sera al posto di Che tempo che fa, Monica Maggioni a In mezz’ora abbandonata da Lucia Annunziata e Serena Bortone nello spazio di Massimo Gramellini), mentre non regge la scusa di una ricerca di marketing per il talk di Rai 3 che ha già un pubblico super consolidato. I nomi filtrati di Monica Giandotti, Luisella Costamagna e Peter Gomez del Fatto Quotidiano erano una boutade? «Sfido qualunque azienda a sostituire in due giorni un programma che faceva ascolti importanti», ha premesso Sergio. «Alcuni di questi nomi possono essere stati fatti per autopromozione. Infine, ancora non è sicuro che Bianca Berlinguer continui ad andare in onda al martedì. Vedremo, magari ai primi di agosto avremo una notizia da darvi». Insomma, la trattativa potrebbe essere in corso. Difficile però che riguardi Giandotti e Costamagna, già previste con Poster, la prima, e Tango, la seconda, su Rai 2. Quanto a Gomez è appena stato nominato condirettore da Marco Travaglio.
Lo spazio spetta all’opposizione e, fuori dalla Rai, Michele Santoro metterebbe d’accordo sia il Pd di Elly Schlein che ha voluto in segreteria il suo ex collaboratore Sandro Ruotolo, sia Giuseppe Conte, leader del M5s, nel quale Marco Travaglio è molto ascoltato. Qualcuno di ben informato parla di una telefonata ricevuta da Michele e partita dai vertici Rai ma lui nega.
La vicenda Palamara, portata alla luce dalla Verità, ha scoperchiato un vaso di Pandora ben noto di incastri, sovrapposizioni e connivenze tra magistratura e politica, e potrebbe essere fonte d'ispirazione per un progetto televisivo di lunga serialità. Ci sta pensando Luca Barbareschi: ha confidato a Spraynews che, con la sua Casanova Produzioni, riflette sulla possibilità di utilizzare un caso da prima pagina come leva per raccontare l'Italia di oggi, la sua tipica antinomia costitutiva: «Un Paese in cui la crasi tra bellezza e spiritualità è evidente, ma non c'è volontà di valorizzarla perché non si riesce a crescere, a diventare grandi, a smetterla con la smania di trovare i capri espiatori, omaggiando il potente di turno prima prima, demonizzandolo poi, in un corto circuito di piccoli personalismi e carrierismi». Barbareschi, attore, regista, produttore, conduttore tv, imprenditore, direttore artistico del Teatro Eliseo ed ex parlamentare, quelle pieghe nascoste nella coscienza nazionale sostiene di conoscerle bene. «Un dibattito stimolante oggi è tra il potere dell'idea e l'idea del potere».
Racconterà la vicenda Palamara e alcuni difetti strutturali della magistratura italiana?
«Posso dire che sto pensando a una serie tv ispirata anche a quei fatti. Da tempo sono osservatore di macrosistema italiano che dura da decenni e coinvolge un certo modo di vivere le istituzioni».
C'è un problema all'interno della magistratura?
«Prima di tutto, l'Italia è il Paese dei capri espiatori. Lo è dai tempi di Mussolini, di Andreotti, di Bettino Craxi. Si pensa di uccidere il capro espiatorio per risolvere il problema. Ma il problema permane e fa parte dell'evoluzione intellettuale e democratica del Paese. Mi viene in mente un esempio molto diverso, ma altrettanto emblematico».
Dica.
«Lo smaltimento dei rifiuti tossici. Si è molto bravi a trovare e condannare gli autisti dei tir su cui quei rifiuti viaggiano. Meno bravi nell'individuare i mandanti veri, le grosse aziende colluse con la criminalità organizzata».
E la magistratura?
«Il discorso intorno alla magistratura è antico: non può esistere una magistratura politicizzata. L'ho vissuto sulla mia pelle in alcune occasioni, quando ho ricevuto avvisi di garanzia perché magari non ero troppo simpatico a un magistrato. L'avviso di garanzia, lo dice la parola stessa, dovrebbe garantire chi lo riceve. Oggi è diventato una fatwa. La responsabilità è l'uso politico e personale che alcuni magistrati fanno del ruolo ricoperto. Penso a Tangentopoli, con Antonio Di Pietro. O al Pm John Woodcock. Penso a processi durati più di vent'anni, con imputati alla fine assolti. Però con la vita stravolta».
Esistono le correnti a cui i magistrati partecipano.
«Che cosa significa corrente? Già un nome come Magistratura Democratica, così totalizzante nel suo significato, induce a pensare che ve ne siano altre non democratiche?».
E Partito Democratico, allora?
«In quel caso potrebbe diventare l'acronimo di Pensiero Dominante».
Dominante perché domina su altri?
«Ho fatto un sacco di cose nella mia vita. Ho lavorato a New York, sono stato diretto da Roman Polanski, realizzato un'infinità di spettacoli teatrali. Eppure, ogni volta che ho bussato ad alcune porte per presentare dei progetti, c'era chi faceva finta di non sapere chi fossi. Perché non ero allineato a un certo pensiero dominante».
Barbareschi come capro espiatorio?
«È capitato. Mi hanno dato più volte del fascista, dell'uomo di destra. Mio padre era partigiano, ma partigiano bianco, quella parte che troppo spesso viene dimenticata nelle citazioni e in alcuni libri».
Si tratta di un discorso culturale?
«Prendo a prestito Robert Hughes nel suo libro La cultura del Piagnisteo: profetizzava che la ragione avrebbe lasciato il posto alla Rivelazione e che al posto della legge razionale, fatta di verità oggettive, la conoscenza sarebbe diventata un insieme di visioni soggettive. Non più verità, ma opinione. Non più visione a lungo termine, ma personalismi per carriere a brevissima scadenza».
Dunque il problema dell'Italia sono i personalismi?
«Stavolta prendo a prestito Jonathan Sacks nel suo Moralità: io devo credere che nelle istituzioni ci siano persone al servizio del Paese. La magistratura, le istituzioni, sono fatte al 90% di gente perbene. L'iperpersonalismo può portare a una delegittimazione delle istituzioni, magistratura inclusa».
C'è una ricetta per cambiare le cose?
«Sono un ottimista di natura. Il mondo è migliorato dal medioevo a oggi. Migliorerà anche domani. In passato, l'eccesso di spiritualità ha portato alla Guerra dei Cent'anni. Poi l'eccesso di secolarizzazione ha portato alla barbarie nazista. L'Europa deve ritrovare quella rielaborazione emotiva che le ha consentito grandi stagioni di creatività. La politica svolgerà un ruolo centrale in tutto questo».
Politica, magistratura, informazione. Sono ambienti comunicanti.
«Cito Ida Magli: i giornalisti sono i sacerdoti dell'informazione. Occorre informare in modo equilibrato, corretto, evitando la stessa deriva della personalizzazione di cui parlavamo prima, rischio piuttosto facile col mondo social e con la rete».
Per la sua prossima fiction ha in mente un editore in particolare?
«Il primo nome che mi viene in mente è la Rai. Penso a successi da me prodotti come la fiction su Olivetti o su Pietro Mennea. La Rai è Politicizzata, senza dubbio - io da tre anni a questa parte non ho potuto accedervi -, ma con cui si può sempre intavolare una trattativa. Altri editori, magari anche le nuove piattaforme, sono più rigidi, quando scelgono una linea. E spesso è sempre la stessa».
L'attore: «Il virus è stato il più grande spot per i vaccini coatti. Ora chi potrà rifiutarli? In Italia troppe chiusure. Sarebbe meglio seguire il modello di Israele: ci si prende il rischio, con responsabilità, e però si torna a vivere».
Barbareschi, come hai vissuto il lockdown?
«Per me è stata una stagione fortunata. Per il Paese, invece, una catastrofe su cui ho diversi dubbi».
Cominciamo dalla prima affermazione, che è stupefacente.
«Il periodo, per me che sono ebreo, ha coinciso con due festività importanti».
Quali?
«È iniziato poco prima della Pasqua ebraica, e si è chiuso con i 49 giorni dell'Omer. Da tanti anni, ormai, li passo a studiare sul Talmud».
E quindi?
«Per noi non è causale che sia successo in questo periodo».
In che senso?
«Anche se Giuseppe Conte ha sostenuto che la Pasqua ebraica festeggi il ritorno in Egitto, per noi è l'esatto contrario, la fine della schiavitù».
E invece quando parli dei tuoi dubbi sul lockdown a cosa ti riferisci?
«Ai numeri che non tornano».
Quali?
«Quelli dei morti. Tu sai che sono un assoluto sostenitore della necessità dei vaccini, sai che credo alla scienza, che nulla è più lontano da me della dietrologia cospirativa, ma...».
Cosa?
«I numeri assoluti sul Covid non tornano con quelli della narrazione ufficiale: addirittura meno morti dello scorso anno, per influenza, e anche in numeri assoluti».
E quindi?
«Vuoi che te lo dica con una battuta? Il vero vincitore di questa pandemia sarà Big Pharma». Le case farmaceutiche, intendi.
«È un fatto, e non c'è neanche nulla di malvagio. Ma il lockdown pare la più straordinaria campagna pubblicitaria della storia mai fatta a favore di un vaccino coatto».
Vuoi dire che sarà obbligatorio?
(Sorride) «Nel clima che si è instaurato mi pare molto difficile l'impresa di chi volesse dire: “Io non voglio vaccinarmi"».
Cosa non ti piace di come è stata gestita questa epidemia?
«Le scuole ancora chiuse. L'anima di una certa Italia un po' pantofolaia che si unisce nel coro struggente del “Restate a casa!"».
E la soluzione Barbareschi invece quale sarebbe?
«Modello israeliano».
Luca Barbareschi spiazza sempre. In un momento parla da attore, in un altro da produttore, prosegue come «padre di sei figli», si avvia all'atto maggiore come «intellettuale disincantato», chiude da impresario teatrale, ovviamente «disgustato» per quella che lui definisce «la scelta di far fallire il teatro Eliseo» nel tempo del Covid.
Ripartiamo dalla quarantena degli italiani.
«Mi ha fatto venire in mente una bellissima espressione del grande Karl Kraus, “il balbettio di un uomo ubriaco"».
Cioè? Chi sarebbe l'ubriaco?
«Eravamo tutti in una sorta di catalessi collettiva. Sei chiuso in una casa, devi pensare, devi fare i conti con te stesso. Qualcuno ha parlato di trauma collettivo. Di certo privato, se mi riferisco a me stesso».
Cioè?
«Essendo nell'autunno della mia vita, da ultrasessantaquattrenne, sapevo già che - se Dio mi benedice - ho ancora dieci anni di vita cosciente e attiva, prima della fine».
Non essere così pessimista.
(Ride) «Questa era la prospettiva ottimistica. Durante il lockdown, nella neolingua della virologia, ho scoperto di essere un anziano a rischio, e potenzialmente non intubabile».
La cosa sembra ti diverta: humour nero yiddish?
«No, semplice constatazione. C'è la morte senza il dramma, è una nuova consapevolezza: Zoom ci ha distrutto la vita».
Ah ah ah... adesso rido io. Non sei contento dello smart working?
«Siamo matti? È l'esperienza più simile alla schiavitù, con l'unica dissimulazione della scelta volontaria. Raffica di interviste, impegni, conversazioni, terrificanti “call" lavorative a due, a tre, a quattro, la connessione che fatalmente cade proprio nell'unico momento in cui dovrebbe tenere, e poi lui: il mostro!».
Zoom, la app?
«Chi se no? Stai finendo una riunione, che segue un'altra riunione, e ne precede una nuova. Quando capisci che tra 40 secondi inizia la nuova zoommata e non hai nemmeno il tempo di prendere il caffé, o andare in bagno, ti viene nostalgia irrefrenabile di quando ci si vedeva “in presenza" e ti godevi il lusso dei tempi morti».
Ma cosa hai combinato per zoommarti così tanto?
«Sono il primo che ha aperto, ben tre set dopo l'epidemia».
Dicono che non si possa fare più cinema.
«Si può, si può. Basta pagare la nuova tassa sul Covid».
Cioè?
«Una lauta assicurazione obbligatoria su tutto il set».
Che già c'era.
«Ma che con il Covid è diventata enormemente più alta. I premi sono quasi raddoppiati».
Quanto?
«Per una serie siamo arrivati a 200.000 euro».
E non la stipuleresti?
«Assolutamente, senza non si campa. Anzi, ne farei anche un'altra, oltre che sulla vita degli attori, sulla vita dei personaggi».
Scherzi?
«Affatto: prova a pensare a Dallas senza J.R., ovvero Larry Hagman. Oltre all'attore muore tutto il progetto».
Pirandelliano ma innegabile.
«Il vero costo non è la malattia ma l'interruzione di un set. Sulla lunga serialità l'assicurazione è sacra. Io voglio l'assicurazione sulla vita dell'attore e su quella, creativa, del personaggio».
Vedo che parli di possibili decessi senza tensioni liriche.
«La possibilità che ti muoia un attore è abbastanza marginale. Però si possono perpetrare altri misfatti».
Quali?
«Basta uno che va sul set senza mascherina e finisco in carcere. Ti pare possibile?».
Non credi al distanziamento sociale?
«Dal momento che vivo a Roma, e ora sono a Fregene, il punto è che non lo vedo. O meglio: constato che non esiste più, in certe spiagge-carnaio uno sull'altro, come ai bei tempi».
Al mare.
«Perché, altrove? Ma questi sono mai saliti su un autobus a Roma? O sulla Tuscolana quando c'è l'assalto alla metro?».
Quindi meglio la soluzione israeliana? Uscire fuori?
«Mio nonno, che aveva fatto la prima e la seconda guerra mondiale, diceva: “Alla fine, dalla trincea, qualcuno deve pure uscire". Come in un Un anno sull'altopiano, il capolavoro di Emilio Lussu, chi resta in trappola è comunque morto».
Cosa ha funzionato a Tel Aviv?
«È un modello cazzuto: ci si prende il rischio, con responsabilità, e si torna a vivere. Non è meglio della enorme pantofola italiana di cui sopra?».
Non pensi alla vite salvate?
«Ci hanno ridotto a dei fuchi obbedienti».
Molti lo fanno per paura.
«Incontro sempre più persone, sopratutto in America, che mi raccontano entusiasti, di essersi fatti trapiantare il chip sottocutaneo».
Dicono che salvi vite, sopratutto dagli infarti.
«Meglio salvarsi e diventare un big data? Per me no».
Così preoccupato per la privacy?
«Tutti questi dati sono condivisi, venduti: a me non piace».
Quindi più coraggio, meno distanziamento.
«Immagino questo modello: ma noto lo scarto della politica. Buonista ma senza morale. E sempre bugiarda. Fanno credere di essere mago Zurlì. Ma io, con i miei figli, sono più rispettoso di loro con i cittadini».
Addirittura?
«Sognavo di avere otto soldati, mi ritrovo otto anarchici».
Consigliamo un libro importante per questi tempi.
«Non sono ancora tradotti, ma io direi: Non nel nome di Dio, o Morality, del rabbino capo di Londra, Jonathan Sacks. Aggiungerei il nuovo film di Brizzi».
Qualcosa ti rattrista?
«Sono l'unico italiano che ha messo di tasca sua 6 milioni per ristrutturare due teatri. Ma l'Eliseo chiuderà nel silenzio della politica».
Volevi aiuti speciali?
«Gli stessi che hanno dato a 19 teatri “di rilevanza culturale" come il mio, che prendono 12 milioni. Io ricevo solo 400.000 euro, ci pago a malapena i pompieri, otto, che girano per il teatro».
Hai avuto solidarietà, però.
«Quella degli spettatori. Tutti i miei colleghi, invece, zitti e pavidi. Non hanno speso una sola parola per paura di contraddire Dario Franceschini».
Cosa ha fatto?
«Ha aperto la trattativa, però non l'ho mai visto».
Ti sta antipatico?
«Al contrario, mi sta simpaticissimo. Gli presentavo i libri da narratore, a Ferrara. Ma Beppe Sala mi ha detto: “Se a Milano chiudesse il Piccolo ci sarebbe la rivoluzione"».
Non hai più visto il ministro?
«Quando ho vinto il Leone di Venezia, è corso a farsi la foto. Poi non l'ho più visto».
Grande film: L'ufficiale e la spia. Cosa hai in cantiere?
«Sto preparando il prossimo Roman Polanski, il prossimo Emir Kusturica. Ma non dico una parola: segreti industriali».
Consegniamo un'ultima battuta per chiudere il sipario.
(Ride) «Eccola: “Voglio più di tutto vivere. Ma se per vivere devo morire, lo farò". Non è un gran bel finale?».
Luca Barbareschi è nel camerino del teatro Eliseo dove, tra poco, andrà in scena con Il Cielo sopra il Letto, diretto e recitato da sé medesimo e con Lucrezia Lante della Rovere. Sempre tra poco, ad aprile, l'Eliseo potrebbe chiudere a causa dell'indagine per traffico di influenze disposta dalla Procura della Repubblica di Roma. Secondo l'accusa, in occasione della finanziaria del 2017 sarebbero state esercitate pressioni illecite per far arrivare al teatro 4 milioni di euro. Barbareschi si sarebbe rivolto a Luigi Tivelli compensandolo con 70.000 euro per la sua attività: «Mi sono affidato a un lobbista per sollecitare il Parlamento a fare una legge sulla cultura. È reato?», si difende lui. Ora, dopo l'avviso di garanzia, per rispetto del pubblico, degli abbonati e degli artisti, il proprietario e direttore artistico dell'Eliseo garantirà il completamento della stagione, nella quale, alla fine, avranno recitato attori come Umberto Orsini, Gabriele Lavia, Anna Bonaiuto, Glauco Mauri, Elena Sofia Ricci, Alessandro Haber, Lunetta Savino, Renato Carpentieri, Silvia d'Amico, Ivano Marescotti… L'Eliseo, comunque, è più di questo, operando nella produzione teatrale, della fiction televisiva e del cinema (tra gli ultimi film, L'Ufficiale e la Spia di Roman Polanski, Gran premio della giuria alla Mostra di Venezia).
Lei, Barbareschi, invece quando andrà in galera?
«Presto, se le accuse saranno confermate».
Che cosa le contestano?
«Il reato di traffico di influenze».
Che sarebbe?
«Il tentativo di convincere i politici a sostenere, tramite apposite leggi che stanzino fondi per la cultura, le attività dei teatri e degli enti lirici. Se indagano me dovrebbero indagare tutti i sovrintendenti italiani. Perché, dai dirigenti della Biennale di Venezia a quelli della Scala fino a quelli dei teatri più piccoli, tutti trascorriamo le nostre giornate per sensibilizzare i politici alle necessità dei nostri enti».
Gli altri sovrintendenti forse non pagano un lobbista per fare una legge che finanzi il loro teatro.
«Peccato, dovrebbero farlo. Ho pagato una società che si chiama Reti e ha come sua attività seguire le procedure legislative alla Camera e al Senato. Per fortuna l'ho fatto perché questo prova che c'è totale trasparenza. Chi ha verificato ha constatato che non c'è stato nessun passaggio di denaro tra me e il povero Tivelli o altri funzionari statali. Ma l'attività di lobbying è necessaria perché non posso trascorrere le mie giornate in Parlamento».
A cosa serve?
«Come ho detto, a sensibilizzare le istituzioni a finanziare teatri e fondazioni. È la politica a decidere, sono i parlamentari nella loro sovranità a legiferare. Anche in queste settimane bastava un emendamento nella legge di bilancio che viene controfirmata dal presidente della Repubblica. L'obiettivo è stabilire una regola aurea per il Fus (Fondo unico per lo spettacolo, ndr) che, in base alle produzioni e allo sbigliettamento, stabilisca l'entità del sostegno».
Che cosa ostacola questo processo?
«Non lo chieda a me. Avevo suggerito un testo che poteva andare bene per tutti gli enti. Sarebbe stato presentato al Senato da uno schieramento trasversale composto da esponenti del Pd, di Forza Italia e Fratelli d'Italia e con l'appoggio della Lega».
Invece?
«Il giorno stesso in cui doveva essere votato mi è arrivato l'avviso di garanzia».
Perché è indispensabile una legge?
«Perché oggi i finanziamenti vengono distribuiti a macchia di leopardo. Chi ha buoni rapporti con il ministro competente, il sindaco o l'assessore ottiene il denaro, chi è nuovo e non li conosce non becca nulla».
Lei non è nuovo né privo di conoscenze, non sarà un perseguitato.
«Chissà. La invito a leggere la lista dei finanziamenti degli altri Tric (Teatri di rilevante interesse culturale, ndr) per il 2018».
Lista (non completa) dei finanziamenti del Fus sommati a quelli degli enti territoriali. Teatro Biondo di Palermo: euro 5.256.620; Fondazione teatro Bellini di Napoli: euro 1.877.490; Fondazione teatro Due di Parma: 1.792.499; teatro dell'Elfo di Milano: euro 1.758.689; teatro Franco Parenti di Milano: euro 1.720.635; teatro di Bari: euro 1.347.872; Teatro Eliseo di Roma: euro 810.181.
Magari gli enti locali delle altre città sono più prodighi del Comune di Roma.
«L'Eliseo è all'ultimo posto anche nella classifica dei finanziamenti ministeriali».
È meno attivo?
«Vuole scherzare? La nostra attività è superiore sia per numero di eventi che per qualità e trasversalità della proposta».
Vuol dire che è un trattamento ad personam contro di lei?
«Sicuramente sono una figura scomoda. Nessuno mi dava la direzione artistica di nulla. Alla fine, nel 2014 ho acquistato questo teatro per 5,6 milioni e l'ho fatto ristrutturare spendendone altri 7. Bene: da quell'anno i finanziamenti del Fus sono crollati da 1,3 milioni al mezzo milione attuale. E questo mentre si preparavano le celebrazioni del centenario, commemorate anche da un francobollo del ministero dell'Economia e delle finanze con la dicitura “Patrimonio artistico e culturale italiano". Sa come si chiama questo comportamento?».
Dica.
«Callosotomia sociale, è una definizione dello scienziato Andrea Moro. La callosotomia è un'operazione chirurgica nella cura dell'epilessia di separazione dei due emisferi cerebrali. Nella persona che la subisce l'emisfero destro e quello sinistro non comunicano, rendendo per esempio impossibile ritrovare con la mano destra un oggetto toccato con la mano sinistra».
Ma nel 2014 Dario Franceschini, lo stesso ministro di oggi, si era dimostrato sensibile alla riapertura del teatro?
«Certo. Aveva condiviso l'idea del rilancio dopo il fallimento della precedente gestione e si era esposto per garantire le finalità artistiche dell'Eliseo».
E adesso?
«Non risponde agli appelli dei lavoratori che gli scrivono per evitare la chiusura e la perdita del posto di lavoro. E non rispondono al telefono nemmeno il suo capo di gabinetto, Lorenzo Casini, e il segretario generale, Salvo Nastasi».
Che cosa dovrebbe fare Franceschini?
«Sarebbe bastato che avesse dato l'ok all'emendamento del Def che prevedeva un aumento di soldi per tutti i Tric italiani, non solo il mio».
Ho letto un suo messaggio in cui parla di antisemitismo e pronuncia il «J'accuse» di Émile Zola durante il caso Dreyfus. Eccesso di vittimismo?
«È chiaro che sono provocazioni. Ma c'è sconforto. In questo Paese chi lavora fuori dagli schieramenti prestabiliti non viene accettato. Se a dirigere l'Eliseo ci fossero Emma Dante o Mario Martone stia sicuro che non lo lascerebbero chiudere».
È rassegnato?
«Mai nella vita. Sto cercando di sensibilizzare in tutti i modi l'opinione pubblica. La cosa più deprimente è il silenzio di tanti colleghi che recitano all'Eliseo o nelle fiction e nei film che produco, che non dicono una parola. Anche a Venezia lo spettacolo è stato deprimente. Quando Lucrecia Martel, presidente della giuria, ha attaccato il film di Polanski tutti si sono nascosti, salvo poi precipitarsi per i selfie al momento della consegna del Leone».
Diceva che non si rassegna.
«Sono pronto a sfidare chiunque in un dibattito televisivo su come possano funzionare teatri ed enti culturali in Italia. Sono pronto a raccontare tutto, a partire dai trattamenti di favore di cui godono altri istituti più allineati del mio. Ma sono sicuro che non si presenterebbe nessuno. Finora mi hanno ospitato Massimo Giletti a La7 e Silvia Toffanin a Canale 5, mentre la Rai mi ha cancellato da tutte le trasmissioni come fossi un appestato».
Lista delle ospitate disdette in programmi Rai per la promozione di Il cielo sopra il letto dopo l'arrivo dell'avviso di garanzia: Vieni da me, Rai 1 (3 dicembre); La vita in diretta, Rai 1 (9 dicembre); Chi è di scena, Rai 3 (10 dicembre); Telethon, Rai 1 (14 dicembre); Tg3 Linea notte, Rai 3 (18 dicembre); Caffè Unomattina, Rai 1 (21 dicembre).
Senza o quasi televisione come pensa di sensibilizzare l'opinione pubblica?
«Ho fatto pubblicare una petizione su Change.org intitolata “Lasciate vivere il teatro Eliseo" che in pochissimi giorni ha già superato 1.700 firme. La invito a leggere la lista di artisti, registi e scrittori che hanno sottoscritto l'appello».
Lista dei firmatari internazionali dell'appello: David Mamet, Roman Polanski, David Hare, Abraham Yehoshua, Radu Mihaileanu, Emir Kusturica.
Ultima domanda, Barbareschi: chiuderà l'Eliseo?
«Se non succede qualcosa temo di sì. Non possono costringermi a tenere aperto un Teatro di rilevante interesse culturale senza darmi i fondi per farlo. Chiederò il cambio di destinazione d'uso e ne farò un centro congressi o dei ristoranti».
Un delitto.
«Penso alla storia di questo teatro, alle persone che ci sono passate, da Igor Stravinski a Giorgio De Chirico, da Vittorio Gassman a Luchino Visconti a Eduardo de Filippo, alla nascita de Il mondo di Mario Pannunzio e alle lettere di Silvio D'Amico a Giulio Andreotti. È un patrimonio culturale e artistico come dice quel francobollo. Anche il Valle, un altro teatro romano, ha chiuso definitivamente dopo essere stato occupato per anni dagli attori impegnati contro i governi Berlusconi con il plauso dei giornali militanti da Repubblica in giù. Ma ha chiuso dopo semplici proteste improduttive. Io ho continuato a lavorare e proporre, senza accusare nessuno. Adesso però sono indagato e accuso le istituzioni. Perché far chiudere i teatri è un crimine culturale. Il punto d'arrivo finale di questi metodi sono le dittature comandate dalle magistrature che bruciano i libri».

