
L'ex sindaco di Milano: «Stimo il Cavaliere, però ha sbagliato a circondarsi di cortigiani. La sua chance era il Nazareno, ma adesso è troppo tardi. Matteo Renzi? Ha un merito: ha reso marginali i vecchi comunisti».Gabriele Albertini è ricordato da molti milanesi come uno dei migliori sindaci della città, apripista dell'espansione che il capoluogo lombardo sta vivendo con orgoglio. Eletto nel 2004 e nel 2009 al Parlamento europeo (il secondo più votato dopo Silvio Berlusconi), Albertini, che non è mai stato iscritto a partiti, ha concluso la sua attività politica nel marzo 2018 come senatore di Alternativa popolare. Ma agli italiani l'ex primo cittadino meneghino forse è rimasto più impresso per aver sfilato in mutande per la casa di moda di Valentino. Una goliardata che gli valse una celebre caricatura di Teo Teocoli.Albertini, perché fece quella sfilata?«Mi veniva attribuita un'immagine pubblica di sobrietà. Dimostrai di essere una persona imprevedibile e che non si prende troppo sul serio. Ottenni anche notorietà a livello internazionale».Addirittura?«Pensi che una mia amica americana mi inviò una copia di Newsweek. C'erano la mia foto in slip e il titolo: “Albertini's allure" (“Il fascino di Albertini")».Volevano prenderla in giro.«Tutt'altro: mi paragonavano all'ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, mio amico e maestro, cittadino onorario di Milano, che per un'iniziativa di beneficenza si era travestito da donna».La ricetta del suo successo da sindaco, però, sarà stata un'altra.«Ovviamente. Un senso quasi giacobino per la legalità e una profonda visione imprenditoriale».Mi spieghi meglio.«Con Stefano Parisi introducemmo la figura del city manager. Inventammo l'internal auditing, affidato al Segretario generale Giuseppe Albanese. E anticipammo l'Anac: mediante il gruppo Alibaba, i pm Gherardo Colombo, Annunziata Ciaravolo e Claudio Gittardi effettuavano gratis controlli preventivi e consulenze per aiutarci a contrastare la corruzione. Alla fine, il Comune aveva speso 6 miliardi di euro e ne aveva attratti 30, senza che fosse mai partito un avviso di garanzia».E l'imprenditorialità?«Per far arrivare quei 30 miliardi bisognava che le procedure per l'affidamento degli appalti fossero trasparenti. Con il sistema dei patti di integrità escludemmo 600 aziende non in regola. Risultato: a Milano avevano operato sempre gli stessi architetti e le uniche opere memorabili erano state la Torre Velasca e il grattacielo Pirelli. Noi abbiamo portato i più grandi architetti e i più grandi immobiliaristi del mondo».Ma come ha fatto Milano a conservare il vento in poppa? Continuità nelle scelte amministrative?«Non direi. Appena insediata, Letizia Moratti pronunciò la parola “discontinuità". E ha fatto scelte diverse dalle mie».Quali?«Ripubblicizzare 335 milioni di euro della seconda privatizzazione dell'Agenzia dei trasporti, bloccare per due anni il piano parcheggi e sostituire 94 dirigenti nominati dalla mia amministrazione per “ritenuta incompetenza", finendo condannata definitivamente dal Consiglio di Stato per danni erariali».Allora perché Milano funziona?«Il perché me lo fece capire Francesco Rutelli quando era sindaco di Roma».Che c'entra Rutelli?«Gli feci visita durante il Giubileo 2000. Mi lasciò entrare nel suo studio e mi mostrò una vista mozzafiato sui Fori imperiali. Fui quasi colto dalla sindrome di Stendhal, ma lui mi disse: “Gabriele, capisco che questa visione ti abbia estasiato, però c'è una cosa che io ti invidio"».E cos'era? «I milanesi. Un popolo vivace, pragmatico, generoso, incuriosito dalle novità. Come si dice, i milanesi accolgono con il coeur in man e laùren semper, ma non sono mai cuntent, vogliono sempre migliorarsi».Quelli in cui fu sindaco erano gli anni d'oro del centrodestra. Come si è rotto l'incantesimo?«Con la crisi della leadership di Berlusconi. Indiscusso protagonista politico di un ventennio, all'inizio arruolò le eccellenze della società civile».E poi?«E poi prevalse il suo ego. Abbandonò i consoli, i centurioni e i legionari e si mise a cercare i pretoriani. Ovvero, anziché premiare i migliori, si circondò di cortigiani. E di cortigiane».Ora però sembra deciso a passare la mano ad Antonio Tajani.«Il Cavaliere di “delfini" ne ha battezzati tanti, a cominciare da Gianfranco Fini, additato quale suo successore all'epoca del partito del predellino, per arrivare ad Angelino Alfano. Berlusconi è un po' come Crono: divora i suoi figli. Nel caso di Tajani c'è una sola novità».Sarebbe?«Che prima, sempre come Crono, Berlusconi aveva un grande potere. Adesso Forza Italia viaggia su percentuali di consenso desolanti».Con la Lega che invece veleggia intorno al 30% e governa con i grillini, possiamo dire che il centrodestra che conoscevamo è morto?«Sì. Berlusconi lascia un grande vuoto, perché ha fatto fuori i talenti che percepiva come una minaccia per se stesso».È il tempo del dominio di Matteo Salvini.«Salvini è sull'Olimpo, ma la parabola del 40% di Matteo Renzi dimostra che l'elettorato è volatile. Pure il suo successo si può sgonfiare».E come?«È dai ceti produttivi e pragmatici del Nord che potrebbe partire la crisi di Salvini. Pensi alle proteste per il decreto Dignità».Il governo gialloblù non durerà?«Credo proprio di no. È un governo “elettorale", con cui sia Salvini che Luigi Di Maio cercano di massimizzare i consensi. Alle europee i due misureranno le forze in vista delle elezioni politiche anticipate, quando, come in Highlander, ne potrà restare soltanto uno».Non c'è nessuno spazio per ripensare il centrodestra?«La strada è quella tracciata dal patto del Nazareno: un'unione tra i liberali moderati del vecchio centrodestra e quelli del Pd».L'unica via è riesumare l'inciucio con Renzi?«Guardi, a Renzi si possono rimproverare tante cose, ma se la componente massimalista del Pd è ormai marginale, lo si deve a lui. Questo scenario comunque mi pare difficilmente realizzabile».E allora facciamo un'ipotesi di scuola. Un centrodestra futuribile a che base programmatica dovrebbe ancorarsi?«Dovrebbe aderire a valori liberali, all'economia sociale di mercato e all'idea delle radici giudaico-cristiane dell'Occidente. Dovrebbe incarnare un'alternativa ai populismi».Antisovranista, dunque.«Quella tra populisti e antipopulisti, o tra sovranisti e globalisti, è la dicotomia politica del nostro tempo. Dobbiamo conservare i vantaggi della globalizzazione, dalla stabilità monetaria agli accordi commerciali. La sovranità è anche una scelta di alleanze. Non esiste più un mondo provinciale in cui ci si può chiudere nel proprio orticello».Per lei il populismo è un pericolo per la democrazia?«I populisti la democrazia non l'hanno proprio capita. Salvini si è fatto scappare una battuta rivelatrice: ha parlato di lotta tra popolo ed élite. Ma così si confondono le élite con la casta. E invece quello di élite è un concetto positivo». Un concetto positivo?«Certo. La parola élite viene dal latino ex lego e indica l'estrazione degli elementi migliori dalla massa. L'élite opera la necessaria mediazione tra persone comuni e decisori. In democrazia c'è bisogno di rappresentanza, di una classe dirigente. La realtà è complessa. Mi lasci parafrasare Shakespeare…».Parafrasi pure.«Ci sono più cose in cielo e in terra di quante non sogni un tweet».Quindi abbiamo bisogno dei «competenti»?«Io credo di sì. Secondo lei, se Beppe Grillo ha bisogno di una colonscopia, va dall'idraulico?».Non penso proprio.«Appunto. Ogni settore ha un suo esperto. E infatti Salvini, che è in politica da 30 anni, da quando faceva l'attivista nel centro sociale Leoncavallo, è a suo modo un “competente" della politica».D'accordo, ma le élite alla fine si sono trasformate in casta. E questo ha provocato la reazione della gente.«Su questo non posso darle torto. Quando il potere diventa un fine e non più un mezzo per fare del bene alla comunità, si induce nelle persone un senso di rifiuto. Torniamo all'esempio degli imperatori romani: hanno iniziato a circondarsi di pretoriani, ma quando i barbari erano alle porte, non avevano più legionari per difendersi».
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