2020-09-07
Alessandro Mangia: «Mai viste mani così libere al governo»
Il costituzionalista boccia lo stato di eccezione «istituzionalizzato» da Giuseppe Conte: «Il Parlamento ha rinunciato ai poteri di controllo, il Quirinale tace sui decreti-carrozzone. L'emergenza è ormai “instrumentum regni"».Non c'è solo il rischio di una seconda ondata ad attenderci al varco di un autunno che si preannuncia caldissimo. Referendum, elezioni regionali, gestione del Recovery fund e, nel frattempo, l'eventuale spinosissimo ricorso al Meccanismo europeo di stabilità. Sfide complesse che metteranno a dura prova la tenuta del governo e della maggioranza che lo sostiene. Come la pandemia ha trasformato l'Italia, e cosa ci attende nel prossimo futuro, l'abbiamo chiesto al professore Alessandro Mangia, docente di Diritto costituzionale all'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.Come esce l'Italia sul piano istituzionale dopo questa prima fase di emergenza?«Come un Paese che vive un curioso stato d'eccezione, dove, di fatto, la maggioranza ha conferito al governo i “poteri necessari" a gestire la situazione. Per mesi l'organizzazione dello Stato si è rattrappita su sanità ed ordine pubblico. Il che poteva essere anche giustificabile, vista la situazione. Che si continui ora a gestire la situazione secondo normative speciali, protraendo uno stato d'emergenza - che è previsto dalla disciplina della protezione civile - in assenza di una emergenza attuale, come è stato fatto nell'agosto scorso, lascia però interdetti».Nonostante nelle ultime settimane i contagi siano in risalita, la situazione vissuta la scorsa primavera sembra lontana anni luce. «La domanda che ci si deve porre non è solo se lo stato di emergenza di oggi sia giustificato. È fino a quando lo si vuole fa durare. Quand'è che il governo riterrà chiuso lo stato di emergenza? La verità è che questo governo ha istituzionalizzato l'emergenza e ne ha fatto una nuova normalità, dove la vita sociale è sospesa o rallentata. E dove l'emergenza è diventata instrumentum regni. Si è finiti così in una sorta di limbo istituzionale, assai simile allo stato di guerra descritto dall'articolo 78 della Costituzione, in cui il Parlamento ha rinunciato ad esercitare i suoi poteri di controllo ed indirizzo, ed ha avallato praticamente ogni scelta del governo». Una situazione che entrambi i presidenti delle Camere hanno criticato a più riprese.«Quel che è certo è che questo è stato il governo con le mani più libere dal 1948 ad oggi. Altro che anni di piombo. Lo stesso governo Monti, che pure ha operato in un clima eccezionale, non ha avuto la libertà d'azione del Conte II. Tant'è vero che lo stesso Monti aveva concepito il proprio come un governo a termine. Questo invece è un governo che si identifica in pieno con l'emergenza, e se ne alimenta. Se ci pensa, l'emergenza è una fonte di stabilità politica. E lo sarà anche per i mesi a venire».La via scelta dal Quirinale, quando ha deciso di intervenire, è stata quella della moderazione e del supporto al governo. Forse il presidente Sergio Mattarella poteva fare di più? «È chiaro che in una situazione di emergenza mai sperimentata prima non ci si possono aspettare dal Quirinale interventi pubblici che destabilizzino in alcun modo il governo in carica. Il punto è che la sua domanda postula che debba fare il Quirinale quello che non fa la maggioranza parlamentare. Il che dà la misura della trasformazione che è intervenuta nel tempo. Quel che è certo è che gli uffici del Quirinale hanno molta voce in capitolo nella formulazione dei decreti legge su cui si sono giustificati, a posteriori, i vari Dpcm dei mesi di lockdown. Di fatto i decreti legge sono contrattati fra governo e Quirinale. E non risultano interventi correttivi di nessun genere sui decreti omnibus degli ultimi mesi». Cioè?«È da un pezzo che la Corte costituzionale ci ha detto che il decreto legge non è un carrozzone su cui si può caricare di tutto. Mi stupisce molto che questi rilievi non siano stati formulati in pubblico. Ma è nella natura dell'emergenza essere uno strumento bonne a tout faire». Questa pandemia, almeno inizialmente, ha riportato in auge la figura dell'esperto, del «competente». La politica, però, è chiamata a prendere le decisioni. Come si risolve questo cortocircuito? «Si risolverebbe mettendo in chiaro una volta per tutte che i tecnici portano elementi di conoscenza, e che invece le decisioni sono sempre, e tutte, politiche. Ma questa è una distinzione che non conviene rimarcare. Quando le due cose si confondono la scelta politica può essere presentata come una scelta obbligata, di natura tecnica, cui non si può rimproverare nulla. Emergenza e scelta tecnica qui vanno a braccetto. E questo è molto conveniente per chi governa. La vicenda della riapertura delle scuole, dove consulenti parlano da ministri, mi sembra un ottimo esempio. Alla fine, l'incertezza regna sovrana, e tutti si trovano a seguire regole della cui sensatezza è lecito dubitare».Secondo la narrazione mainstream, dopo un primo momento di difficoltà, l'Unione europea si è «rimessa in carreggiata» e ha fornito una risposta pronta alla crisi. Come giudica gli strumenti messi a disposizione da Bruxelles? I fondi annunciati a luglio da Bruxelles sono l'altro elemento di forza di questo governo, che lo spinge a durare. Politicamente, chi vorrebbe perdere la possibilità di amministrare il loro impiego, e una crisi di governo nella fase di predisposizione di quella spesa? Al massimo un rimpasto o un altro governo tecnico. Ho l'impressione che il Recovery fund sia inteso da molti come un albero della cuccagna, sotto il quale mettersi in fila, quando in realtà è solo un piano di sforamento dei vincoli di spesa imposti dai Trattati e dal Patto di stabilità, nemmeno del tutto definito. Un'autorizzazione, insomma, a spendere soldi in gran parte nostri. Ma i conti si faranno alla fine, e adesso è prematuro parlarne, prima che sia definitivamente fissato in regolamenti Ue. Quel che è certo è che quei soldi saranno erogati a progetto, e sotto stretto monitoraggio». E quanto al Mes?«Si dovrebbe aver capito che, in una fase di normale accesso ai mercati e con una disponibilità ampia di cassa, come è quella che c'è in questo momento in Tesoreria, il ricorso al Mes, in sé, è senza senso. In genere chi ne parla, lo fa senza avere troppa consapevolezza dei meccanismi che presiedono all'erogazione del finanziamento, che, ai sensi del Regolamento 472/2013, presuppongono sorveglianza rafforzata e, con un debito pubblico che corre al 160%, un quasi certo aggiustamento macro. Per non parlare della cosiddetta “sorveglianza post-programma"». Eppure, negli ultimi mesi si sono moltiplicate le rassicurazioni in tal senso…«Le lettere Gentiloni-Dombrovskis non sospendono i regolamenti Ue in vigore. In questo momento, e a queste condizioni, finanziare l'Italia servirebbe più al Mes che all'Italia. Non che il Mes sia il male assoluto: basterebbe sospendere il Regolamento 472 - e i programmi di sorveglianza che ci possono portare in aggiustamento macro - e la cosa potrebbe avere un senso. Però, per qualche motivo, non lo si fa. Si cambiano invece le tabelle per il monitoraggio dei crediti erogati. È molto strano». Tra pochi giorni ci attende il referendum e i sondaggi sembrano parlare chiaro. Più volte lei si è espresso pubblicamente contro il taglio dei parlamentari. Può spiegarci perché a suo avviso questa riforma è sbagliata? «Questa riforma nasce dal progetto originario del M5s di sostituzione della democrazia parlamentare con la democrazia diretta. Poi, un anno fa, dopo la crisi, i Cinquestelle sono stati in grado di imporre al Pd il voto sul taglio dei parlamentari - cui il Pd si era sempre opposto nei mesi precedenti - in cambio di promesse sulla legislazione elettorale. E si è arrivati a questa strana riforma, che, probabilmente, sarà approvata nel disinteresse generale, e che ridurrà il Parlamento dalla prossima legislatura. Il risultato è che saranno da rifare regolamenti parlamentari e legge elettorale in cambio di un peggioramento del rapporto numerico tra eletti ed elettori, che sarà tra i più alti d'Europa. Ma non è questo il punto». Qual è, allora?«Il punto è che gruppi parlamentari più ristretti saranno molto più facilmente controllabili dalle segreterie di partito: il che limiterà ulteriormente l'azione dei parlamentari, secondo quello schema che le dicevo all'inizio. Se a questo aggiunge che i partiti, in senso classico, non esistono più, ma esistono solo cacicchi locali che portano le loro truppe in Parlamento sulla base di un vincolo di fedeltà personale, ha la misura di quanto meno influente e penetrante sarà il controllo parlamentare sull'operato dei governi». L'altra scadenza elettorale imminente è rappresentata dalle regionali. C'è un legame politico tra elezioni locali, referendum e tenuta del governo? «Certo che le cose sono connesse. Il voto dell'Emilia Romagna, un anno fa, prima del Covid, ha puntellato questo governo. Una debacle della coalizione nelle regionali avrebbe effetti diretti sulle segreterie della maggioranza ed aprirebbe, com'è naturale, una serie di regolamenti di conti interni, il cui esito oggi non è prevedibile». Magari un ritorno alle urne…«In tempi di mascherine, di finanziaria da approvare e Recovery fund da gestire mi sembra improbabile. Nondimeno questo governo si regge soprattutto sulla mancanza di alternative spendibili a livello internazionale. E la politica - contrariamente a quanto si crede - è sempre politica internazionale. Nel momento in cui ci fossero alternative credibili a livello internazionale, il discorso potrebbe cambiare».