
Michele Serra azzanna Roberto Calderoli per le battute sui voti di genere dopo aver sminuito il body shaming di Paola Pessina su Giorgia Meloni.«Rigore è quando arbitro fischia». Dopo aver imparato a memoria la principale regola di saggezza del suo filosofo di riferimento Vujadin Boskov, il comico e sociologo Michele Serra la applica a tutto, aggiornandola a suo uso e consumo: «Body shaming è quando essere umano di destra parla». Sdraiato sull'amaca con un filo d'erba all'angolo della bocca, si sente già gratificato per avere definito essere umano l'impresentabile bipede che non si strugge leggendo Il Colibrì di Sandro Veronesi e ascoltando Francesco Guccini, quindi procede nel suo esercizio di coerenza sociale. E massacra Roberto Calderoli definendolo «insostenibile», «elefante in capo», «uno con la fedina penale di dichiarazioni razziste». Un reprobo sessista dal quale stare alla lontana.Ora, l'intervento in aula del vicepresidente del Senato contro la doppia preferenza di genere è effettivamente dadaista («il maschio è infedele, si accoppia con 4-5 donne e incassa il loro voto, cosa che la donna non fa») e si è meritato la censura con degnazione del presidente di turno Ignazio La Russa («non avventuriamoci...» più campanellino incandescente). Ma rimane sorprendente il fuoco di sbarramento proprio di Serra; di quello stesso bonario e paternalistico Serra che solo 24 ore prima aveva indossato la toga del difensore d'ufficio di Paola Pessina, l'ex sindaco piddino di Rho, insegnante di religione, trasformatasi in una hater di professione contro Giorgia Meloni. La vicepresidente della Fondazione Cariplo aveva twittato con la delicatezza che solo i buoni per decreto hanno nel cuore: «Giorgia Meloni sta diventando calva. L'eccesso di testosterone oltre che cattivi fa diventare brutti». Frase al bergamotto accompagnata dalla foto della leader di Fratelli d'Italia durante un concitato intervento in Parlamento. Una porcheria, classico esempio di body shaming. Effetto: indignazione e dimissioni dalla Fondazione Cariplo della dirigente Pd, essa stessa convinta di avere messo la suola della scarpa su un cioccolatinone gallinaceo, come l'avrebbe chiamato Carlo Emilio Gadda. Tutto a posto? No, don Michele da Repubblica ha preso le difese della compagna di lotta minimizzando il problema con lo stile da Natalia Aspesi mentre sferruzza pensieri sparsi: «Ma cosa vuole che sia, signora mia?». «Perché una persona di valore come Paola Pessina deve pagare un prezzo così alto - le dimissioni - per avere postato una ruvida e allegra scemenza su Giorgia Meloni?». Leggi Serra ed è come se parlasse Fabio Fazio. Già, perché deve rinunciare alla poltrona, oggetto d'arredamento primario per la categoria? Aggiunge l'allievo fuoricorso di Boskov: «Quelle stesse scemenze, fino all'altoieri, le dicevamo tutti e le diciamo ancora in privato davanti a un piatto di maccheroni e a un bicchiere di vino». Così fan tutti. Tutti tranne Calderoli, che non ha la patente, non è un happy few della rivoluzione permanente, non ha mai partecipato a cene dei reduci dei girotondi senza Nanni Moretti. Lo sdoppiamento di personalità di Serra, in agosto, diventa ancora più interessante. Mentre due giorni fa risolveva tutto con un piatto di maccheroni e un bicchiere di vino, ieri davanti alla scivolata leghista aggiungeva con un sussiego da maestro Manzi: «Il politicamente corretto, tra tanti evidenti difetti, ha anche un rimarchevole pregio. Che è suggerire, anzi imporre, una certa circospezione, una certa delicatezza, una certa intelligenza, quando ci si avventura su un terreno disseminato di trappole». Ricapitolando i pistolotti in contraddizione fra loro: se sei la Pessina, piddina, vittimina, hai detto un'allegra scemenza e ti porto a prendere uno spritz. Se sei Calderoli, leghista, elefante in capo, fai body shaming e stai punito fra i reticolati. È la famosa coerenza sociale della sinistra del pensiero (debole) dominante. Se ti assembri il 25 aprile sei un glorioso partigiano, se ti assembri il 2 giugno sei un untore fascista. Se a criticare la presunta sciatteria estetica di Giovanna Botteri è Striscia, Antonio Ricci si deve vergognare (e Fabio Fazio si profonde nella più curiale solidarietà). Se a massacrare la giornalista è Luciana Littizzetto a Che tempo che fa Fazio abbozza e nessun compagno Ztl fiata. È un riflesso condizionato, è il privilegio di avere letto Siddharta, di avere votato Enrico Rublo Berlinguer e fumato un paio di canne da piccoli. È l'estate di Serra, un giorno sul pero e l'altro sul melo. Per fortuna stanno uscendo i verbali del Comitato tecnico scientifico, che il governo amico deve avere nascosto per fare un piacere a lui, il fustigatore della Lombardia. «Il popolo del non si chiude, confindustriali lillipuziani, i magutt bergamaschi e lavoro, lavoro, lavoro». Al tempo del virus cinese e delle lacrime aveva scritto un editoriale violento e maleodorante per incolpare i lombardi del contagio. Invece fu il suo eroe Giuseppe Conte a non voler chiudere. Ecco, dall'amaca potrebbe tornare sul tema. Anche quella fu una scemenza, però poco allegra.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.