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2020-07-21
L’identità si incideva su oro o su pietra. Ma domani la nostra sarà solo virtuale
Marco Polo (DeA/Getty Images)
Nel 2026 tutti gli italiani avranno in tasca una carta d'identità elettronica. Almeno questa è la previsione dell'Istituto poligrafico e Zecca dello Stato. A oggi è stata richiesta da quasi 16 milioni di cittadini. Il boom è stato raggiunto a inizio giugno, quando il governo ha dato il via libera per richiedere i bonus anti crisi. Oggi sono 7 milioni i cittadini che, oltre alla Cie - questo l'acronimo del nuovo documento -, possiedono anche un'identità digitale. In pratica tutte le informazioni sulla nostra persona vengono racchiuse in un microchip prima e in uno smartphone poi. Ormai tra Cie e passaporti biometrici è possibile prendere un aereo senza mostrare i documenti. Se lo vogliamo - almeno per ora registrarsi è ancora una scelta - lo scanner facciale ci riconosce al nostro passaggio. La Cie, oltre all'identificazione fisica e online, offre anche una serie di servizi come, ad esempio, l'accesso ai siti della pubblica amministrazione, può sostituirsi ai biglietti per mezzi pubblici, stadi e musei, al badge nei luoghi di lavoro, o essere usata come token per una transazione bancaria online. E presto verrà integrata anche con un'app per la firma digitale. Per ottenere una carta d'identità elettronica basta rilasciare le impronte digitali, sottoporsi al riconoscimento facciale, pagare 16,70 euro e in molti casi aspettare pazientemente qualche mese perché i Comuni faticano a smaltire le richieste.
Il primo a citare una carta d'identità in un'opera letteraria fu lo scrittore napoletano Vittorio Imbriani a metà dell'Ottocento, ma bisognerà aspettare il pieno Novecento perché questo documento di riconoscimento sia a tutti gli effetti valido.
In Italia, la carta d'identità cartacea fu introdotta nel 1931 con il regio decreto del 18 giugno. Aveva la foto e durava tre anni. All'epoca, tra le generalità, non c'erano i «segni particolari» bensì i «connotati e contrassegni salienti». Dato che le foto erano in bianco e nero, bisognava definire il proprio colorito «sano» o «naturale». Tra le altre cose si descrivevano anche nasi e menti «regolari» o «pronunciati», corporature «minute», «medie», o addirittura «possenti». Questo tesserino divenne pian piano uno status symbol, con le casalinghe degli anni Quaranta che, alla voce professione, diventavano «attendenti alla casa», e il giovane sottoproletariato degli anni Settanta che, come ricordava Pier Paolo Pasolini, alla qualifica del proprio mestiere preferiva un più nobile «studente».
Finalmente, dopo millenni di studi, la carta d'identità s'era affermata. La prima al mondo nacque su delle tavolette di terracotta. Ad inventarsela fu il governo assiro che distribuì a ogni cittadino queste placche su cui veniva inciso il nome del possessore, il luogo di nascita, la professione e se si trattava di un uomo libero o di uno schiavo. Anche Marco Polo navigò per i mari del mondo con questo prezioso documento: due tavolette d'oro, concesse dal condottiero mongolo Kublai Khan, sulle quali era incisa un'iscrizione che garantiva la sicurezza del navigatore veneziano durante i suoi spostamenti.
Nel Medioevo erano gli abiti a determinare il rango, lo statuto e la dignità della persona. Anche i banditi venivano acciuffati per le loro vesti. Ricorda Valentin Groebner in Storia dell'identità personale che nella città ungherese di Eger, nel 1392, il fuorilegge «Claus Spiler era riconoscibile dalla sua «giacca nera» e dai suoi capelli neri; portava inoltre un berretto e dei calzoni azzurri». O ancora che «nel 1426 il consiglio della città sassone di Rochlitz inviò a Lipsia la confessione di un presunto incendiario» che descrive i suoi complici fuggiaschi: «Il primo portava un mantello grigio rammendato, foderato con un tessuto azzurro intorno al collo, e sotto una giacca di fustagno nera e un cappello a bombetta grigio». Gli abiti servivano anche a riconoscere politici e a identificare i testimoni durante un processo.
Il primo passaporto fu introdotto da Enrico V nel XV secolo. Il re inglese concesse ai suoi sudditi un foglio identificativo che permettesse di dimostrare la propria identità fuori dal Paese. Lo stesso Paese che seicento anni dopo, con Winston Churchill al governo, fu costretto ad abolire la carta obbligatoria perché la richiesta dei documenti da parte degli agenti «minava la fiducia del popolo nelle forze di polizia».
Sui passaporti britannici di un tempo non c'erano né la fotografia né la descrizione fisica. Questi due elementi vennero inseriti nel 1914 dopo che Hans Lody, una spia tedesca, era entrato in Gran Bretagna usando un falso passaporto americano. Le regole sulle fotografie erano molto vaghe. Nel suo The passport: The history of man's most travelled document, Martin Lloyd spiega che alle persone era richiesto solo di mandare un'immagine, «così succedeva che i britannici si ritrovavano sul passaporto il ritratto dell'intera famiglia», probabilmente l'unica foto che possedevano.
I passaporti hanno diversi colori. Quello della Ue è burgundy. Secondo Hrant Boghossian, vicepresidente di Arton group, che ogni anno pubblica il Passport index, questa tonalità di rosso bordeaux «è dovuta a un passato comunista dell'Europa». I passaporti di Marocco, Pakistan e Arabia Saudita sono verdi per via dell'importanza di questo colore nella religione musulmana. Il blu è il colore dell'America e il nero quello dei passaporti diplomatici. Solo il passaporto scandinavo ha tre colori: bianco, turchese o rosso. Nascosta tra le pagine poi si può vedere anche l'aurora boreale. Per farla apparire però bisogna mettere il documento sotto i raggi ultravioletti. Originale anche il passaporto finlandese. Dal 2012 su ogni pagina sono disegnate delle renne in posizioni leggermente diverse e, sfogliandolo velocemente, gli animali sembrano muoversi come in un cartone animato.
Il mito sempre più traballante delle impronte digitali
Fino ai primi anni Duemila, il rilascio della carta d'identità prevedeva solo in via facoltativa l'apposizione delle impronte digitali, che ormai è obbligatoria dai dodici anni in su. Come scriveva Mark Twain, «ogni essere umano porta con sé, dalla culla alla tomba, certe caratteristiche fisiche che non cambiano mai, attraverso le quali può essere sempre identificato, senza ombra di dubbio». E l'unicità delle impronte digitali, che in Occidente fu dimostrata per la prima volta nel XIX secolo dall'anatomista ceco Jan Purkyne, è in grado di distinguere anche due gemelli omozigoti.
Alla fine dell'Ottocento il medico scozzese Henry Faulds tentò di rendere irriconoscibili le proprie impronte digitali sfregandosi le dita con rasoi, pietra pomice, carta vetrata, polvere di vetro, acidi corrosivi. Ma queste, ogni volta, ricomparivano identiche. Quegli esperimenti sollecitarono la fantasia del criminologo francese Alphonse Bertillon e lo portarono a ideare un sistema di riconoscimento biometrico basato su 14 misurazioni alle impronte digitali per incastrare i criminali più recidivi. Tuttavia fu proprio il suddetto Henry Faulds, trasferitosi in Giappone, il primo a individuare il colpevole di un omicidio grazie alle impronte rinvenute sulla scena del delitto. Era il 1880. Entusiasta, decise di condividere la sua scoperta con Charles Darwin e gli mandò una lettera. Lettera che però Darwin, ormai troppo vecchio e malato, girò al cugino Sir Francis Galton, brillante antropologo. Solo dopo otto anni di rilevazioni e calcoli statistici nacque la nuova scienza in Inghilterra.
Nel 1905, i fratelli Stratton, accusati di aver ammazzato i coniugi Farrow, titolari di un colorificio, vennero identificati proprio per aver lasciato le loro impronte digitali e furono condannati a morte. Durante il processo l'ispettore Charles Collins testimoniò: «Il massimo che abbiamo mai riscontrato in impronte differenti è di tre caratteristiche uguali. In altre parole, tutte le impronte con quattro o più punti di contatto devono per forza provenire dallo stesso dito».
Col passare degli anni, a fare delle impronte digitali un vanto è stata l'Fbi, che nel suo Integrated automatic fingerprint identification system, sistema installato nel 1999, ha archiviato più di 65 milioni di impronte per un costo di 164 milioni di dollari. Negli ultimi anni, però, diversi studi hanno sostenuto che la percentuale di falsi positivi - impronte che risultano coincidere anche se in realtà non sono uguali - può arrivare anche allo 0,1%. Spiegava qualche anno fa a Repubblica Mike Silverman, l'esperto che introdusse il primo sistema di rilevamento delle impronte digitali automatizzato per la polizia metropolitana inglese, che non è possibile «dimostrare che non esistono due impronte digitali esattamente uguali. Potrebbe trattarsi di un caso raro, come vincere alla lotteria. È un evento improbabile», eppure a suo dire «accade ogni settimana».
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Breve storia dell'identificazione personale, dalle tavolette assire al lasciapassare di Marco Polo. Fino all'odierno chip.Il «calco» del dito è un obbligo all'anagrafe, ma non è affatto esente dai falsi positivi. Con buona pace dell'Fbi (e di Mark Twain).Lo speciale contiene due articoli.Nel 2026 tutti gli italiani avranno in tasca una carta d'identità elettronica. Almeno questa è la previsione dell'Istituto poligrafico e Zecca dello Stato. A oggi è stata richiesta da quasi 16 milioni di cittadini. Il boom è stato raggiunto a inizio giugno, quando il governo ha dato il via libera per richiedere i bonus anti crisi. Oggi sono 7 milioni i cittadini che, oltre alla Cie - questo l'acronimo del nuovo documento -, possiedono anche un'identità digitale. In pratica tutte le informazioni sulla nostra persona vengono racchiuse in un microchip prima e in uno smartphone poi. Ormai tra Cie e passaporti biometrici è possibile prendere un aereo senza mostrare i documenti. Se lo vogliamo - almeno per ora registrarsi è ancora una scelta - lo scanner facciale ci riconosce al nostro passaggio. La Cie, oltre all'identificazione fisica e online, offre anche una serie di servizi come, ad esempio, l'accesso ai siti della pubblica amministrazione, può sostituirsi ai biglietti per mezzi pubblici, stadi e musei, al badge nei luoghi di lavoro, o essere usata come token per una transazione bancaria online. E presto verrà integrata anche con un'app per la firma digitale. Per ottenere una carta d'identità elettronica basta rilasciare le impronte digitali, sottoporsi al riconoscimento facciale, pagare 16,70 euro e in molti casi aspettare pazientemente qualche mese perché i Comuni faticano a smaltire le richieste. Il primo a citare una carta d'identità in un'opera letteraria fu lo scrittore napoletano Vittorio Imbriani a metà dell'Ottocento, ma bisognerà aspettare il pieno Novecento perché questo documento di riconoscimento sia a tutti gli effetti valido.In Italia, la carta d'identità cartacea fu introdotta nel 1931 con il regio decreto del 18 giugno. Aveva la foto e durava tre anni. All'epoca, tra le generalità, non c'erano i «segni particolari» bensì i «connotati e contrassegni salienti». Dato che le foto erano in bianco e nero, bisognava definire il proprio colorito «sano» o «naturale». Tra le altre cose si descrivevano anche nasi e menti «regolari» o «pronunciati», corporature «minute», «medie», o addirittura «possenti». Questo tesserino divenne pian piano uno status symbol, con le casalinghe degli anni Quaranta che, alla voce professione, diventavano «attendenti alla casa», e il giovane sottoproletariato degli anni Settanta che, come ricordava Pier Paolo Pasolini, alla qualifica del proprio mestiere preferiva un più nobile «studente». Finalmente, dopo millenni di studi, la carta d'identità s'era affermata. La prima al mondo nacque su delle tavolette di terracotta. Ad inventarsela fu il governo assiro che distribuì a ogni cittadino queste placche su cui veniva inciso il nome del possessore, il luogo di nascita, la professione e se si trattava di un uomo libero o di uno schiavo. Anche Marco Polo navigò per i mari del mondo con questo prezioso documento: due tavolette d'oro, concesse dal condottiero mongolo Kublai Khan, sulle quali era incisa un'iscrizione che garantiva la sicurezza del navigatore veneziano durante i suoi spostamenti. Nel Medioevo erano gli abiti a determinare il rango, lo statuto e la dignità della persona. Anche i banditi venivano acciuffati per le loro vesti. Ricorda Valentin Groebner in Storia dell'identità personale che nella città ungherese di Eger, nel 1392, il fuorilegge «Claus Spiler era riconoscibile dalla sua «giacca nera» e dai suoi capelli neri; portava inoltre un berretto e dei calzoni azzurri». O ancora che «nel 1426 il consiglio della città sassone di Rochlitz inviò a Lipsia la confessione di un presunto incendiario» che descrive i suoi complici fuggiaschi: «Il primo portava un mantello grigio rammendato, foderato con un tessuto azzurro intorno al collo, e sotto una giacca di fustagno nera e un cappello a bombetta grigio». Gli abiti servivano anche a riconoscere politici e a identificare i testimoni durante un processo. Il primo passaporto fu introdotto da Enrico V nel XV secolo. Il re inglese concesse ai suoi sudditi un foglio identificativo che permettesse di dimostrare la propria identità fuori dal Paese. Lo stesso Paese che seicento anni dopo, con Winston Churchill al governo, fu costretto ad abolire la carta obbligatoria perché la richiesta dei documenti da parte degli agenti «minava la fiducia del popolo nelle forze di polizia». Sui passaporti britannici di un tempo non c'erano né la fotografia né la descrizione fisica. Questi due elementi vennero inseriti nel 1914 dopo che Hans Lody, una spia tedesca, era entrato in Gran Bretagna usando un falso passaporto americano. Le regole sulle fotografie erano molto vaghe. Nel suo The passport: The history of man's most travelled document, Martin Lloyd spiega che alle persone era richiesto solo di mandare un'immagine, «così succedeva che i britannici si ritrovavano sul passaporto il ritratto dell'intera famiglia», probabilmente l'unica foto che possedevano.I passaporti hanno diversi colori. Quello della Ue è burgundy. Secondo Hrant Boghossian, vicepresidente di Arton group, che ogni anno pubblica il Passport index, questa tonalità di rosso bordeaux «è dovuta a un passato comunista dell'Europa». I passaporti di Marocco, Pakistan e Arabia Saudita sono verdi per via dell'importanza di questo colore nella religione musulmana. Il blu è il colore dell'America e il nero quello dei passaporti diplomatici. Solo il passaporto scandinavo ha tre colori: bianco, turchese o rosso. Nascosta tra le pagine poi si può vedere anche l'aurora boreale. Per farla apparire però bisogna mettere il documento sotto i raggi ultravioletti. Originale anche il passaporto finlandese. Dal 2012 su ogni pagina sono disegnate delle renne in posizioni leggermente diverse e, sfogliandolo velocemente, gli animali sembrano muoversi come in un cartone animato.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lidentita-si-incideva-su-oro-o-su-pietra-ma-domani-la-nostra-sara-solo-virtuale-2646441338.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-mito-sempre-piu-traballante-delle-impronte-digitali" data-post-id="2646441338" data-published-at="1595280137" data-use-pagination="False"> Il mito sempre più traballante delle impronte digitali Fino ai primi anni Duemila, il rilascio della carta d'identità prevedeva solo in via facoltativa l'apposizione delle impronte digitali, che ormai è obbligatoria dai dodici anni in su. Come scriveva Mark Twain, «ogni essere umano porta con sé, dalla culla alla tomba, certe caratteristiche fisiche che non cambiano mai, attraverso le quali può essere sempre identificato, senza ombra di dubbio». E l'unicità delle impronte digitali, che in Occidente fu dimostrata per la prima volta nel XIX secolo dall'anatomista ceco Jan Purkyne, è in grado di distinguere anche due gemelli omozigoti. Alla fine dell'Ottocento il medico scozzese Henry Faulds tentò di rendere irriconoscibili le proprie impronte digitali sfregandosi le dita con rasoi, pietra pomice, carta vetrata, polvere di vetro, acidi corrosivi. Ma queste, ogni volta, ricomparivano identiche. Quegli esperimenti sollecitarono la fantasia del criminologo francese Alphonse Bertillon e lo portarono a ideare un sistema di riconoscimento biometrico basato su 14 misurazioni alle impronte digitali per incastrare i criminali più recidivi. Tuttavia fu proprio il suddetto Henry Faulds, trasferitosi in Giappone, il primo a individuare il colpevole di un omicidio grazie alle impronte rinvenute sulla scena del delitto. Era il 1880. Entusiasta, decise di condividere la sua scoperta con Charles Darwin e gli mandò una lettera. Lettera che però Darwin, ormai troppo vecchio e malato, girò al cugino Sir Francis Galton, brillante antropologo. Solo dopo otto anni di rilevazioni e calcoli statistici nacque la nuova scienza in Inghilterra. Nel 1905, i fratelli Stratton, accusati di aver ammazzato i coniugi Farrow, titolari di un colorificio, vennero identificati proprio per aver lasciato le loro impronte digitali e furono condannati a morte. Durante il processo l'ispettore Charles Collins testimoniò: «Il massimo che abbiamo mai riscontrato in impronte differenti è di tre caratteristiche uguali. In altre parole, tutte le impronte con quattro o più punti di contatto devono per forza provenire dallo stesso dito». Col passare degli anni, a fare delle impronte digitali un vanto è stata l'Fbi, che nel suo Integrated automatic fingerprint identification system, sistema installato nel 1999, ha archiviato più di 65 milioni di impronte per un costo di 164 milioni di dollari. Negli ultimi anni, però, diversi studi hanno sostenuto che la percentuale di falsi positivi - impronte che risultano coincidere anche se in realtà non sono uguali - può arrivare anche allo 0,1%. Spiegava qualche anno fa a Repubblica Mike Silverman, l'esperto che introdusse il primo sistema di rilevamento delle impronte digitali automatizzato per la polizia metropolitana inglese, che non è possibile «dimostrare che non esistono due impronte digitali esattamente uguali. Potrebbe trattarsi di un caso raro, come vincere alla lotteria. È un evento improbabile», eppure a suo dire «accade ogni settimana».
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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