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Lo ha dichiarato Alfonso Santagata, Manager di Enit-Italian National Tourist Board Brussels, durante l'evento sulla settimana della Cucina italiana nel mondo.
Lo ha dichiarato Alfonso Santagata, Manager di Enit-Italian National Tourist Board Brussels, durante l'evento sulla settimana della Cucina italiana nel mondo.
Lo ha dichiarato l'europarlamentare di Forza Italia Salvatore De Meo al Parlamento europeo di Bruxelles, in occasione della mostra fotografica, «Paesaggio, Natura e Lavoro Agreste».
Da quando nel 2012 Xi Jinping ha riunito sulla propria scrivania le leve del potere in Cina, il Paese ha avviato una fondamentale rivoluzione digitale. Basata sulla capillarità, sulla gestione dei dati e sulla sorveglianza dei cittadini. Ora, mentre il mondo ha il fiato sospeso per comprendere quanto accade in Medio Oriente, attende di capire che succederà in Ucraina e teme che scoppino altre guerre (non solo di natura commerciale), Pechino si avvia alla stretta definitiva del Web. A partire dal prossimo 15 luglio per utilizzare app, servizi digitali e navigare sulle piattaforma si renderà necessario un ID, un identificativo, emesso dallo Stato. Le «misure per la gestione del servizio pubblico di autenticazione» sono state già approvate lo scorso 27 febbraio dal ministero della Pubblica sicurezza e validate da quello del Cyber spazio.
Non si tratta però di un semplice codice, ma di una vera e propria infrastruttura digitale capace di raccogliere in un solo punto tutte le informazioni degli utenti, chiaramente con la possibilità di tracciarli e di bloccarli. Tradotto, di impedire loro l’utilizzo dei servizi che ormai viaggiano tutti sulla rete. Al di là del rischio di violazione da parte di hacker, di cui nemmeno la Cina è esente (nel 2022 è stato bucato il data base della polizia e dentro c’erano informazioni sensibili di quasi un miliardo di persone) in ballo c’è il pericoloso tema del totalitarismo digitale. Formalmente la scelta di Pechino è giustificata con la più classica delle scuse: la centralizzazione serve a mettere al sicuro le persone. Tanto che in nessun punto del documento dello scorso 27 febbraio si evince l’obbligo di utilizzo. Il ministero si limita a spiegare che ai cittadini che ne faranno uso saranno destinati premi e incentivi a livello di punteggio digitale, che vanno a sommarsi alle classifiche già in essere sull’affidabilità dei singoli. D’altro canto, però, Pechino si muove con le aziende chiedendo loro di accettare esclusivamente che a loggarsi siano ID emessi dallo Stato. Ci vorrà, insomma, tempo e una certa progressione ma alla fine potrebbe realizzarsi quello che alcuni ricercatori dell’università di Berkeley hanno già sintetizzato come il lockdown dell’internet. Da un lato perché riporta a schemi di controllo che erano in essere fino al 1984, quando il Web non aveva ancora adottato i protocolli Cern e si basava su un numero di host oltre che limitato, iper tracciato. Ma il termine lockdown rende benissimo l’idea perché ci riporta alla mente il periodo della pandemia e soprattutto l’attuazione del green pass. Il primo esperimento europeo di validazione (anonimizzata ma non anonima) degli utenti. Abilitati ad accedere a determinati luoghi o settori. La stessa cosa avverrà nel mondo del digitale che come ormai tutti sappiamo sta diventando la fetta più ampia della nostra quotidianità. Senza contare che in Cina sono già in stato avanzato le altre forme di controllo facciale e l’intera tracciabilità tramite telecamere. In fondo la strategia non stupisce. Ciò che stupisce è la mancanza di dibattito in Europa. Nel gennaio 2020 la Commissione rese noto un documento programmatico decennale che prevede la trasformazione dei cittadini in Identità digitali e i governi in piattaforma digitali. Nel settembre successivo quando Ursula von der Leyen fece il suo discorso al Parlamento citò espressamente il documento. E anche in quel caso spese parecchie parole ad elogiare l’intento protettivo nei confronti dei cittadini.
Solo gli Stati possono difendere online gli utenti dalle multinazionali private. Quando l’anno successivo un emendamento alla manovra italiana ha creato l’interoperabilità dei silos dati, alla faccia della privacy, nessuno ha alzato un dito. In quell’occasione fu aggiunto un addendum che include circa 400 enti che possono scambiarsi tra di loro informazioni. Cosa prima di allora non possibile. Il ministero della Salute non condivideva dati con l’Agenzia delle entrate (fu fatto per avviare le multe ai no vax over 50). Ma in quell’elenco ci sono anche gestori autostradali, delle reti idriche e di altri servizi pubblici. A oggi questo schema non serve a nulla. Ma non c’è stato un dibattito politico sull’uso che se ne potrà fare fra dieci anni. Il mese scorso su sollecitazione americana, il governo ha avviato una revisione del sistema di telecamere installato alla Camera, nelle procure. Sono occhi prodotti da aziende cinesi. Il timore è che - detto in modo volgare - possano contenere delle backdoor in grado di veicolare informazioni sensibili all’estero. Ciò per rendere l’idea della delicatezza del tema. La Cina è un passo avanti - non in senso positivo - e sperimenta ciò che la tecnologia può mettere a disposizione del potere. In Occidente varrebbe la pena interrogarsi sull’andazzo che si sta prendendo.
Esportare in Europa il modello Trump. Per questo Elon Musk ha lanciato Make Europe Great Again (Mega), provocando, come ampiamente previsto, reazioni e rigurgiti di allarmismo e indignazione. Le sinistre ci cascano in pieno, Musk e Trump ampliano la loro forbice di possibile trattativa.
Il putiferio si scatena quando il patron di Tesla sul suo X pubblica: «People of Europe: Join the Mega Movement», dopo l’endorsement ad Alternative Für Deutschland (Afd ora è al secondo posto nei sondaggi). Non solo Germania, perché la rete del magnate sudafricano può farsi sempre più grande. Oltre a Giorgia Meloni, il capo di X può contare sulle simpatie dello slovacco Robert Fico e di quelle del polacco Dominik Tarczynski. In Romania c’è Calin Georgescu il candidato presidente nazionalista, al quale la Corte di Giustizia Europea ha annullato l’esito delle elezioni con una sentenza choc. Nel Regno Unito c’è Nigel Farage, in Olanda Dick Schoof e in Belgio Tom Van Grieken di Vlaams Belang. In Francia Eric Zemmour di Reconquête, ma anche Rassemblement National di Marine Le Pen con cui però non ci sarebbero stati ancora incontri diretti. Infine in Portogallo esistono buoni rapporti con Andrea Ventura di Chega, mentre in Spagna c’è Vox di Santiago Abascal. E toccherà proprio al partito spagnolo organizzare la convention dei Patrioti del 7 e 8 febbraio, che si intitola proprio Mega. Previsto un nuovo intervento del magnate americano, con lui anche Le Pen, Viktor Orbàn, Geert Wilders e Matteo Salvini.
Senza dimenticare il Belgio, che ospita i palazzi del potere dell’Ue, ma ha svoltato a destra. Ieri, a pochi passi dal Parlamento europeo di Bruxelles, il conservatore Bart De Wever ha infatti prestato il giuramento solenne come nuovo primo ministro del Belgio davanti al re Filippo e ai ministri nel palazzo reale della Capitale belga. De Wever, fino a ieri sindaco di Anversa, ex separatista, anti woke, è il leader di N-va (Nuova alleanza fiamminga), un partito che inizialmente spingeva per la secessione delle Fiandre, ma che negli ultimi anni aveva abbracciato una linea più moderata. Il neo premier, primo nazionalista fiammingo a governare il Paese, è riuscito nell’impresa di consolidare N-va come primo partito delle Fiandre ma anche dell’intero Belgio.
. Dopo il giuramento, il premier belga ha partecipato al ritiro informale dei leader Ue ed è subito intervenuto sui temi caldi: difesa, guerra, il rapporto con gli Stati Uniti di Donald Trump e l’immigrazione.
E proprio sui flussi ha ribadito che il Belgio andrà «verso una politica più severa». Un impegno che rispecchia la decisione dei cittadini belgi: «La popolazione ci ha chiesto questo, di andare verso una politica rigorosa ed è esattamente quello che faremo», ha concluso De Wever.
A proposito di reazioni composte all’invito a rendere di nuovo grande l’Europa, su Repubblica, Antonello Guerrera ha definito Musk il «Rasputin di un’internazionale nera e populista in Europa». Missione che «non era riuscita a Steve Bannon troppo periferico rispetto all’uomo più ricco del mondo». Quello del patron di Tesla per Repubblica sarebbe addirittura un piano «per far saltare l’Europa».
Intanto al Parlamento europeo ieri mattina in alcune cassette postali sono arrivati dei cappellini blu con la scritta Mega. Erano stati stampati dai romeni di Aur (membri di Ecr) in occasione di un convegno della scorsa settimana. L’europarlamentare Susanna Ceccardi della Lega è stata la prima a indossarlo e a fare un post su X di risposta al magnate: «Hey @elonmusk, let’s make it happen!».
Nel frattempo la Commissione europea usa l’unica arma che conosce, ovvero la burocrazia. E h a richiesto a X di consegnare una serie di documenti relativi ai «sistemi di proposte» ovvero quelli che suggeriscono agli utenti cosa leggere o seguire. Il proprietario della piattaforma ha risposto di essere un paladino della libertà di parola e ha accusato Bruxelles di censura. Prosegue anche il suo lavoro nel Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge). Ieri è stato chiuso l’ufficio principale di UsAid, l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale a Washington. Ai dipendenti è stata inviata una mail poco dopo la mezzanotte in cui gli si chiedeva di non presentarsi in sede e di lavorare da remoto. Nei giorni precedenti Musk l’aveva definita «irreparabile», aggiungendo che il presidente Trump concordava che sul fatto che dovesse essere chiusa.
Per le questioni etiche, quella che inizia domani sarà una settimana cruciale. La Corte costituzionale presieduta da Augusto Barbera dovrebbe infatti pronunciarsi su due ricorsi, uno sul fine vita e uno sul «terzo sesso» nei documenti.
Il primo quesito è stato sollevato dal gip del tribunale di Firenze, dove sono alla sbarra gli attivisti Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli, per aver accompagnato Massimiliano, un quarantaquattrenne affetto da sclerosi multipla, a compiere il suicido assistito in Svizzera. Il magistrato chiede alla Consulta se sia compatibile con la Carta fondamentale il requisito - fissato dalla stessa Corte - in virtù del quale, per accedere a quella pratica, il paziente debba essere dipendente da alimentazione e respirazione artificiali.
L’altra causa, invece, è stata presentata dai giudici di Bolzano, sollecitati da un sudtirolese che vorrebbe ottenere, allo stato civile, un’attribuzione di genere come «persona non binaria», poiché le opzioni attualmente presenti, «maschile» e «femminile», non riflettono la sua identità. La legge 164 del 1982, all’epoca all’avanguardia ma evidentemente superata dall’ideologia, prevede che nella rettificazione di sesso non si possa assegnare un genere diverso dal maschile o dal femminile. Strano, eh? La Corte, comunque, non sarebbe intenzionata ad assecondare la svolta woke dell’Italia: accogliere le obiezioni sul «non binarismo» equivarrebbe a imporre i dogmi dell’antropologia Lgbt.
Un atto politico, piuttosto che una maniera di tutelare i diritti autentici delle persone. Sarebbe troppo persino per un organismo che ormai -citiamo un adagio del suo ex presidente, Marta Cartabia - si è convertito alla filosofia delle Corti come fattori «dinamizzanti» dell’ordinamento giuridico. E poi, così tanto si è investito nella retorica della «scienza» quando bisognava puntellare l’obbligo vaccinale, che oggi si faticherebbe a trovare giustificazioni plausibili per allontanarsi da un banale dato di realtà: esistono solo maschi e femmine.
Più articolata è la vicenda del fine vita. Nel 2019, dopo la morte in un cantone elvetico di Fabiano Antoniani, alias dj Fabo, episodio che vide sempre coinvolto il radicale Cappato, la Consulta scelse di ovviare al silenzio del Parlamento con una sentenza che fissava i requisiti d’accesso alla pratica del suicidio medicalmente assistito. Il paziente, secondo le toghe, deve soffrire di una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, essere in grado di esprimere il proprio consenso, ma anche dipendere da sostegni vitali. È proprio questo il limite che le campagne dell’Associazione Luca Coscioni vorrebbero superare. Ed è su questo punto che si è soffermato il giudice del capoluogo toscano, ritenendo che esso arrivi a discriminare «irragionevolmente tra situazioni per il resto identiche», in virtù di un elemento che «discende da circostanze del tutto accidentali», «senza che tale differenza», cioè essere o meno attaccati a una macchina, «rifletta un bisogno di protezione più accentuato». Chi respira, beve e mangia da sé non avrebbe meno diritto di morire.
Dopo ripetute aperture in senso libertario (nel merito) e giuristocratico (nel metodo), la Corte sarà propensa a spingersi ancora più in là? Ragioni tecniche, illustrate da Pietro Dubolino qui sotto, spiegano da dove origini il pasticcio giuridico creatosi, sul quale i media sono tornati a porre l’attenzione dopo l’udienza pubblica di una decina di giorni fa. Ma forse non occorre essere esperti per comprendere quanto sarebbe problematico seguire gli argomenti del magistrato di Firenze: la Consulta si troverebbe costretta ad ammettere di aver emesso, cinque anni fa, un verdetto in parte... incostituzionale. Sarebbe come se i suoi membri dichiarassero: ci siamo sbagliati, scusate, ora ci tocca rimediare.
A quanto risulta alla Verità, un altro fattore deporrebbe a sfavore degli attivisti pro eutanasia, non nuovi a manifestazioni controproducenti di zelo (come quando presentarono un quesito referendario sull’eutanasia sgangherato, che la Consulta stessa dovette bocciare, con tanto di severa reprimenda dell’ex presidente Giuliano Amato). Adesso, a irritare la Corte sarebbe stato il presenzialismo di Cappato, protagonista di tutti i casi portati in camera di consiglio e pure di quelli che potrebbero arrivarci prossimamente. Appena sei giorni fa, anche il giudice per le indagini preliminari di Milano, Sara Cipolla, ha trasmesso alla Consulta gli atti di due procedimenti simili alla storia del paziente toscano: l’ex candidato progressista alle suppletive di Monza aveva aiutato Elena Altamira e il signor Romano - come Massimiliano, non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale - a raggiungere la Svizzera. E venerdì, l’Associazione Luca Coscioni ha annunciato che alcune delle dieci nuove richieste di suicidio assistito, presentate di recente in varie regioni italiane, potrebbero finire alla Consulta, «a causa dell’ambiguità» di quella barriera innalzata dalla sentenza del 2019. Qualche toga avrebbe storto il naso, ritenendo che la Corte non debba occuparsi a tempo pieno delle battaglie di Cappato.
C’è da augurarsi, infine, che i giudici comprendano quali conseguenze avrebbe correre dietro ai desideri dei radicali: persino un anziano triste e solo diventerebbe un buon candidato per la «dolce morte». Ma l’Italia non è l’Olanda. A prescindere dalle convinzioni personali, alla Consulta se ne ricorderanno? Tra pochi giorni ne avremo un’idea.
Lo scorso 22 maggio si è tenuta l’udienza decisiva della Corte costituzionale sugli extra costi sanitari che con il governo Draghi, per mano di Roberto Speranza e Daniele Franco, sono stati ribaltati sulle aziende del settore. I togati si sono riuniti grazie alla pioggia di ricorsi delle imprese di device sanitari su cui è ricaduta la tassa che in gergo tecnico si chiama payback. Dal 22 maggio alla prossima settimana si tratta di quasi un mese e mezzo, tanto tempo. Tantissimo tempo giustificato da un motivo semplice. La sentenza in arrivo potrebbe creare un buco da 3,6 miliardi se i giudici decidessero di dare ragione in toto alle aziende e imporre al legislatore e al governo di smontare in pieno lo schema messo in piedi nel 2022. Il 22 agosto, per la precisione, Speranza spiegava che grazie alla lezione del Covid «il Servizio sanitario nazionale avrà più risorse». Con grande coraggio l’allora titolare della Salute prometteva più welfare, mentre per sua firma, assieme al collega Franco, tre settimane prima infilava un articolo nel decreto Aiuti bis che in un sol colpo rappresentava un esproprio da 3,6 miliardi e di fatto un taglio secco al welfare. La scelta di applicare un «payback» alle aziende che forniscono ospedali e Asl dei dispositivi sanitari oltre a violare la Costituzione (questo se lo decideranno i giudici) ribalta pure le norme civilistiche che tengono in piedi i bilanci.
Dal 2015 il comparto, formato da circa 4.000 aziende, era in attesa della definizione di una particolare e molto discutibile tassa. L’idea era quella di imporre ai fornitori della Pa di concorrere a ritroso a eventuali inefficienze dello Stato o delle Regioni. A queste aziende, celebrate ai tempi del Covid, non è stata data la possibilità di organizzarsi (la tassa è retroattiva e incide sul fatturato) e, se l’imposta non venisse cassata dai giudici, sarà negata pure la possibilità di sfilarsi da contratti diventati un mero costo.
Un documento interno inviato nel settembre 2022 ai soci di Confindustria dispositivi sanitari spiega chiaramente l’origine dell’abominio fiscale in corso. «La prima motivazione che ha portato all’articolo (del dl Aiuti bis, ndr) riguarda la necessità di ripianare gli aumenti della spesa sanitaria delle Regioni legati alla gestione della pandemia. Si ricorda che la struttura commissariale ha acquistato (voce di spesa a carico del bilancio dello Stato) vaccini, test, dispositivi direttamente connessi con la pandemia», si legge nella mail, «ma altre spese dirette e indirette sono rimaste a carico delle Regioni. Sebbene ancora non siano stati pubblicati i dati relativi alla spesa sanitaria regionale 2021, da interlocuzioni con alcuni assessori si può affermare che le quote trasferite dallo Stato alle Regioni per la pandemia rappresentano mediamente il 50-55% delle spese effettivamente sostenute». È chiaro perché la coppia Speranza-Franco abbia deciso dopo anni di frigorifero di mettere in pista la tassa. L’obiettivo era tappare il buco di bilancio. Ciò che non hanno messo in conto è l’effetto sulle aziende e sulla capacità di queste di rifornire la Sanità pubblica con le attrezzature necessarie negli anni a seguire. Di fronte a ingenti perdite e al rischio di dover licenziare, molte imprese hanno così deciso di non pagare e avviare tutti i ricorsi del caso.
Nel frattempo il governo Draghi ha lasciato il passo ed è subentrato l’esecutivo Meloni. La prima manovra, quella licenziata a dicembre 2022, non ha potuto fare granché a favore delle aziende. Dei 3,6 miliardi circa 2 erano già stati messi a copertura. La maggioranza ha però trovato il modo nel gennaio successivo nel veicolo del Milleproroghe di dare altro tempo alle imprese. E, come dice il nome stesso del decreto, di prorogare di cinque mesi qualunque tagliola. Nella primavera del 2023, in parallelo, il governo è riuscito a stanziare un fondo da circa 1 miliardo. In gran parte destinato a rifinanziare il comparto. Una cifra chiaramente non sufficiente a risolvere i problemi di tutte le imprese travolte dal payback.
Così i ricorsi si sono canalizzati e dopo le prime risposte del Tar si è andati avanti e si è arrivati alla data del 22 maggio. E all’appuntamento bollente di questa settimana. Oltre alle sentenze su Marco Cappato (che punta all’ok alla «dolce morte» pure per chi non dipende dalle macchine) e sullo sdoganamento dell’identità non binaria, la Consulta dovrà dire la sua sulla costituzionalità del payback.
Non sappiamo come andrà, ovviamente. Purtroppo ci sono precedenti sul tema pensioni in cui alla tutela dei diritti pregressi dei cittadini ha prevalso la ragion di Stato o meglio la tenuta dei conti pubblici. Se la Consulta smentisse la linea sulle pensioni, il governo si troverebbe a riavviare a ritroso il percorso: rimborsare chi ha pagato e dover trovare la differenza. Con il nuovo Patto di stabilità, impossibile che si scelga la via del deficit.

