Da quando nel 2012 Xi Jinping ha riunito sulla propria scrivania le leve del potere in Cina, il Paese ha avviato una fondamentale rivoluzione digitale. Basata sulla capillarità, sulla gestione dei dati e sulla sorveglianza dei cittadini. Ora, mentre il mondo ha il fiato sospeso per comprendere quanto accade in Medio Oriente, attende di capire che succederà in Ucraina e teme che scoppino altre guerre (non solo di natura commerciale), Pechino si avvia alla stretta definitiva del Web. A partire dal prossimo 15 luglio per utilizzare app, servizi digitali e navigare sulle piattaforma si renderà necessario un ID, un identificativo, emesso dallo Stato. Le «misure per la gestione del servizio pubblico di autenticazione» sono state già approvate lo scorso 27 febbraio dal ministero della Pubblica sicurezza e validate da quello del Cyber spazio.
Non si tratta però di un semplice codice, ma di una vera e propria infrastruttura digitale capace di raccogliere in un solo punto tutte le informazioni degli utenti, chiaramente con la possibilità di tracciarli e di bloccarli. Tradotto, di impedire loro l’utilizzo dei servizi che ormai viaggiano tutti sulla rete. Al di là del rischio di violazione da parte di hacker, di cui nemmeno la Cina è esente (nel 2022 è stato bucato il data base della polizia e dentro c’erano informazioni sensibili di quasi un miliardo di persone) in ballo c’è il pericoloso tema del totalitarismo digitale. Formalmente la scelta di Pechino è giustificata con la più classica delle scuse: la centralizzazione serve a mettere al sicuro le persone. Tanto che in nessun punto del documento dello scorso 27 febbraio si evince l’obbligo di utilizzo. Il ministero si limita a spiegare che ai cittadini che ne faranno uso saranno destinati premi e incentivi a livello di punteggio digitale, che vanno a sommarsi alle classifiche già in essere sull’affidabilità dei singoli. D’altro canto, però, Pechino si muove con le aziende chiedendo loro di accettare esclusivamente che a loggarsi siano ID emessi dallo Stato. Ci vorrà, insomma, tempo e una certa progressione ma alla fine potrebbe realizzarsi quello che alcuni ricercatori dell’università di Berkeley hanno già sintetizzato come il lockdown dell’internet. Da un lato perché riporta a schemi di controllo che erano in essere fino al 1984, quando il Web non aveva ancora adottato i protocolli Cern e si basava su un numero di host oltre che limitato, iper tracciato. Ma il termine lockdown rende benissimo l’idea perché ci riporta alla mente il periodo della pandemia e soprattutto l’attuazione del green pass. Il primo esperimento europeo di validazione (anonimizzata ma non anonima) degli utenti. Abilitati ad accedere a determinati luoghi o settori. La stessa cosa avverrà nel mondo del digitale che come ormai tutti sappiamo sta diventando la fetta più ampia della nostra quotidianità. Senza contare che in Cina sono già in stato avanzato le altre forme di controllo facciale e l’intera tracciabilità tramite telecamere. In fondo la strategia non stupisce. Ciò che stupisce è la mancanza di dibattito in Europa. Nel gennaio 2020 la Commissione rese noto un documento programmatico decennale che prevede la trasformazione dei cittadini in Identità digitali e i governi in piattaforma digitali. Nel settembre successivo quando Ursula von der Leyen fece il suo discorso al Parlamento citò espressamente il documento. E anche in quel caso spese parecchie parole ad elogiare l’intento protettivo nei confronti dei cittadini.
Solo gli Stati possono difendere online gli utenti dalle multinazionali private. Quando l’anno successivo un emendamento alla manovra italiana ha creato l’interoperabilità dei silos dati, alla faccia della privacy, nessuno ha alzato un dito. In quell’occasione fu aggiunto un addendum che include circa 400 enti che possono scambiarsi tra di loro informazioni. Cosa prima di allora non possibile. Il ministero della Salute non condivideva dati con l’Agenzia delle entrate (fu fatto per avviare le multe ai no vax over 50). Ma in quell’elenco ci sono anche gestori autostradali, delle reti idriche e di altri servizi pubblici. A oggi questo schema non serve a nulla. Ma non c’è stato un dibattito politico sull’uso che se ne potrà fare fra dieci anni. Il mese scorso su sollecitazione americana, il governo ha avviato una revisione del sistema di telecamere installato alla Camera, nelle procure. Sono occhi prodotti da aziende cinesi. Il timore è che - detto in modo volgare - possano contenere delle backdoor in grado di veicolare informazioni sensibili all’estero. Ciò per rendere l’idea della delicatezza del tema. La Cina è un passo avanti - non in senso positivo - e sperimenta ciò che la tecnologia può mettere a disposizione del potere. In Occidente varrebbe la pena interrogarsi sull’andazzo che si sta prendendo.


