2021-06-30
Sul lavoro una soluzione politica. Però sul tavolo restano troppi nodi
La mediazione di Draghi funziona ma non cancella i problemi. Primo, come individuare le aziende tessili, visto che tante non usano i contratti collettivi di settore. Secondo, come riqualificare chi resterà senza posto.Dopo oltre un mese di confronti, il governo pare orientato a procedere con una soluzione di compromesso in materia di (s)blocco dei licenziamenti. Una via di mezzo tra il superamento del meccanismo legislativo di congelamento dell'occupazione che risale ai primi decreti Covid-19 (a oggi questo accadrebbe senza alcun intervento) e la proroga indistinta fino al 31 ottobre richiesta dal sindacato e da alcune forze di governo. La mediazione operata dal premier è costruita attorno alla selettività della proroga che sarà approvata dal Consiglio dei ministri convocato per oggi, dopo il confronto tra governo e sindacati avvenuto ieri. In sintesi, dal 1° luglio le aziende che versano i contributi per la cassa integrazione ordinaria potranno tornare a licenziare anche per motivi economici se - primo - non appartenenti al settore tessile e agli ambiti produttivi connessi (calzaturiero, pelletteria e moda soprattutto) e - secondo - non determinati a usufruire nuovamente (fino a fine ottobre) della cassa integrazione gratuita Covid, il ricorso alla quale automaticamente rinnova il divieto ai licenziamenti economici. Non è certo se nel decreto legge troverà spazio la conferma del blocco anche per chi ha usato un numero di ore di cassa integrazione sostanzioso e, soprattutto, per le aziende coinvolte nei tavoli di crisi gestiti dal ministero dello Sviluppo economico (una novantina). La soluzione ideata da Palazzo Chigi è, come sovente accade da quando è primo ministro Mario Draghi, estremamente lineare, una razionale ed equidistante mediazione tra le posizioni in campo. Non è però detto che all'equilibrio politico corrisponda un equivalente equilibrio tecnico. Se da una parte, infatti, la selettività si spiega con i differenti tassi di ripresa del settore manifatturiero, dall'altra non vi è alcun obbligo per le aziende che operano nell'abbigliamento ad applicare i contratti collettivi nazionali di lavoro di quei settori. Una parte, forse anche sostanziosa, della filiera non sarebbe coinvolta da una misura che usasse la contrattazione come lente per individuare le imprese soggette all'obbligo. Molti operatori si avvalgono infatti del contratto della gomma, del commercio, finanche di quello metalmeccanico. Come garantire il rispetto della misura su tutta la filiera? Ricorrere nuovamente ai codici Ateco non pare una soluzione soddisfacente, visto il disordine generatosi lo scorso anno quando furono utilizzati questi indici statistici per imporre le chiusure, anche allora selettive.Particolarmente rilevante è inoltre il nodo delle imprese in crisi. Il timore del sindacato è che alcuni grandi tavoli di confronto avviati da mesi potrebbero essere ribaltati dalla improvvisa decisione delle aziende di procedere ai massicci licenziamenti collettivi già a partire dal 1° luglio. La sola partecipazione ai tentativi di salvataggio avviati dal Mise non può essere ragione della selezione di queste imprese, estremamente eterogenee tra loro. Ben più fondata appare la ricostruzione dello stesso scambio che ha giustificato le misure dei mesi scorsi: alla proroga del licenziamento è quindi da associare (come già approvato dal governo) la proroga della cassa integrazione senza ulteriori costi.Perché mai le imprese non dovrebbero aderire? Dietro questa domanda si nasconde il nodo che la mediazione governativa non riesce a sciogliere. Molte delle imprese che permangono in uno stato di grave crisi (per talune causato dalle avverse circostanze economiche; per talaltre dagli errori imprenditoriali o manageriali) non vedono possibile una soluzione entro quella che è stata individuata come la nuova scadenza del blocco, il 31 ottobre. In alcuni casi, non vedono proprio la soluzione. Per queste imprese va replicandosi uno schema già conosciuto: congelamento dell'occupazione, scadenza del meccanismo di protezione legislativa, proroga dei termini. Tale processo è giustificato certamente dalla salvaguardia dei redditi dei lavori nel breve (e, ora, medio) periodo. Se però si guarda avanti non si può non ammettere che questa resti una «non soluzione»: cosa faranno il governo e le parti sociali per quelle persone che comunque, prima o poi, perderanno il loro posto di lavoro? Come i diversi schieramenti stanno giocando i tanti tempi supplementari generati dalle continue proroghe per evitare di perdere comunque la partita ai rigori? Si proceda con il nuovo termine, comprensibilissimo e giustificato socialmente; non è certamente questo il problema della economia italiana oggi. Prima o poi, però, occorreranno proposte concrete e perseguibili di riqualificazione e accompagnamento al (nuovo) lavoro dei tanti che questa crisi ha indebolito. Si tratta, come sempre accade, dei lavoratori più deboli in termini di competenze e livelli di istruzione, per i quali non basta il fortino difensivo, ma occorrono anche progetti di crescita e di ritorno alla occupazione di qualità.Presidente Adapt e docente di pedagogia del lavoro dell'università Lumsa