2023-08-19
L’identità è cambiare nella continuità. La Egonu è italiana, ma le sue origini no
Pubblichiamo uno stralcio dal libro «Il mondo al contrario» di Roberto Vannacci.La cultura di un popolo è un prodotto dinamico e si arricchisce di altri contributi, ma questi correttivi non modificano ciò che si è cristallizzato in 5 millenni di storia. I connazionali in moschea non cancellano 2.000 anni di cristianità.Di Roberto Vannacci, Generale dell'Esercito.La mia società, quella in cui sono nato ed ho vissuto e per la quale ha combattuto mio nonno – classe 1898, che arruolandosi a 16 anni si è fatto la prima, la seconda guerra mondiale e la guerra di Spagna – tutto sommato mi piace. Sicuramente si può migliorare ma è meglio di molte altre. Mi piacciono le libertà individuali, lo stato di diritto, la libertà di espressione, l’idea di poter avere successo basandosi sulle proprie capacità, l’uguaglianza di fronte alla giustizia, il benessere che ci siamo conquistati ed il progresso a cui siamo stati capaci di giungere. Mi piace la mia cucina, i cantautori nazionali, l’odore del pane fresco al mattino e le campane che suonano la domenica. Le altre culture le rispetto, non le voglio cambiare, a volte le apprezzo e ne so valorizzare alcuni tratti piacevoli e positivi ma non le sostituirei alla mia. E non voglio che nessuno ci provi con la mia. La mia cultura, la considero un dono che i nostri avi ci hanno tramandato con cura e che dobbiamo custodire gelosamente. Sì, perché forse ingenuamente ed illudendomi un po’, ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, di Romolo, di Giulio Cesare, di Dante, di Fibonacci, di Giovanni dalle Bande Nere e di Lorenzo de Medici, di Leonardo da Vinci, di Michelangelo e di Galileo, di Paolo Ruffini, di Mazzini e di Garibaldi. E non vi dovete stupire se sono andato così lontano nel tempo. Da adolescente, infatti, leggendo un libro su Annibale ho avuto un’incredibile rivelazione: l’autore, il bravissimo Gianni Granzotto, sosteneva infatti che «sessanta nonni ci dividono oggi da Annibale. Sessanta nonni soltanto. Potrebbero stare tutti in quella stanza della memoria, cucitrice del tempo». E proprio questo bellissimo esempio mi consente di evidenziare che la cultura di una popolazione ed il tempo a cui fa riferimento sono parametri intimamente legati tra loro. È vero che la cultura è un prodotto storico, è in costante divenire e si arricchisce giorno per giorno mutando ma è anche vero che questi infinitesimali correttivi dell’ultima ora hanno un impatto insignificante su ciò che si è cristallizzato in 5.000 anni di storia. Se lo dovrebbero stampare bene nella mente i fanatici della «cancel culture» che vorrebbero tirare un colpo di spugna su storia e tradizioni millenarie. Anche se abbiamo seconde generazioni di italiani dagli occhi a mandorla, il riso alla cantonese e gli involtini primavera non fanno parte della cucina e della tradizione nazionale; anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri; anche se vi sono portatori di passaporto italiano che pregano nelle moschee, ciò non cancella 2.000 anni di cristianità. La società cambia, e così la cultura, ma ogni popolazione ha il sacrosanto diritto, ed anche il dovere, di proteggere le proprie origini e le proprie tradizioni da derive e da tangenti che le snaturerebbero. Sono ormai più di cinquant’anni che abbiamo McDonald’s in Italia e che milioni di italiani si cibano dei suoi prodotti, ma nessuno si azzarda a dichiarare che i panini con hamburger e ketch-up facciano parte della cucina tricolore. E fa benissimo Vissani, o qualunque altro virtuoso della culinaria, ad insorgere quando si vorrebbero applicare delle arbitrarie ed esotiche varianti ad una delle grandi espressioni dell’arte nazionale. Analogamente, per quanto crescano le percentuali di stranieri o di cittadini italiani «acquisiti», fare il distinguo su ciò che appartiene alla cultura nazionale e ciò che è importato è indice di tutela di un patrimonio culturale vecchio di millenni e non di inutile sciovinismo o di xenofobia. Nulla contro gli Abu Bakr, i Gengis Kan, i Ming, i Musashi ma la loro anima non la sento pulsare nel mio petto come quella dei nostri eroi. Spetta a chi abbraccia per scelta la cittadinanza italiana farsi contagiare e permeare dalla cultura del Paese ospitante e non il contrario. Lo straniero che non si integra nel tessuto della terra che lo accoglie non è più un immigrato ma diventa un invasore. Da soldato che ha servito in uniforme in decine di Paesi stranieri ho imparato questo concetto non solo sui libri, ma soprattutto nella vita di tutti i giorni. Per quanto mi trovassi in Iraq per combattere al fianco delle forze locali rischiando la mia vita e quella dei miei uomini per aiutare il governo di Baghdad a riconquistare la propria sovranità, non mi facevo vedere bere di giorno durante il Ramadam; rispettavo i momenti di preghiera dei mussulmani; mangiavo alle loro mense senza storcere la bocca o fare commenti sul cibo non sempre di gusto mediterraneo che mi veniva offerto o su quanto mi sarebbe piaciuta una fetta di prosciutto o una salsiccia alla brace. «Il soldato in terra straniera è come il pesce: dopo qualche giorno puzza». Con questa semplice, ma molto esplicita frase, insegnavamo a tutti i militari il rispetto e l’accettazione delle tradizioni locali perché ogni cultura percepisce come estraneo ed invasore chi non si integra nel suo tessuto. E così, proprio per il rispetto delle altrui civiltà, a casa propria tutti hanno il diritto di esercitare la propria cultura d’appartenenza ma a casa mia - perché questa è casa mia e non la terra della popolazione mondiale - ti devi adeguare alla mia di cultura, come io faccio quando sono ospitato nella tua terra di origine.
(Totaleu)
Lo ha dichiarato l'europarlamentare della Lega Roberto Vannacci durante un'intervista al Parlamento europeo di Bruxelles.