2019-10-31
«Li alleno a casa loro a sfidare e vincere qualunque destino»
Il guru italiano Gabriele Rosa dietro il boom dei maratoneti keniani: «Non creo soltanto fondisti, ma protagonisti di una rivoluzione sociale».«Facciamo un patto, io le spiego tutto e lei non mi chiede i metodi di allenamento. Parlare di ripetute è più noioso che farle». Doctor Maratona, così lo chiamano per fare prima, fra le brume del lago d'Iseo prepara le valigie per quella di New York. Dove tutto sembra immobile, folaghe e svassi compresi, è pronto a correre con la mente. A raccontare la lunga maratona della sua vita, quella che lo ha portato alla barba bianca dei 77 anni e al traguardo che sognava da giovane: diventare il corridore più vincente del pianeta. Solo che lo fa con le gambe e il cuore degli altri. Gabriele Rosa ci offre il caffè in uno studio con alle pareti le fotografie di un'esistenza da allenatore: bambini keniani che gli corrono incontro nella Valle del Rift, Paul Tergat che alza le braccia sul filo di lana a Berlino stravolto dalla fatica, Samuel Wanjiru con l'oro alle olimpiadi di Pechino al collo, Brigid Kosgei che sorride dopo aver battuto lo storico il record del mondo tre settimane fa.Sono tutti suoi figli, oltre a quelli naturali Federico e Marco. Dietro i più grandi maratoneti africani, coloro che tramutano in trionfi l'ancestrale «respiro degli altipiani», c'è questo italiano d'acqua dolce, bresciano, medico e sognatore. Un missionario laico dello sport sponsorizzato dalla Nike, che se quel giorno di 2.400 anni fa avesse avuto sottomano Filippide lo avrebbe fatto arrivare ad Atene qualche minuto prima ad annunciare la vittoria. Quest'anno, oltre ai campioni, porta a Manhattan 20 atleti speciali: malati di sclerosi multipla e oncologici, pazienti affetti da Parkinson, ospiti della comunità di San Patrignano. Tutti nella squadra più forte del mondo. «È qualcosa che va oltre lo sport. Ci insegnano l'importanza di non arrendersi, di arrivare in fondo alla corsa senza mollare mai. Non c'è malattia o destino contro cui non si possa combattere e vincere. Sarò al traguardo ad aspettarli con il mio cronometro dei record al collo. Il loro sarà arrivare, il mio sarà abbracciarli».Dottor Rosa, conosciamo il punto d'arrivo. Ma quello di partenza?«Fin da piccolo avevo la corsa dentro, camminare non mi bastava. Al liceo vincevo i campionati provinciali sui 1.000 metri, poi ho dovuto reprimere la passione perché le nostre università non avevano campus. Mi è rimasta sotto pelle una meravigliosa patologia psicologica. Mentre studiavo Medicina e Chirurgia a Pavia, insegnavo educazione fisica alle medie a Iseo e facevo correre gli alunni ovunque. Ma c'erano solo campi di calcio. Proprio quei ragazzini mi diedero la spinta a proseguire».Come?«Mi chiesero di poter continuare a correre, erano un centinaio e non potevo deluderli: fondai l'Atletica Iseo. Nel 1978 la prima sliding door: incontro Gianni Poli, operaio metallurgico a Lumezzane, magro e alto, una piuma di talento. Era un bravo mezzofondista, ma non vinceva mai perché non aveva spunto e nel finale lo battevano. Un giorno gli dico: proviamo con la maratona, lì non c'è la volata. Risultato: primo per sei anni, primo anche a New York».Negli anni Ottanta fonda il Marathon medical center e imbocca la seconda porta girevole, Moses Tanui.«Arriva da me a Brescia un campione keniano, Moses Tanui. Ha problemi a un ginocchio e mi chiede di guarirlo. Lo faccio, poi gli propongo di aiutarmi ad aprire un centro sportivo in Kenya per formare atleti, modellare quell'impasto di classe e resistenza alla fatica, insegnare la disciplina negli allenamenti e trasformare ragazzi che corrono in campioni. Impresa non facile perché tutti pensavano che la maratona fosse una specialità per vecchi e finiti».Cominciava a lavorare per il futuro.«Tanui accettò, trovammo un albergo fatiscente nella foresta, il Kaptagat, posto da Fitzcarraldo. Posto perfetto per allenarsi a 2.500 metri d'altitudine vicino a Eldoret, a sei ore di macchina da Nairobi. Fu il primo training camp del progetto Discovery, mi sembra preistoria. Selezionammo 12 atleti, li facemmo lavorare insieme, condividere la fatica e vivere in college. Avevano bisogno di non tornare a casa perché erano dispersivi. Avrebbero perso tempo e voglia, sarebbe stato letale».Poi esplose la moda della maratona e quei ragazzi cominciarono a vincere.«Cambiarono il vento, la percezione di quella stupenda corsa. E cambiarono i montepremi. Quei 42 chilometri cominciarono a diventare il sogno impossibile anche del ragioniere Brambilla. Oggi ci sono 30 maratone nel mondo tutte le domeniche, ogni città ha la sua. Oggi i nostri training camp si sono moltiplicati, ne abbiamo anche in Etiopia e in Uganda con circa 200 atleti in tutto. Lì crescono uomini e donne, non solo corridori. Ragazzi e ragazze diplomati, con capacità intellettive, umane e sociali di ottimo livello». Ci faccia due esempi speciali.«Paul Tergat non conquistò solo gli argenti olimpici nei 10.000 ad Atlanta e ad Atene e il record del mondo nella maratona di Berlino del 2003, ma è il presidente del Cio in Kenya e si parla di lui come un protagonista del futuro politico del Paese. L'ho preso con me quando era povero, mi considero il suo secondo padre. Margaret Okayo è stata un simbolo, ha sdoganato la maratona femminile spazzando via il pregiudizio».Perché c'era un pregiudizio?«Per le famiglie africane le donne sono di capitale importanza: lavorano e quando si sposano il marito deve portare una dote importante. Per questo erano tenute sempre sotto controllo da parte dei capifamiglia. Lei ha saputo correre lontano dai preconcetti, è diventata una maratoneta incredibile, ha vinto due volte a New York e a Boston. E guadagnando molti soldi ha strappato il sipario della diffidenza».Poche settimane fa, mentre Eliud Kipchoge abbatteva il muro delle due ore, un'altra sua atleta, Brigid Kosgei, ha abbassato il record del mondo femminile.«Brigid è protagonista di una rivoluzione sociale. Grazie a lei, la donna non gareggia più dietro l'uomo, ma al suo fianco. Quando Kipchoge ha corso in 1.59' gli scienziati hanno stabilito che una donna, per pareggiare, avrebbe dovuto correre in 2.15'. Ebbene, lei ha corso in 2.14'. Anche questa è parità».Quanto ha guadagnato la Kosgei per l'impresa?«Circa 400.000 dollari e l'invito alle Nazioni Unite per essere diventata un simbolo».Ma la parità più nobile è quella di offrire ai malati le stesse chance di sognare.«Il movimento come farmaco, tutto parte da questo pilastro. Alla base della piramide della salute c'è il movimento, che serve a formare, prevenire, riabilitare. Ovviamente non si guarisce dal tumore correndo, ma il benessere psicologico diventa una variabile a volte decisiva».Tutti uguali davanti alla maratona di New York, un messaggio forte.«Lo stesso percorso, la stessa fatica, gli stessi spettatori a incitarti. Campioni e gente qualunque. Sani e malati. Puoi impiegare due ore oppure otto, ma fai parte della stessa emozione sportiva. Capita nello sci di fondo alla Vasaloppet e basta. A New York hanno aspettato per 24 ore un uomo che correva con le mani. Condividere un gesto con altri 50.000 è stupendo».Poi, come nella Formula 1, bisogna trasferire i metodi dei campioni alla gente normale che riscalda i muscoli fra un acciacco e l'altro.«Lavoriamo sulle quattro sfere del benessere: la resistenza riduce il rischio di malattie cardiovascolari e tumorali, la forza migliora il metabolismo e previene l'osteoporosi, la flessibilità previene la degenerazione delle articolazioni, l'equilibrio combatte dolori cervicali e mal di schiena. Peccato che nei talk show televisivi ci siano solo i nutrizionisti e del movimento non parli nessuno».Oggi tutti dicono di camminare o correre e alla fine controllano i passi sull'iPhone.«La ricerca del benessere necessita di applicazione, se cammini guardando le vetrine per tre ore non serve a niente».Cosa le rimane nel cuore quando dalla Valle del Rift torna in Italia?«La malinconia di un luogo magico e l'orgoglio di avere creato uno staff indigeno. Laggiù i miei primi atleti sono diventati allenatori dei giovani. Io sono solo uno spettatore, anzi un “muze", un bianco vecchio come mi chiamano i bambini. Questo per mettere a tacere chi volesse sollevare - e può succedere - dubbi assurdi di colonialismo».Dottor Rosa, se chiude gli occhi cosa vede?«Un ragazzino che corre in piazza a Iseo sotto il monumento dedicato al prozio, che era un patriota mazziniano e finì allo Spielberg nella cella di Silvio Pellico. Allora mi sembrava di essere Abebe Bikila che spunta a piedi nudi ai Fori Imperiali illuminati dai fari. La maratona ci ha dato una vita».
Giorgia Meloni e Donald Trump (Ansa)