2021-12-12
L’Hamsun italiano che faceva letteratura neorealista in pieno regime mussoliniano
Appena ripubblicato un volume di racconti di Marcello Gallian, scrittore e pittore dimenticato che incarnò l’anima inquieta e anarchica della cultura tra le due guerre.Era una giornata pallida e tenera, una di quelle che mi ispiravano odio e gelosia: me ne andavo, ricordo, beffeggiando il cielo e i passanti mi ritenevano pazzo. A quei tempi, nel 1921, c’era da trovar sempre un tale che difendesse il cielo, lo prendesse a protezione, ne menasse vanto, ne esaltasse la bontà e il valore, a caso ché del cielo quel passante, alla fine, non conosceva né l’origine né la composizione chimica né le leggi che le governavano. «Insulta il bel cielo» e, così gridando, mi additò ad una guardia a cavallo che passeggiava attorno ad un’aiuola. La guardia e il cavallo non se ne dettero per inteso: il muso della bestia fiutava dall’alto, le erbe, i fiori, le foglie degli alberi legate senza scampo al corpo enorme; a guardare, così sconsolata ed avida com’era, gli occhi melanconici di guerra, la lingua grossa e vecchia fuor dei denti cariati dava a pensare che il giardino fosse una vaga apparenza per lei, abituata a veder campi di filo spinato, scoppi di mitraglia ed elmetti volanti: lembi di bava cadevano ora sui gambi di fiori orfani. Così morbido, delicato il cielo ed io avevo una fame cupa, scura, triviale, che mi faceva sordo e miope. Certe ragazze ignare mi venivano addosso a guardarmi e toccarmi e io non le curavo: non ricordavo nemmeno che cosa fossero, quelle donne, estranee addirittura alla mia gola e al mio stomaco vuoto, abitatrici di chissà quale pianeta. Così camminando a casaccio, giunsi dinanzi al cancello d’una specie di recinto, ov’eran una casa rossa nascosta dietro glicini e una vasca, a forma di lago, con uno zampillo nel mezzo. Nell’acqua chiara andavano raminghi alcuni pesci rossi. Eran quattro, lucidi e stupiti e guardavano l’acqua ch’era dinanzi agli occhi loro. Non ho visto più mai, durante la mia vita, pesci più ornamentali, più decorativi, più inutili di quelli: si dimostravano alla pari con le palme, con le erbe delle anticamere, coi capelvenere, coi nei che crescono sulle guance degli uomini e delle donne. Come nei recinti non era persona, io entrai, e chiuso il cancello, sedetti sulla sponda d’un laghetto, facendo le finte d’attendere qualcuno. Attendevo invero, traviato e sperduto, che il profumo del glicine m’arrivasse alle narici: con le forze che mi rimanevano fiutavo, fiutavo, ma quei fiori dovevano essere inodori, lontani, orme, apparenze di chissà quali regioni dell’universo. Potevo appena accorgermi che il mondo era sbagliato e che invece di far nascere carni o frutta sul mio cammino d’uomo, avesse fatto fiori e alberi duri: una pazzia, un controsenso, una vanità senza pari. Infatti, sebbene miserabile, sentii dentro di me una specie di oscena vanagloria, di sufficiente immodestia: era un sentimento strano: il governo delle cose agiva su di me, stanco, con potenza. Ero sulle sponde d’un laghetto e mi veniva voglia di pescare. Cominciai a smuovere l’acqua con una mano, sino a che la conservai dentro, ben ferma. Forse, col tempo, non mi sarei mosso più da quel luogo: la mano nell’acqua stava bene e l’acqua appena agitata me la faceva quasi marina, fuori di me, lontana: me la catturava; ne faceva abisso di mare. Sentii passare e ripassare attorno alle dita, appena toccandole, un pesce rosso e poi un altro e un altro ancora, in una gara di fluidità leggera che cadeva in una certa pesantezza oscura, ardua, dubbiosa; fiutavano e giravano ancora, torno torno e ancora andavano al largo e ricomparivano attorno alla preda quasi quei pesci torbidi cercassero di conoscere la qualità della carne offerta, belve, che diventate piccole e feroci, si cibano di poco, di filamenti, di briciole, di materie in decomposizione, di rifiuti enormi di mare. Sognavan forse, quei pesci, la mia mano ridotta a poltiglia, facevan la veglia ad una cosa pronta a morire a furia d’acqua, labili peli s’alzavano dalla mano, pepite rapite, piccoli lembi di pelle fluttuavano: di sotto le unghie si scioglievano quei rifiuti che io avevo tolto dai muri della terra, che io avevo grattato dalle cose, passando. Sino a che, ad un tratto, una bocca s’aprì, e io provai come il sospetto d’un morso: avvertii che la mano era perduta in quel fondo abissale dove l’acqua, anche poca, ha potenze distruttive e toglie muschi perfino dal marmo più duro. Ora, col passare del sole, il cielo s’era mutato: c’era silenzio grande: gli alberi fermi, ragazzi più non strepitavano, la guardia era sparita; ma di quando in quando, con uno spirar di vento, veniva nel parco incantato e sottomesso, tra fiori e foglie, un vasto odor di cucina di giardinieri e si posava sulle aiuole un odor di fritto sotto il gran sole, d’olio sui glicini e sui salici, le chiome dei quali, riverse dentro l’acqua d’un laghetto più lontano, erano rosicchiate e smunte dalle bocche di altri pesci. M’arrivava così, alle narici stanche, quel sentore di vulcano che aveva strette parentele con l’olio d’oliva e coi torchi di campagna. Riuscii, come ancora non so, ad afferrare un pesce rosso e a cacciarmelo in tasca e poi un altro e dopo un secondo, un altro ancora, ch’era il più grosso e il più lezioso: ramingavo con tutto il corpo seduto strisciando sull’orlo di marmo e cacciavo, ignaro d’ogni cosa, innocente di quanto avveniva. Simile ai primitivi abitatori della terra, che, affamati, andavano alla cerca fiutando e rapinavano quanto trovassero a portata d’occhio. L’acqua dei laghetti immota ed immane: orsi e leoni lontani gridavano nell’ora del pasto, con le zanne pronte: nel fondo di quella foresta pubblica, i pochi fanali di ferro, i recinti di rame, le tabelle di legno facevan paura, materiale mitico e frasi sibilline. Cercando di sostenermi in piedi uscii dalla villetta e mi avviai: con la mano tenevo fermi i pesci nella tasca, che guizzavano ancora. S’appiccicavano sulle carni molle e squamose peli, cerini spenti, lanugine d’abito, pezzi di carta: quei pesci divenivano mostruosi e ispidi, come i pesci luna, come i pesci spada, arenati sopra una spiaggia amara di tela consunta… E procedevo. Trovai la casa in una vecchia via di Roma, nei pressi di Piazza Montanara, laddove, allora, erano catapecchie e tuguri, capanne di rivenduglioli capaci d’ospitare un piccolo triste mercato. Vi giunsi a furia di discese: le discese mi trasportavano facilmente, sebbene il timore mi prendesse di cadere e di battere la fronte in terra: forse, ruzzolando, un fanale mi avrebbe fermato. Le colline abitate eran nascoste da case d’ogni colore, le une sopra le altre avvinte da balconcini, legate e assicurate da chiavi di ferro: coi rampini massicci e rugginosi si tenevan su le finestre. Una casa rimaneva in piedi per sorreggere col tetto pendulo una gabbietta ripiena di vecchie rondini prigioniere. Dalla foresta, abbandonate le colline e scendendo, si trovava il centro della città e, ancora avanzando su una specie di pianura ridotta a Corso, fra negozi di merce di lusso e palazzi antichi, si giungeva alla piazza di quel sobborgo decaduto. A sinistra era la casa: s’entrava in un corridoio che possedeva una sola camera a fianco: la cucina. Qui abitava l’Inglese. Era questi un tale che conoscevo da tempo e che affittava a certi ragazzi, per pochi soldi, una cucina a carbone. Il carbone era quello sfuggito ai carri. Nella camera e nel corridoio eran ragazzi barbuti e stanchi, l’unica ricchezza dei quali era una bocca da fuoco nascosta nei calzoni, dentro il petto o sotto l’ascella. Vestivan tutti, chi più chi meno, calzoni grigioverde tenuti con spaghi e fettucce, fili di ferro o bretelle ridotte a cinghia e fasce nere portavano attorno alle gambe nude e scarpe ai piedi, basse, scarpini di coppale alcuni che un giorno forse erano stati da ballo. Altri indossavano sulla carne viva, sulle spalle nude, una giacca lisa e corrotta, il petto celato con pezze nere, con tele di cotone, appena una striscia, con brani di scialli di donna, antichi. «Che porti?» domandò qualcuno. «Pesca» risposi. Sopra un tavolo figuravan pezzi di polmone, una testina di vitello spaccata e scervellata, una rondine al volo, un pappagallo morto e un’infinità di ranocchi verdi, uccisi a pancia all’aria nei fossati ai limiti della città. Era una strage domestica, un’ecatombe di animali presi nelle strade, dentro le case, dietro i muri, sotto i marciapiedi: eran belve massacrate, d’abitudini borghesi, care agli uomini sfaticati della città, colte sulle soglie delle case benestanti, abitatrici delle rovine, adusate alle abbiezioni, dedicate al sopore, belve sacre alla città assopita e tarda, ammusonita e immota.«Pesca. Allegria» disse uno. Chi sventolò sul fuoco timido, chi aprì e spellò gli uccelli, chi sgarrava col coltello i petti e ne cacciava fuori le interiora rosse e nere, grigie e fredde. «Son triglie» dissi. Sul tardi cominciammo a mangiare: i pesci rossi erano amari, la rondine sapeva di cuoio ammollato: ma si divorava. Con rabbia. Si bevve uno strano vino che sapeva di grappolo sfinito. Le pagnotte militari facevan pensare al fuoco, all’assalto, al «pugnale fra i denti». Fuori, verso sera, cominciarono grida: poi s’udì qualche sparo. Allora, tutti con l’inglese, sazi, scendemmo nella strada. Io, nel ventre, mentre sparavo, avevo un giardino pubblico fra erbe e acque e pesci, e sentivo l’odore, ormai, del glicine misto al tanfo sublime della polvere.