2019-02-07
L’euro mette il cappio alle aziende. O chiudono o tagliano gli stipendi
Prima la svalutazione era un paracadute per fronteggiare le crisi. Con la moneta unica, le imprese dei Paesi più deboli scaricano i costi della competitività sui dipendenti. Lo previde persino l'«euroconvertito» Alberto Alesina.I 92 dipendenti della Pernigotti in cassa integrazione per un anno. La proprietà, però, si tiene stretto il marchio italiano.Lo speciale contiene due articoli.Reddito di cittadinanza troppo elevato oppure salari troppo bassi? È questo il quesito sul quale, terminata la lunga telenovela con Bruxelles andata avanti a suon di minacce fino agli ultimi giorni dell'anno, si sta arrovellando la politica italiana. Dai dati diffusi ieri dal Sole 24 Ore, elaborati a partire dalle banche dati Inps, la situazione peggiore si verificherebbe al Sud, dove il 37,5% dei lavoratori ha uno stipendio annuo inferiore a quanto percepirebbe con il reddito di cittadinanza (9.360 euro, 780 al mese, riferiti all'importo per un single con Isee zero). Va lievemente meglio al Centro, con la percentuale che scende al 27%, mentre stupisce il dato del Nord, che le statistiche dipingono come il territorio più abbiente del Paese. Più di un dipendente su cinque (21%), infatti, avrebbe convenienza economica nell'optare per il provvedimento di sostegno al reddito messo in piedi dal governo. Cifre che testimoniano che se un rischio c'è, è quello legato alla pochezza degli stipendi. Come siamo arrivati al fatto che nel Mezzogiorno più di un giovane su tre campa con meno di 800 euro? La tragedia ha origini lontane: secondo l'ultimo rapporto Benchmarking working Europe 2018 pubblicato dalla European trade union institute, infatti, dal 2010 al 2017 i salari reali italiani sono calati del 4,3%. Nello stesso periodo è andata addirittura peggio in Spagna (-4,4%), Portogallo (-8,3%) e Grecia (-19,1%). Per rimanere sul mercato, le aziende sono state costrette a intervenire drasticamente sulle retribuzioni. Una delle conseguenze è stato l'aumento vertiginoso dei lavoratori part time involontari, vale a dire quei lavoratori che, volenti o nolenti, subiscono passivamente l'applicazione dell'orario ridotto. Nel decennio 2008-2017, dati Eurostat alla mano, la percentuale di questi dipendenti è passata in Italia dal 41,3% al 62,5%. Una realtà con la quale le nuove generazioni hanno imparato, loro malgrado, a fare i conti.L'abbraccio mortale della crisi sui salari non è un fattore incidentale, quanto piuttosto una caratteristica strutturale della moneta unica. Già nell'agosto del 1997, l'economista Milton Friedman metteva in guardia dai pericolo dell'adozione della moneta unica: «Se un Paese è colpito da choc negativi che richiedono, per esempio, l'aggiustamento in basso dei salari rispetto ad altri Paesi», osservava il premio Nobel, «ciò può essere ottenuto facendo leva sul tasso di cambio». Una possibilità che ovviamente, a seguito dell'adozione dell'euro, non sarebbe più stata a disposizione dei singoli Stati membri. Perciò, concludeva l'economista americano, la moneta unica non avrebbe fatto altro che «esacerbare le tensioni politiche, convertendo gli choc divergenti che fino a oggi sono stati prontamente ridimensionati dal tasso di cambio in questioni politiche divisive». Pochi mesi dopo, nel dicembre del 1997, facendo eco a Friedman, Alberto Alesina scriveva sul Corriere: «Se un Paese nell'Unione monetaria subisce uno choc di domanda negativo, qualcosa deve essere mobile e flessibile: o i salari monetari, o la forza lavoro o i tassi di cambi. Dato che i salari monetari sono rigidi al ribasso, la mobilità del lavoro in Europa è bassissima, l'Unione monetaria che fissa i tassi di cambio rende l'aggiustamento agli choc molto difficile e renderà la disoccupazione ancora più permanente». Come conseguenza di ciò, osservava l'economista italiano ora difensore dell'ineluttabilità della moneta unica, «i contrasti tra Paesi europei aumenteranno al crescere della tendenza a coordinare politiche monetarie, fiscali, di welfare eccetera», dal momento che «costringere Paesi con culture e tradizioni diverse ad uniformare politiche di vario genere, soprattutto quando la necessità economica del coordinamento è alquanto dubbia, è un'operazione inutile e potenzialmente molto pericolosa».Fino all'arrivo della crisi, le cose andata relativamente bene. Poi è sopraggiunto lo choc paventato da Friedman e Alesina. Come ha ammesso anche la stessa Commissione europea in un comunicato stampa datato gennaio 2014, «venuta meno la possibilità di svalutare la moneta, i Paesi della zona euro che tentano di recuperare competitività sul versante dei costi devono ricorrere alla svalutazione interna (contenimento di prezzi e salari)». Una politica che presenta, però, «limiti e risvolti negativi, non da ultimo in termini di un aumento della disoccupazione e del disagio sociale». Lo stesso concetto è stato ribadito da Mario Draghi nel corso di in un convegno tenutosi a Helsinki sempre nel 2014: «Con l'ingresso nell'Unione monetaria (i Paesi, ndr) hanno perso una parte di flessibilità (legata al cambio, ndr), e dunque gli aggiustamenti devono per forza avvenire attraverso una svalutazione interna». Secondo l'economista Ashoka Mody, nel lungo periodo il divario tra i Paesi che riescono a compensare in assenza di svalutazione monetaria (Germania) e quelli più deboli (tra gli altri, l'Italia), non potrà che peggiorare. Il risultato è la «distruzione» della domanda interna di cui parlava Mario Monti, una delle cause individuate dall'Istat per la contrazione del Pil nel quarto trimestre 2018. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/leuro-mette-il-cappio-alle-aziende-o-chiudono-o-tagliano-gli-stipendi-2628189673.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dopo-il-banchetto-turco-addio-alla-pernigotti" data-post-id="2628189673" data-published-at="1757830809" data-use-pagination="False"> Dopo il banchetto turco, addio alla Pernigotti Era lo scorso novembre e Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo, col caschetto operaista d'ordinanza promise: «Parliamo con Erdogan, bisogna evitare che il saper fare italiano vada all'estero». A Novi Ligure in quei giorni arrivarono anche il premier Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, vicepremier e bi-ministro di Lavoro e Sviluppo economico, per stare a fianco di quasi un centinaio di operai sull'orlo di una crisi di soldi. Com'è finita? Cose turche! Da ieri la Pernigotti, di proprietà del gruppo turco Toksoz, non esiste più. Siamo arrivati al capolinea. I 92 lavoratori saranno in cassa integrazione straordinaria per un anno a partire da oggi e dovranno cessare subito l'assemblea permanente, sperando che nel frattempo le tre o quattro offerte, tra le quali un fondo indiano e forse la Sperlari, che il Mise dice di avere in pancia, si concretizzino. L'accordo trovato ieri al ministero è di quelli prendere o lasciare, ma il vicecapo gabinetto del ministro Di Maio non vuol sentir parlare di sconfitta. Anzi sottolinea Giorgio Sorial, responsabile dei tavoli di crisi: «La cassa speciale per reindustrializzazione l'ha introdotta questo governo, se a livello locale non avessero fatto trapelare i nomi dei possibili acquirenti la vicenda Pernigotti si sarebbe conclusa diversamente e ora lavoreremo perché crisi così non si ripetano». Tuttavia la Pernigotti, per quella che è stata negli ultimi 160 anni, è morta. Chiudono gli impianti: la cioccolata sarà prodotta (in parte) dalla Laica ad Arona che è un contoterzista, mentre i preparati da gelato (che sarebbero l'unico possibile futuro) i turchi se li vendono. Però si tengono stretto il marchio Pernigotti per sfruttare l'italian sounding. A dar retta all'Europa e alla globalizzaizone succede proprio questo: ci scippano i marchi e lasciano a casa gli operai perché nel mondo si fa dumping sul valore del lavoro. Ormai è guerra dei salari convinti tutti che il valore non sta nel produrre bene, ma nel marchio. Perché la crisi Pernigotti non è di prodotto, ma è l'incapacità di imprenditori non italiani di far fruttare il valore delle nostre produzioni. Valore certificato dalla storia stessa della Pernigotti, fondata nel 1860 e che un secolo fa, nel 1919, viene lanciata da Paolo Pernigotti nella produzione seriale. La casa di Novi Ligure è stata la seconda azienda dopo la Caffarel a industrializzare il gianduiotto - ironia della storia - nato per superare il blocco navale di Napoleone che nel 1806 impedì le importazioni di cacao. I piemontesi lo sostituirono con le nocciole e così nacque il cioccolatino più buono del mondo. Stavolta a determinare la crisi che però ha finale amaro è l'Europa che per tenersi buona la Turchia le ha lasciato invadere il mercato con le sue nocciole (a danno dell'Italia che è il secondo produttore). Da lì i turchi si sono fatti avanti e nel 2013 hanno comprato dagli Averna la Pernigotti. Sarà per questo che in mano ai due fratelli Toksoz nel giro di un lustro il cioccolato di Novi Ligure è diventato amarissimo. I turchi dicono di averci rimesso 50 milioni, la verità è che come unico obbiettivo avevano l'acquisizione del marchio. Ma come già successo con la Parmalat (si parva licet) l'incapacità dei nostrani industriali di difendere i marchi e il made in Italy e il giocare continuamente al ribasso sugli stipendi e sulla qualità, sperando che un consumatore con sempre meno potere d'acquisto s'accontenti di quello che in marketing si definisce il «meno a meno», è strategia fallimentare. Ora per la Pernigotti i sindacalisti per bocca di Marco Malpassi (Cgil) dicono: «Con la cessione delle creme gelato, l'indisponibilità del marchio e il trasferimento della produzione ai contoterzisti c'è poco da stare allegri». Anche perché a Pont Saint Martin ci sono altre cose turche. È fallito ciò che restava della Feletti, storica cioccolateria valdostana. Se l'erano comprata i turchi della Captain Gida. Hanno intascato 4 milioni dalla Regione Valle d'Aosta e il massimo degli investimenti è stato un bidone aspiratutto. Poi sono spariti. Il Tribunale ha dichiarato il fallimento, la Corte dei Conti indaga e gli operai sono senza stipendio da mesi. Ma magari se qualcuno telefona ad Erdogan…
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