Mentre oggi il segretario dem guida gli incursori anti Putin, nel 2013 srotolò il tappeto rosso a Trieste dando il via a 28 accordi commerciali. In cima alla lista c’erano le firme su contratti monstre per l’energia, proprio quelli che Draghi ha stigmatizzato.
Mentre oggi il segretario dem guida gli incursori anti Putin, nel 2013 srotolò il tappeto rosso a Trieste dando il via a 28 accordi commerciali. In cima alla lista c’erano le firme su contratti monstre per l’energia, proprio quelli che Draghi ha stigmatizzato.Non c’è dubbio, deve senz’altro trattarsi di un caso di omonimia: non c’è una diversa spiegazione possibile. L’Enrico Letta che da domenica scorsa tuona contro Vladimir Putin e chiede - per primo e con voce più forte, facendosi interprete di un’altissima indignazione morale - di porre tassativamente fine agli acquisti di gas russo non può essere la stessa persona che stringeva accordi plurimi con l’autocrate di Mosca, e meno che mai lo stesso leader durante la cui presenza a Palazzo Chigi si è impennato il nostro acquisto di gas dalla Russia. Dite di no? Non è omonimia? «Proprio lui, ancora lui, sempre lui», potrebbero urlare i telecronisti di calcio? E allora il problema è il solito: sotto la cappa asfissiante che domina la politica e i media italiani, non si fa mai nessuno sconto alle contraddizioni e agli errori (passati e presenti) della destra, mentre a sinistra scatta non solo un’amnistia generalizzata e omnicomprensiva, ma perfino un curioso fenomeno per cui chi potrebbe essere «imputato» di qualcosa (politicamente parlando) può allegramente fare un saltello e trasferirsi a occupare il banco dell’accusa, per pronunciare requisitorie implacabili contro tutti gli altri. E se per caso - può succedere - a qualcuno scappa di ricordare gli svarioni del passato, tuttavia, pietosamente, qualcun altro si preoccupa di sbianchettare i nomi, tanto per risparmiare guai agli amici. È successo in Parlamento, tre settimane fa, a Mario Draghi, che il 9 marzo scorso ha giustamente stigmatizzato il fatto che i nostri acquisti di gas russo siano schizzati verso l’alto dopo il 2014: «Trovo incredibile, guardando i dati degli ultimi anni, che sia aumentata la fornitura dalla Russia anche dopo l’invasione della Crimea: questo sottolinea una sottovalutazione da parte della politica estera». Queste - ineccepibili - le parole di Draghi: peccato che il premier abbia dimenticato di menzionare chi fossero in quella legislatura 2013-2018, gli inquilini di Palazzo Chigi, e cioè prima Enrico Letta, e poi, a ruota, altri due esponenti del Pd. I numeri parlano chiaro: l’impennata negli acquisti da Mosca inizia nel 2013, quando al governo c’era Letta: circa 28 miliardi di metri cubi di gas (su quasi 62 miliardi in totale), e cioè una percentuale superiore al 45%. I livelli si confermano altissimi nel 2014 e nel 2015, fino a raggiungere il top (33 miliardi su oltre 69) nel 2017, quando a Palazzo Chigi sedeva Paolo Gentiloni (forse un altro omonimo dell’attuale commissario Ue). Nel mezzo, non fece mancare il suo contributo di amicizia verso Mosca anche Matteo Renzi, con tanto di intervento da capo di governo, nel 2016, al Forum economico internazionale di San Pietroburgo. Ma non perdiamo di vista Letta. Sempre in quell’intensissimo 2013, in una gelida giornata di fine novembre, a Trieste, in questo caso tre mesi prima dell’attacco russo in Crimea, furono siglate in presenza di Letta e Putin ben 28 intese commerciali e sette accordi intergovernativi, con la partecipazione di amplissime delegazioni ministeriali e (ovviamente) di una miriade di attori imprenditoriali di prima grandezza. I tre macrosettori coinvolti furono quelli dell’energia (con il coinvolgimento, per la parte italiana, di Enel ed Eni, e, sul lato russo, di Rosneft e Novatek), della finanza (sempre sul lato italiano, ne furono tra l’altro protagoniste Poste italiane, Selex, Unicredit, Mediobanca, Ubibanca, Sace, mentre sul lato russo entrarono in gioco Poste russe, Veb, Transcapital Bank, Russian direct investment fund) e dell’industria (per l’Italia, tra le altre, Fincantieri, Pirelli, e, per la Russia, Rosneft-Rostek e Krylov state research center). Non mancò, tra l’altro, l’annuncio di un fondo (valore: un miliardo di euro) tra un soggetto russo e la nostra Cdp per supportare investimenti incrociati nei due paesi in diversi ambiti, dall’ingegneria ai macchinari, passando per l’agroalimentare. Letta apparve raggiante: «Abbiamo molti impegni da implementare. Gli accordi devono diventare fatti concreti». E inutile dire che la parte del leone di quel mega accordo riguardò esattamente il settore energetico. Da allora a adesso è passato molto tempo, e forse sarebbe troppo severo misurare con il metro di oggi - dopo l’aggressione russa all’Ucraina - le collaborazioni di allora, specie quelle industriali e finanziarie. Ma la scelta politica di fondo, quella sì, resta un clamoroso errore strategico: aver consegnato sempre di più l’Italia a una devastante dipendenza energetica da Mosca. Al netto delle difficilissime scelte da compiere oggi e del lacerante dilemma tra l’opportunità di non finanziare ulteriormente l’aggressione russa in Ucraina e la necessità di assicurare all’Italia un adeguato approvvigionamento energetico, resta dunque il surreale ballo in maschera a cui assistiamo: con Letta che allora indossava una immaginaria livrea per compiacere l’autocrate di Mosca, e oggi è passato in scioltezza a indossare una metaforica tuta mimetica.
Stephen Miran (Ansa)
L’uomo di Trump alla Fed: «I dazi abbassano il deficit. Se in futuro dovessero incidere sui prezzi, la variazione sarebbe una tantum».
È l’uomo di Donald Trump alla Fed. Lo scorso agosto, il presidente americano lo ha infatti designato come membro del Board of Governors della banca centrale statunitense in sostituzione della dimissionaria Adriana Kugler: una nomina che è stata confermata dal Senato a settembre. Quello di Stephen Miran è d’altronde un nome noto. Fino all’incarico attuale, era stato presidente del Council of Economic Advisors della Casa Bianca e, in tale veste, era stato uno dei principali architetti della politica dei dazi, promossa da Trump.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 10 novembre con Carlo Cambi
Martin Sellner (Ansa)
Parla il saggista austriaco che l’ha teorizzata: «Prima vanno rimpatriati i clandestini, poi chi commette reati. E la cittadinanza va concessa solo a chi si assimila davvero».
Per qualcuno Martin Sellner, saggista e attivista austriaco, è un pericoloso razzista. Per molti altri, invece, è colui che ha individuato una via per la salvezza dell’Europa. Fatto sta che il suo libro (Remigrazione: una proposta, edito in Italia da Passaggio al bosco) è stato discusso un po’ ovunque in Occidente, anche laddove si è fatto di tutto per oscurarlo.
Giancarlo Giorgetti e Mario Draghi (Ansa)
Giancarlo Giorgetti difende la manovra: «Aiutiamo il ceto medio ma ci hanno massacrati». E sulle banche: «Tornino ai loro veri scopi». Elly Schlein: «Redistribuire le ricchezze».
«Bisogna capire cosa si intende per ricco. Se è ricco chi guadagna 45.000 euro lordi all’anno, cioè poco più di 2.000 euro netti al mese forse Istat, Banca d’Italia e Upb hanno un concezione della vita un po’…».
Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, dopo i rilievi alla manovra economica di Istat, Corte dei Conti e Bankitalia si è sfogato e, con i numeri, ha spiegato la ratio del taglio Irpef previsto nella legge di Bilancio il cui iter entra nel vivo in questa settimana. I conti corrispondono a quelli anticipati dal nostro direttore Maurizio Belpietro che, nell’editoriale di ieri, aveva sottolineato come la segretaria del Pd, Elly Schlein avesse lanciato la sua «lotta di classe» individuando un nuovo nemico in chi guadagna 2.500 euro al mese ovvero «un ricco facoltoso».






