2022-08-29
Sull’energia Letta & C. non capiscono un tubo
Enrico Letta (Imagoeconomica)
Dopo aver sbagliato le previsioni su Putin, il segretario dem va a farfalle sul tema del caro gas. Mentre la sua collega di partito De Micheli insiste con il price cap, giudicato inapplicabile da chi se ne intende. E l’ex m5s Ruocco dà la colpa a Berlusconi...Un amico mi ha girato il link di una vecchia intervista di Enrico Letta al Corriere della Sera. Vladimir Putin aveva da poco invaso l’Ucraina e l’Europa aveva appena varato misure ritorsive per costringere Mosca al dietrofront. Il titolo del colloquio, da solo, illustra meglio di qualsiasi articolo la miopia del segretario del Pd e l’assoluta incapacità di comprendere ciò che stava accadendo: «Le sanzioni porteranno l’economia russa al collasso». Come ha di recente chiarito l’Economist, e come a dire il vero fin dall’inizio della guerra avevamo previsto noi della Verità, i provvedimenti adottati dalla Ue non hanno causato il tracollo della Russia, ma si sono rivelati un boomerang, mettendo in seria difficoltà l’economia dei Paesi europei, che oggi infatti si trovano a fare i conti con il prezzo delle materie prime e, soprattutto, con quello dell’energia. Immaginare l’aumento delle bollette causato dall’esplosione del prezzo del gas a causa della dipendenza da Mosca non era una previsione da Nostradamus: bastava avere un minimo di conoscenza della questione, che Letta e compagni hanno dimostrato di non avere. Il leader della sinistra non solo ha dato prova di non avere idea di quali leve potesse usare Putin per ribaltare sulla Ue gli effetti delle sanzioni, ma ha anche reagito con estrema lentezza di fronte alle conseguenze pratiche delle decisioni che ha contribuito ad adottare. Il segretario del Pd tuttavia è in buona compagnia, perché gran parte della classe politica in questa faccenda si è comportata come lui, cioè in maniera ottusa. Giovedì sera, ad esempio, mi è capitato di ascoltare in tv l’intervento della ex grillina Carla Ruocco, già funzionaria dell’Agenzia delle entrate, divisione accertamento. Di lei mi erano note un paio di gaffe, la prima quando alla Camera confuse il Patto di stabilità con la Legge di stabilità, la seconda quando a Ignazio Visco chiese a bruciapelo dove si trovasse l’oro della Banca d’Italia e il governatore, sornione, le rispose che i lingotti erano custoditi nei caveaux di via Nazionale e nessuno se li era fregati. La manifesta inesperienza di questioni connesse al credito le è valsa la poltrona di presidente della Commissione banche, ruolo che l’altra sera l’ha abilitata ad esprimere pareri sullo spaventoso aumento delle bollette, in quanto esperta in materie economico-finanziarie. E che cosa ha detto l’ex grillina su un tema che angoscia milioni di famiglie e centinaia di migliaia di imprese? Che la colpa è di Silvio Berlusconi, perché si deve a lui se l’Italia dipende da Putin per le forniture di gas. Ora, a prescindere dalla verità storica (il peso del metano russo è cresciuto negli anni in cui a Palazzo Chigi governava la sinistra) e da come se ne esce, il Cavaliere non è più presidente del Consiglio da 11 anni. Le sue dimissioni risalgono al 12 novembre di quell’anno e dal 27 novembre del 2013 non siede in Parlamento. Dopo di lui sono venuti Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e, infine, Mario Draghi. Il buon senso, prima che l’onestà, induce dunque a dubitare che in 11 anni sei presidenti del Consiglio non siano stati in grado di dare una sterzata a una politica energetica sbilanciata verso la Russia. Ammesso e non concesso che Berlusconi avesse stretto alleanze con Vladimir Putin tali da creare una dipendenza del nostro Paese, non solo il governo tecnico dell’ex rettore della Bocconi, ma anche quelli venuti dopo avrebbero potuto correggere il tiro. Soprattutto, una volta arrivati nella stanza dei bottoni, con Giuseppe Conte premier e Luigi Di Maio (che la Ruocco ha seguito in Impegno civico) ministro dello Sviluppo economico, che cosa hanno fatto i grillini ed ex grillini per evitare il disastro attuale? La risposta è semplice: niente. E niente continuano a fare.Anche la Ruocco, come Letta, è tuttavia in buona compagnia. Nella medesima trasmissione infatti c’era anche Paoletta De Micheli, ex ministro delle Infrastrutture nel Conte bis, che al grido di dolore di famiglie e imprese ha risposto dicendo che la soluzione del problema sta nel porre un tetto al prezzo del gas. Facile, no? Peccato che se ne discuta inutilmente da mesi e da mesi si proceda di rinvio in rinvio. Fino a venerdì, quando il metano è schizzato a 230 euro al chilowattora, l’argomento del price cap era all’ordine del giorno della riunione dei ministri dell’energia fissata per l’11 e il 12 ottobre. In pratica, per la De Micheli gli italiani avrebbero dovuto attendere i comodi della politica comunitaria, soffrendo e pagando in silenzio fino a metà ottobre. Ora, dopo che le quotazioni hanno avuto una nuova fiammata, con il rischio di un nuovo aumento delle bollette e di veder fallire decine di migliaia di imprese, Bruxelles ha anticipato la riunione a metà settembre. Ma almeno per quella data una decisione verrà presa? Le premesse non fanno propendere per una soluzione positiva. A sentire gli esperti, da Alberto Clò a Paolo Scaroni, che certo in materia di energia ne sanno più della De Micheli, sarà molto difficile. Entrambi, infatti, hanno definito la proposta del price cap «irrealizzabile», in quanto gli interessi dei Paesi produttori e non della sola Russia confliggono con l’idea di calmierare sotto i 100 euro a chilowattora il prezzo del gas. Per non dire poi dei guadagni che gli olandesi, dove ha sede il principale mercato del metano, stanno realizzando in questo periodo e ai quali difficilmente saranno disposti a rinunciare. Tuttavia, a prescindere dalla fattibilità della proposta che De Micheli e compagni da mesi sventolano, c’è da chiedersi perché, di fronte all’aumento delle bollette, fino a oggi se ne siano stati con le mani in mano. Se la soluzione è uno stop agli aumenti, nazionale o europeo, perché quando il prezzo del gas è cominciato a crescere, cioè dalla fine dello scorso anno, non hanno adottato la facile soluzione che suggeriscono ora? La sinistra negli ultimi dieci anni è stata al governo per nove e tutt’ora è in maggioranza con ministri chiave nell’esecutivo: dunque perché aspettare che imprese e famiglie siano alla canna del gas? La verità è che in tv e sui giornali gli imbonitori sono tanti. Soprattutto ora che la campagna elettorale incombe, rischiando di archiviare bruscamente molte carriere politiche. Se fossero in buona fede, chiederebbero subito misure urgenti e invece si accontentano di parlarne nei talk show.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.