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2022-08-09
Letta e Calenda, le supercazzole sono finite
Enrico Letta e Carlo Calenda (Ansa)
Demolition man ha preso la scena e non la lascia più. Come quei tenori che cantano «Partooo» e sono sempre lì, Carlo Calenda occupa con le sue libbre (di pensiero) la campagna elettorale del centrosinistra, manda ai matti il Pd, definisce «comunisti, perché quello sono» i suoi ex alleati e lancia la sfida centrista, sperando entro Ferragosto di imbarcare Matteo Renzi sulla nave dei folli. Ventiquattr’ore dopo il ribaltone, il leader di Azione non manca un tweet, un collegamento Tv, un intervento radio; se potesse spiegherebbe la teoria dei rigassificatori alle signore ingioiellate mentre fanno aquagym a Forte dei Marmi.
Al Nazareno la sua foto appesa al muro è crivellata di freccette e i colonnelli non sanno se maledire prima lui o Enrico Letta. «Il segretario è riuscito in due miracoli, dare credito a un ricottaro come Calenda e resuscitare Renzi», sibilano i piddini davanti alle macerie del campo largo, già anticipando le gastriti da congresso in caso di batosta nelle urne. Tutta colpa del Pericle dei Parioli che non manca di rigirare il coltello nella piaga. «Il Pd ha fatto prima un patto con noi e poi ha fatto un patto, con contenuti contrari, con chi ha votato 55 volte contro la fiducia a Draghi, con chi dice di no al termovalorizzatore, al rigassificatore, a tutto. Con chi in fondo è comunista, perché poi alla fine della fiera è questo».
Il papà di Azione è scatenato, si prende del «drammaticamente fascista» dal Verdissimo Angelo Bonelli ma non retrocede di un millimetro. «Ecchelallà, son diventato fascista, contavo i minuti. Enrico, funzionava bene questa alleanza, clavicembalo ben temperato. Letta sapeva perfettamente che avrei rotto, e lo sapeva +Europa. Hanno pensato di tenerci dentro dicendo: sennò dovete raccogliere le firme. Pensavano che avremmo chinato la testa. Invece raccolgo le firme, perché questa cosa qua è inguardabile. Ho detto a Letta: se formalizzi questo la gente non ci capirà più niente, sembrerà un’accozzaglia di persone come erano Bertinotti, Turigliatto, Pecoraro Scanio. Se avessi accettato, la destra avrebbe vinto a tavolino e Azione sarebbe morta».
È il giorno della faida, Calenda ne ha per tutti, innanzitutto per Emma Bonino. «Le sue sono critiche in malafede. Sapeva tutto e, non solo, ha sempre negoziato dalla parte del Pd. Il perché lo dovrà spiegare ai suoi elettori. Come fa una persona che si definisce atlantista a stare con chi vota contro la Nato e fa tutto contro l’Europa e contro l’Agenda Draghi? Emma ha fatto una scelta che pagherà in termini di posti». Poi ci sono i conti da regolare con Goffredo Bettini, la corrente thailandese del Pd, che lo ha definito inaffidabile e spregiudicato. «Goffredo, facciamo una cosa, ne parliamo dopo che tu avrai ripetuto come un mantra thailandese: Ho sbagliato a pensare che Conte fosse il nuovo Prodi, 20 volte e siamo a posto così». L’altro, a corto di argomenti, gli manda a dire che il mantra è una pratica induista e non c’entra niente con la Thailandia. Siamo allo gnè gnè, all’Asilo Mariuccia della politica social.
A metà giornata Calenda fa l’inventario degli azzannanti azzannati: Letta è sistemato, Bonino è sistemata, Bettini è sistemato. Ne mancano ancora un paio, per esempio Nicola Zingaretti che lo ha definito un traditore: «Pensate davvero di battere la destra con Fratoianni e Bonelli? Suvvia. Adesso toccherà a noi offrire una prospettiva di governo seria. Ci incontriamo sul campo uninominale di Roma». Per esempio Roberto Gualtieri, er sindaco ingrato, l’aveva pure votato. «Gualtieri difende il termovalorizzatore contro Conte, il suo ex amato alleato, mentre il suo segretario fa saltare un accordo con noi per allearsi con chi non lo vuole. È la misura del casino che regna nella sinistra italiana».
Ha ragione da vendere ma scopre l’acqua calda. Il suo scossone ha scoperchiato le contraddizioni del Pd, partito non di proposte ma di potere; lo ha spostato a sinistra mostrandone la faccia postcomunista (infatti Ciccio Boccia, Peppe Provenzano e Andrea Orlando brindano); ha fotografato la debolezza del riformismo e il ruolo ancillare di Base Riformista, la corrente degli ex renziani. E con l’ultima provocazione indica agli alleati rimasti nell’Accozzaglia il pericolo finale: «Vi metto per iscritto che vi ritroverete anche con i 5 stelle un minuto dopo le elezioni».
Sognando il terzo polo, Calenda deve risolvere il problema delle firme da presentare entro il 22 agosto. Anche qui regna il caos perché secondo un’interpretazione espansiva della norma, Azione potrebbe godere dell’esonero applicato per +Europa e il Centro democratico di Bruno Tabacci. Ma questo sarà il dramma di domani. Quello di oggi è ancora l’alleanza clavicembalo presa a colpi di scure. «Ho capito che non c’è alcun modo di staccare il Pd dal populismo. Gli serve per giustificare lo stare al governo sempre, con chiunque, a qualsiasi costo». E giù un’altra mazzata nell’afa. Come tanti pariolini, Demolition man non suda.
I due Bulli vogliono copiare Macron. La lista unica s’ispirerà a En Marche!
Irrefrenabile, ipercinetico, preoccupato ma concentrato. Così i suoi fedelissimi descrivono Matteo Renzi, che insieme a Carlo Calenda è pronto a varare la lista centrista. L’accordo non è stato ancora siglato, ma a quanto risulta alla Verità già cinque giorni fa, quindi prima che Calenda ufficializzasse la rottura con il Pd, dal quartier generale di Italia viva era partito il messaggio: «Fermatevi con le liste che avremo un alleato». Salvo clamorosi imprevisti dunque il terzo polo centrista ci sarà: il nome della lista unica Renzi-Calenda dovrebbe ispirarsi a En Marche!, il partito del presidente francese Emmanuel Macron. L’unica incognita è legata alla proverbiale irrequietezza politica di Calenda, che però non ha molta scelta: dopo aver litigato pure con Emma Bonino, Azione per potersi presentare in solitaria, dovrebbe raccogliere 56.250 firme (36.750 per la Camera e 19.500 per il Senato) tutte autenticate. Proprio la questione delle firme, secondo Calenda, sarebbe stata alla base della convinzione di Enrico Letta sul fatto che il leader di Azione non avrebbe mai rotto l’alleanza con i dem: «Più Europa», twitta Calenda, «ha assicurato che comunque non avremmo strappato per il problema delle firme. Questa è l’amara verità che è giusto che anche gli elettori di Più Europa conoscano, Ed è stato un ragionamento miope».
Intanto, Carletto er pariolino perde pezzi: l’ex presidente della Provincia di Trento, Ugo Rossi, ora consigliere provinciale, comunica attraverso una lettera aperta l’addio ad Azione. «Per me i patti, una volta firmati, si rispettano», dice Rossi, a quanto riferisce l’Ansa, «anche se costano. E si rispettano perché per costruire ci vuole fiducia e qualcuno deve pur darla per primo. Tornare indietro», aggiunge Rossi, «sarà anche legittimo, e magari politicamente motivato, ma così la credibilità crolla».
A rompere le uova nel paniere arriva il senatore di Azione, Matteo Richetti, che attacca Renzi: «Abbiamo da sempre rivolto un invito a Italia viva», dice Richetti a Radio 24, «anche quando stavamo costruendo un’intesa con il Pd. Serve una scelta di coraggio, di coerenza. Cosa faremo con Italia viva sarà oggetto di discussione, ma non vorrei che ci distraessimo dal compito principale di Azione, ridare fiato, coerenza e speranza al modo in cui si sta con le istituzioni dobbiamo stare su questo, Stando alle dichiarazioni di Renzi dell’ultimo anno c’è forte sovrapposizione», aggiunge Richetti, «ma di quello che dichiarava l’anno prima non condividiamo nulla: ci ha spiegato che bisognava votare con Conte e Bonafede nel Conte 2 per evitare il Papeete. Renzi ha avuto una traiettoria non sempre lineare. In queste ore, quando noi abbiamo cercato con serietà un’intesa con il Pd, il deputato di Iv Nobili è arrivato a dire: avete bisogno del bonus piscologico, una cosa brutta perché è una grande misura per le persone in sofferenza. Se poi diventi un loro potenziale alleato sei un salvatore della patria. Siamo pronti a raccogliere le firme», aggiunge baldanzoso Richetti, «e a mobilitare tutta Italia su questo».
La sensazione è che l’affondo di Richetti contro Italia viva sia la prima avvisaglia delle difficoltà che avranno le due forze (per modo di dire) politiche a unirsi. Il problema è sempre lo stesso: le candidature blindate. Dato per scontato che anche in caso di intesa il terzo polo non riuscirà a conquistare neanche un uninominale, infatti, il braccio di ferro sarà per i capolista al proporzionale, unica posizione che consente di sperare in una elezione alla Camera o al Senato. In politica due più due non fa mai quattro, quindi Azione e Iv saranno costrette a dei sacrifici. Prendiamo ad esempio cosa accadrà al Sud, dove Azione schiererà in diversi collegi proporzionali il ministro uscente Mara Carfagna: i calendiani della prima ora dovranno sudare per conquistare una posizione decente nei listini bloccati, poiché molto probabilmente ci sarà una alternanza tra esponenti di Azione e di Italia viva. Le prossime ore saranno incandescenti.
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Il segretario del Pd contempla il fallimento dei suoi acrobatici tentativi di tenere insieme ciò che non può stare insieme. Il leader di Azione, bombardato di accuse per le giravolte continue, finge di essere Emmanuel Macron.Matteo Renzi pare stesse già lavorando a ricucire con Carlo. Ma ci sono i primi screzi con Iv.Lo speciale contiene due articoli.Demolition man ha preso la scena e non la lascia più. Come quei tenori che cantano «Partooo» e sono sempre lì, Carlo Calenda occupa con le sue libbre (di pensiero) la campagna elettorale del centrosinistra, manda ai matti il Pd, definisce «comunisti, perché quello sono» i suoi ex alleati e lancia la sfida centrista, sperando entro Ferragosto di imbarcare Matteo Renzi sulla nave dei folli. Ventiquattr’ore dopo il ribaltone, il leader di Azione non manca un tweet, un collegamento Tv, un intervento radio; se potesse spiegherebbe la teoria dei rigassificatori alle signore ingioiellate mentre fanno aquagym a Forte dei Marmi. Al Nazareno la sua foto appesa al muro è crivellata di freccette e i colonnelli non sanno se maledire prima lui o Enrico Letta. «Il segretario è riuscito in due miracoli, dare credito a un ricottaro come Calenda e resuscitare Renzi», sibilano i piddini davanti alle macerie del campo largo, già anticipando le gastriti da congresso in caso di batosta nelle urne. Tutta colpa del Pericle dei Parioli che non manca di rigirare il coltello nella piaga. «Il Pd ha fatto prima un patto con noi e poi ha fatto un patto, con contenuti contrari, con chi ha votato 55 volte contro la fiducia a Draghi, con chi dice di no al termovalorizzatore, al rigassificatore, a tutto. Con chi in fondo è comunista, perché poi alla fine della fiera è questo».Il papà di Azione è scatenato, si prende del «drammaticamente fascista» dal Verdissimo Angelo Bonelli ma non retrocede di un millimetro. «Ecchelallà, son diventato fascista, contavo i minuti. Enrico, funzionava bene questa alleanza, clavicembalo ben temperato. Letta sapeva perfettamente che avrei rotto, e lo sapeva +Europa. Hanno pensato di tenerci dentro dicendo: sennò dovete raccogliere le firme. Pensavano che avremmo chinato la testa. Invece raccolgo le firme, perché questa cosa qua è inguardabile. Ho detto a Letta: se formalizzi questo la gente non ci capirà più niente, sembrerà un’accozzaglia di persone come erano Bertinotti, Turigliatto, Pecoraro Scanio. Se avessi accettato, la destra avrebbe vinto a tavolino e Azione sarebbe morta». È il giorno della faida, Calenda ne ha per tutti, innanzitutto per Emma Bonino. «Le sue sono critiche in malafede. Sapeva tutto e, non solo, ha sempre negoziato dalla parte del Pd. Il perché lo dovrà spiegare ai suoi elettori. Come fa una persona che si definisce atlantista a stare con chi vota contro la Nato e fa tutto contro l’Europa e contro l’Agenda Draghi? Emma ha fatto una scelta che pagherà in termini di posti». Poi ci sono i conti da regolare con Goffredo Bettini, la corrente thailandese del Pd, che lo ha definito inaffidabile e spregiudicato. «Goffredo, facciamo una cosa, ne parliamo dopo che tu avrai ripetuto come un mantra thailandese: Ho sbagliato a pensare che Conte fosse il nuovo Prodi, 20 volte e siamo a posto così». L’altro, a corto di argomenti, gli manda a dire che il mantra è una pratica induista e non c’entra niente con la Thailandia. Siamo allo gnè gnè, all’Asilo Mariuccia della politica social. A metà giornata Calenda fa l’inventario degli azzannanti azzannati: Letta è sistemato, Bonino è sistemata, Bettini è sistemato. Ne mancano ancora un paio, per esempio Nicola Zingaretti che lo ha definito un traditore: «Pensate davvero di battere la destra con Fratoianni e Bonelli? Suvvia. Adesso toccherà a noi offrire una prospettiva di governo seria. Ci incontriamo sul campo uninominale di Roma». Per esempio Roberto Gualtieri, er sindaco ingrato, l’aveva pure votato. «Gualtieri difende il termovalorizzatore contro Conte, il suo ex amato alleato, mentre il suo segretario fa saltare un accordo con noi per allearsi con chi non lo vuole. È la misura del casino che regna nella sinistra italiana». Ha ragione da vendere ma scopre l’acqua calda. Il suo scossone ha scoperchiato le contraddizioni del Pd, partito non di proposte ma di potere; lo ha spostato a sinistra mostrandone la faccia postcomunista (infatti Ciccio Boccia, Peppe Provenzano e Andrea Orlando brindano); ha fotografato la debolezza del riformismo e il ruolo ancillare di Base Riformista, la corrente degli ex renziani. E con l’ultima provocazione indica agli alleati rimasti nell’Accozzaglia il pericolo finale: «Vi metto per iscritto che vi ritroverete anche con i 5 stelle un minuto dopo le elezioni».Sognando il terzo polo, Calenda deve risolvere il problema delle firme da presentare entro il 22 agosto. Anche qui regna il caos perché secondo un’interpretazione espansiva della norma, Azione potrebbe godere dell’esonero applicato per +Europa e il Centro democratico di Bruno Tabacci. Ma questo sarà il dramma di domani. Quello di oggi è ancora l’alleanza clavicembalo presa a colpi di scure. «Ho capito che non c’è alcun modo di staccare il Pd dal populismo. Gli serve per giustificare lo stare al governo sempre, con chiunque, a qualsiasi costo». E giù un’altra mazzata nell’afa. Come tanti pariolini, Demolition man non suda.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/letta-e-calenda-supercazzole-finite-2657830923.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-due-bulli-vogliono-copiare-macron-la-lista-unica-sispirera-a-en-marche" data-post-id="2657830923" data-published-at="1660007894" data-use-pagination="False"> I due Bulli vogliono copiare Macron. La lista unica s’ispirerà a En Marche! Irrefrenabile, ipercinetico, preoccupato ma concentrato. Così i suoi fedelissimi descrivono Matteo Renzi, che insieme a Carlo Calenda è pronto a varare la lista centrista. L’accordo non è stato ancora siglato, ma a quanto risulta alla Verità già cinque giorni fa, quindi prima che Calenda ufficializzasse la rottura con il Pd, dal quartier generale di Italia viva era partito il messaggio: «Fermatevi con le liste che avremo un alleato». Salvo clamorosi imprevisti dunque il terzo polo centrista ci sarà: il nome della lista unica Renzi-Calenda dovrebbe ispirarsi a En Marche!, il partito del presidente francese Emmanuel Macron. L’unica incognita è legata alla proverbiale irrequietezza politica di Calenda, che però non ha molta scelta: dopo aver litigato pure con Emma Bonino, Azione per potersi presentare in solitaria, dovrebbe raccogliere 56.250 firme (36.750 per la Camera e 19.500 per il Senato) tutte autenticate. Proprio la questione delle firme, secondo Calenda, sarebbe stata alla base della convinzione di Enrico Letta sul fatto che il leader di Azione non avrebbe mai rotto l’alleanza con i dem: «Più Europa», twitta Calenda, «ha assicurato che comunque non avremmo strappato per il problema delle firme. Questa è l’amara verità che è giusto che anche gli elettori di Più Europa conoscano, Ed è stato un ragionamento miope». Intanto, Carletto er pariolino perde pezzi: l’ex presidente della Provincia di Trento, Ugo Rossi, ora consigliere provinciale, comunica attraverso una lettera aperta l’addio ad Azione. «Per me i patti, una volta firmati, si rispettano», dice Rossi, a quanto riferisce l’Ansa, «anche se costano. E si rispettano perché per costruire ci vuole fiducia e qualcuno deve pur darla per primo. Tornare indietro», aggiunge Rossi, «sarà anche legittimo, e magari politicamente motivato, ma così la credibilità crolla». A rompere le uova nel paniere arriva il senatore di Azione, Matteo Richetti, che attacca Renzi: «Abbiamo da sempre rivolto un invito a Italia viva», dice Richetti a Radio 24, «anche quando stavamo costruendo un’intesa con il Pd. Serve una scelta di coraggio, di coerenza. Cosa faremo con Italia viva sarà oggetto di discussione, ma non vorrei che ci distraessimo dal compito principale di Azione, ridare fiato, coerenza e speranza al modo in cui si sta con le istituzioni dobbiamo stare su questo, Stando alle dichiarazioni di Renzi dell’ultimo anno c’è forte sovrapposizione», aggiunge Richetti, «ma di quello che dichiarava l’anno prima non condividiamo nulla: ci ha spiegato che bisognava votare con Conte e Bonafede nel Conte 2 per evitare il Papeete. Renzi ha avuto una traiettoria non sempre lineare. In queste ore, quando noi abbiamo cercato con serietà un’intesa con il Pd, il deputato di Iv Nobili è arrivato a dire: avete bisogno del bonus piscologico, una cosa brutta perché è una grande misura per le persone in sofferenza. Se poi diventi un loro potenziale alleato sei un salvatore della patria. Siamo pronti a raccogliere le firme», aggiunge baldanzoso Richetti, «e a mobilitare tutta Italia su questo». La sensazione è che l’affondo di Richetti contro Italia viva sia la prima avvisaglia delle difficoltà che avranno le due forze (per modo di dire) politiche a unirsi. Il problema è sempre lo stesso: le candidature blindate. Dato per scontato che anche in caso di intesa il terzo polo non riuscirà a conquistare neanche un uninominale, infatti, il braccio di ferro sarà per i capolista al proporzionale, unica posizione che consente di sperare in una elezione alla Camera o al Senato. In politica due più due non fa mai quattro, quindi Azione e Iv saranno costrette a dei sacrifici. Prendiamo ad esempio cosa accadrà al Sud, dove Azione schiererà in diversi collegi proporzionali il ministro uscente Mara Carfagna: i calendiani della prima ora dovranno sudare per conquistare una posizione decente nei listini bloccati, poiché molto probabilmente ci sarà una alternanza tra esponenti di Azione e di Italia viva. Le prossime ore saranno incandescenti.
iStock
Femminismo è il vezzoso nome dato alla misandria occidentale, e la misandria è stato il mezzo per distruggere nel giro di due generazioni l’invincibile società occidentale giudaico-cristiana: le donne sempre vittime, i maschi sempre carnefici e soprattutto nemici. La «vera donna» si sente sorella di sconosciute, incluse cantanti mediocri che guadagnano cifre astronomiche mostrando la biancheria intima o la sua assenza, ma non deve avere linee di collaborazione o anche solo umana simpatia con il marito o il compagno. Il femminismo occidentale non è difesa delle donne, è misandria, odio per gli uomini. Il femminismo misandrico è un movimento creato a tavolino, con lo scopo di distruggere la famiglia, che è un’unità affettivo/economica con una sua intrinseca potenza: rende le persone non isolate, e quindi meno malleabili, tali da avere la forza di opporsi al potere dello Stato o del parastato. Il secondo scopo è abbattere i salari buttando sul mercato milioni di lavoratrici. Il terzo scopo è annientare le aree di lavoro non tassabile. Le donne a casa loro fanno lavori non tassabili: cucire, cucinare, costruire giocattoli, creare tende e vestiario, fare conserve, allevare bambini. Ora il loro lavoro è sostituito da supermercati, orrendi cibi precotti, con tutti i danni dei cibi processati, vestiario «made in China» fatto da schiavi sottopagati e soprattutto educatrici e insegnanti.
A ogni interazione madre-figlio, il cervello del bambino piccolo crea miliardi di sinapsi. Ogni interazione con l’estranea cui è affidato mentre mamma si sta facendo sfruttare da qualcuno in un posto di lavoro - e deve farlo perché il salario di papà è troppo basso - fabbrica molte meno sinapsi. Per i bambini, essere affidati a estranei al di sotto dei tre anni è un danno neurobiologico. Chi nega questa affermazione sta mentendo. Il bambino impara la regolazione delle emozioni sulla madre, ma per poter completare questo processo la madre deve essere presente. Con l’estranea cui è stato affidato, il processo non può realizzarsi. Inoltre, per quell’estranea il bambino è lavoro. Ci sono persone che amano il loro lavoro, altre che lo detestano: nel caso delle educatrici, quello che è detestato è il bambino. Ogni tanto bisogna mettere le videocamere per scoprire bambini picchiati o umiliati. La madre lavoratrice deve occuparsi del lavoro e quando alla sera torna a casa stanca e nervosa deve occuparsi del bambino, che alla sera, dopo ore e ore con estranee, è stanco e nervoso. Il peso è micidiale.
Le donne non mettono più al mondo figli. Il femminismo misandrico è stato creato per abbattere la natalità. Quando il bambino è malato, la mamma non può stare con lui. La presenza della madre fabbrica endorfine che potenziano il sistema immunitario. La sua assenza fabbrica cortisolo, ormone da stress che abbatte il sistema immunitario. Per poter essere affidato alle estranee del nido, il bambino deve essere sottoposto a un esavalente che in molte altre nazioni è vietato. Il 70% delle morti improvvise in culla avviene nella settimana successiva all’iniezione dell’esavalente. Perché le madri possano serenamente lavorare è stato creato il latte in polvere, pessimo prodotto che sostituisce il cibo perfetto dal punto di vista nutrizionale e immunologico che è il latte materno. È statisticamente dimostrata la differenza cognitiva e la migliore salute dei bambini allattati al seno. Dopo i tre anni un bambino potrebbe restarsene benissimo a casa sua; se proprio lo si vuole mandare all’asilo, sarebbe meglio non superare le due ore al giorno. Quando ha sei anni, il bambino dovrebbe andare in una scuola quattro ore, dalle 8.30 alle 12.30. Se la classe è fatta da bambini in maggioranza sereni e tutti della stessa madrelingua, come negli anni Cinquanta, quattro ore sono sufficienti.
Il bambino, messo sotto stress dalla mancanza cronica della madre, consegnato allo Stato per un numero spaventoso di ore, diventa un perfetto recipiente per la propaganda.
Le femministe hanno conquistato il diritto al lavoro. Il lavoro è una maledizione biblica. Anche l’aborto è una maledizione biblica e pure di quello hanno conquistato il diritto. Nella Cappella Sistina, Michelangelo ha rappresentato il momento in cui il serpente corrompe Eva con la mela: il serpente ha un volto di donna. Un’ intuizione geniale. Le donne hanno meno testosterone: questo le rende più accoglienti, permette la maternità, ma le rende meno capaci di battersi. Noi siamo meno capaci di combattere, cediamo più facilmente alla propaganda. Il vittimismo isterico del femminismo misandrico è stata la tentazione con cui le donne hanno annientato la invincibile civiltà giudaico-cristiana. Abbiamo ancora una generazione, forse una e mezza. Creperemo di denatalità e scemenze: tra due generazioni al massimo saremo una repubblica islamica. Il potere è stato tolto al pater familias, che era sporco brutto e cattivo, ma era comunque uno cui di quella donna e quei bambini importava, ed è stato consegnato allo Stato, una macchina burocratica cieca e stolida. Lo Stato decide quanti vaccini un bambino deve fare, mentre gli Ordini dei medici applicano la legge Lorenzin radiando tutti coloro che si permettono di parlare della criticità di questi farmaci. Lo Stato decide cosa un bambino deve mangiare: le orrende mense scolastiche dove si mangia pessimo cibo statale sono obbligatorie. Digitate su Google le parole mensa scolastica e tossinfezioni alimentari e troverete dati interessanti. I dati che mancano sono i danni su danni sul lungo periodo degli oli di bassa qualità, della conserva di pomodoro comprata dove costava meno (spesso sono pomodori coltivati in Cina con fertilizzanti pessimi). Lo Stato decide come il bambino deve vivere e se la famiglia si permette di farlo vivere felice in un bosco, lo Stato interviene. Lo Stato decide cosa il bambino deve pensare, perché l’etica gliela insegnano i docenti, quasi sempre femmine, che sono impiegati statali che eseguono gli ordini, le circolari, fanno corsi di aggiornamento Lgbt e hanno criminalizzato i ragazzi non vaccinati per il Covid.
Grazie al femminismo misandrico, in Italia, la disparità tra padre e madre è clamorosa: i padri sono esseri inferiori. La donna ha potere di vita e morte sul concepito, un potere osceno e criminale. Si considera criminale un padre che ha picchiato suo figlio, ma non si considera criminale una donna che ha fatto macellare il suo bambino nel suo ventre. Il potere che ha creato il femminismo misandrico vuole gli aborti, li adora. Se hai abbandonato il cane sei un bastando, se hai fatto uccidere tuo figlio nel tuo ventre sei un’eroina della libertà. Per far uccidere il bambino nel suo ventre, la donna ha bisogno di un medico, che diventa quindi un medico che sopprime vite umane. Il feto è vivo ed è umano. Chi lo sopprime, sta sopprimendo vite umane. Se la donna vuole abortire, il padre non può opporsi. La donna può abortire, ma il padre non può rifiutarsi di pagare gli alimenti, deve assumersi la responsabilità economica fino alla maggiore età (e spesso oltre), eredità garantita al figlio, un terzo del patrimonio che deve essere accantonato. La donna può rendere suo figlio orfano di padre: può partorirlo, disconoscerlo e impedire che il padre lo riconosca. Il padre, per riconoscere il figlio, deve arruolare uno o più avvocati, pagarli e imbarcarsi in una guerra giudiziaria lunga e dall’esito incerto. Mentre le donne sono normalmente aggredite da immigrati islamici, l’invasione che sostituisce il deficit demografico dei bambini abortiti, al punto che non si possono più fare manifestazioni in piazza come quelle di Capodanno, quando l’uomo è bianco e occidentale, la parola della donna in tribunale vale più di quella dell’uomo.
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Roberto Speranza (Ansa)
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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