2019-05-17
L’élite europea è nemica della democrazia
Da domani in allegato al giornale il volume «Il populismo non esiste», dedicato alle prossime elezioni a firma Martino Cervo. Pubblichiamo la prefazione di Maurizio Belpietro: invece di puntare il dito contro i sovranisti, la classe dirigente dell'Ue dovrebbe interrogarsi sul suo fallimento.I populisti non sono eleganti. Non solo perché vestono in maniera ordinaria, come fossero appena usciti da un magazzino dozzinale, ma perché il loro linguaggio è terra terra. Qualcuno lo definisce piatto, forse perché ha in mente la tassa piatta, la famosa flat tax, cavallo di battaglia dei partiti che si rivolgono alla classe media, quella più impoverita dalla crisi economica degli anni Duemila. Sta di fatto che con il loro linguaggio semplice, con il modo di rapportarsi agli elettori, i populisti riescono a farsi capire là dove l'élite fatica a farsi comprendere. Il meccanismo è facile: i populisti propongono soluzioni semplici a problemi complessi, e gli elettori approvano.Sono imbroglioni che indebitano il Paese e lo illudono di avere la chiave per superare le difficoltà, argomentano i giornali dell'establishment. [...] Può darsi che sia così, ossia che le soluzioni proposte dai populisti non siano ciò che serve per uscire dalla crisi. [...] Ma invece di contrastare i nuovi incantatori di serpenti, la classe dirigente che negli anni ha governato l'Europa e a lungo ha imposto un'egemonia culturale sul Vecchio continente controllando giornali, case editrici e case cinematografiche, oggi dovrebbe interrogarsi sulle ragioni del proprio fallimento. Invece di indagare il successo di Matteo Salvini, Viktor Orbán, Marine Le Pen e dei tanti leader che in tutta Europa si sono messi alla testa di partiti populisti, l'élite dovrebbe domandarsi come si è arrivati a questo punto.Perché dopo oltre settant'anni di pace e prosperità, di crescita dell'economia del welfare e dell'istruzione, il popolo non crede più alla classe dirigente che l'ha governato dal Dopoguerra a oggi? [...] Provate a pensare. In Spagna per anni al governo si sono alternati due partiti, ossia i popolari e i socialisti, mentre al resto del quadro politico erano lasciate le briciole. Lo stesso accadeva in Francia, dove a giocarsela alla fine erano i gollisti e i socialisti, senza che ai comunisti o ad altre formazioni fosse consentito di toccare palla. E in Inghilterra, in Germania, in Svezia, in Finlandia, in Austria, in Olanda e in Danimarca? La situazione è uguale, come mostra nel primo capitolo il libro che avete per le mani a pochi giorni dal voto delle europee. Sì, in alcuni di questi Paesi i populisti non insidiano ancora il potere, perché un sistema di coalizione o una legge elettorale li tengono fuori dalla porta di governo, ma è un fatto comune che ormai quelli che un tempo erano considerati al massimo un fenomeno folcloristico oggi sono un fenomeno politico.Di recente mi è capitato tra le mani un vecchio numero di Panorama del 1989. Il muro di Berlino non era ancora caduto, ma già scricchiolava e le elezioni europee erano alle porte. Nel Vecchio continente, per la prima volta si affacciava l'idea di un'Europa davvero unita, senza più la divisione netta della Cortina di ferro. La Lega di Umberto Bossi si preparava al confronto per poter conquistare uno o più seggi a Bruxelles, ma le cronache occupavano una paginetta appena, quella che di solito si dedica a un fenomeno minore [...]. E invece, trent'anni dopo, a sogno europeo teoricamente realizzato, senza più il comunismo e con una globalizzazione che ci ha reso cittadini d'Europa se non del mondo, il Vecchio continente è alle prese con i movimenti cosiddetti sovranisti, ossia con soggetti politici che reclamano l'autonomia dei propri Paesi, desiderosi di poter decidere del proprio destino fuori dai parametri europei. Come è possibile che di fronte allo sbandierato sogno degli Stati Uniti d'Europa, ovvero di una realtà con oltre 500 milioni di abitanti, in grado di confrontarsi con gli Stati Uniti e con le altre potenze mondiali, gli abitanti del Vecchio continente preferiscano i vecchi Stati sovrani?[...] Come mai alla costruzione di una grande Europa non ha corrisposto un grande entusiasmo da parte delle popolazioni che dalla stessa Europa unita avrebbero dovuto trarre beneficio? [...]La risposta è semplice, anche se la soluzione non lo è affatto. Agli anni Duemila gli europei si sono affacciati con grande fiducia. Il nuovo millennio doveva rappresentare un periodo di ulteriore crescita e di maggior benessere. L'illusione di un'Europa che garantisse prosperità, efficienza, servizi, opportunità per chiunque invece in breve si è infranta contro la realtà della globalizzazione. Avere aperto le frontiere, nell'Unione ma non solo, ha significato non appena la possibilità di viaggiare senza essere fermati al confine, ma il dovere di confrontarsi con la cultura degli altri e soprattutto con l'economia. L'Europa per crescere aveva bisogno di esportare, ma esportare significa accettare regole reciproche riguardo all'importazione. Dunque porte aperte a tutti, ma soprattutto alle merci. In uscita, ma anche in entrata. È lì, prima ancora che sui parametri e sui vincoli della moneta, che l'Europa è entrata in crisi. Il costo del welfare che consente ai cittadini europei di godere di un sistema sanitario efficiente e gratuito, quello previdenziale e la rete di protezione sociale che assiste chi ha perso il lavoro, non sono pagati dallo Spirito Santo, ma sono a carico della fiscalità generale. E la fiscalità generale grava sulle aziende e sui cittadini. Ma chi produce all'estero e poi importa in Europa non sopporta questi costi. Così i suoi prodotti possono essere messi in vendita a un prezzo vantaggioso, a scapito di quelli fabbricati in Paesi che devono farsi carico di un sistema sociale. Lo stesso si può dire degli obblighi ambientali. È bello tutelare la natura, ed essere tutti un po' «gretini». Consumare meno energia, inquinare meno, preferire l'auto elettrica a quella a gasolio, il treno all'aereo. Ma anche questo ha un costo, e a pagare è il ceto medio già impoverito. Mentre altrove, in quelli che un tempo avremmo definito Paesi del Terzo mondo, si va ancora a carbone, qui si spengono le centrali e le si riconvertono, applicando un sovraprezzo in bolletta. Non importa che poi migliaia di pensionati in Germania non siano in grado di pagare e siano costretti a rimanere al freddo: il mondo è salvo. Mentre quelle attuali battono i denti per il gelo, le generazioni future staranno meglio. Forse.Intanto però la generazione che ha contribuito al boom economico europeo dopo il secondo conflitto mondiale oggi si sente tradita, e insieme a essa si sentono tradite anche le giovani generazioni, che oltre all'aria pulita vedono pulito anche il proprio portafogli. Invece di occuparsi di tutto ciò, cercando di immaginare una soluzione che tranquillizzi il ceto medio produttivo, la classe dirigente europea è alle prese con un altro problema, ossia con un fenomeno che in queste dimensioni non aveva mai conosciuto, ovvero l'immigrazione di massa. L'arrivo di centinaia di migliaia di giovani in età da lavoro, con problemi di integrazione e socializzazione, è stato trattato in punta di diritto: si può negare l'asilo a persone che fuggono dalla guerra, o semplicemente dalla miseria o dalle condizioni climatiche avverse? Si possono rimandare indietro ragazzi che sfidano la morte a bordo di un barcone pur di tentare di avere una vita migliore? Ovvio che no: lo dicono l'Onu, la Convenzione di Ginevra, la Chiesa, la cultura occidentale e illuminista, costruita sull'autodeterminazione dei popoli. Ovvio. Ma a nessuno è venuto in mente di sentire che cosa dicessero quelle classe popolari che già erano spaventate dalla globalizzazione e dalla crisi. A nessuno è passato per la testa di interrogare quelle classi operaie che avrebbero dovuto fare i conti con una forza lavoro a basso costo e senza diritti, perché appena arrivata in Europa e sprovvista di specializzazione. A nessuno, soprattutto, è venuta voglia di domandarsi come sarebbe stata nei quartieri popolari l'integrazione fra i nuovi arrivati e i ceti più bassi. Risultato, nelle principali città europee la convivenza è al limite. Nel migliore dei casi, immigrati e autoctoni si ignorano, preferendo costruirsi delle enclave. Nel peggiore, si creano quelle che in Francia chiamano banlieue, che in Belgio abbiamo conosciuto con l'esempio di Molenbeeck, alla periferia di Bruxelles, e in Gran Bretagna hanno definito Londonistan: la città nella città, con una sua legge, un suo tribunale, una sua vita separata. Anche là dove viene presentato come un sistema di successo, il multiculturalismo ha fallito, e adesso se ne raccolgono solo le tensioni.La verità è che le élite europee hanno fatto tutto da sole, ignorando il popolo. Nessuno si è mai curato di sentire davvero ciò che avesse da dire, prova ne sia che si è costituita un'Unione senza un voto popolare, senza una costituzione, senza un governo, senza un'identità comune.Il risultato è che i soli a parlare con il popolo sono i cosiddetti populisti, partiti politici che sono nati ascoltandone le esigenze. Sull'immigrazione come sul sistema sociale, sul lavoro come sulla sensazione di insicurezza delle classi più deboli. Per questo abbiamo intitolato il testo che leggete Il populismo non esiste. Bisogna invertire cause ed effetti rispetto al modo in cui guardiamo i fenomeni della politica recente. Ad esempio: oggi i partiti tradizionali tirano il freno d'allarme, ravvisando il pericolo di derive illiberali e di pericoli per la democrazia. Ma i primi ad aver attentato alla democrazia, svuotandola dei propri valori, sono loro. Loro hanno costruito un moloch burocratico, che impedisce ai cittadini di pronunciarsi, di schierarsi contro un'immigrazione indiscriminata o una politica del 3% di deficit/Pil. Oltre che irragionevoli, le regole imposte si sono dimostrate inefficaci, e le conseguenze non potevano che essere quelle che abbiamo sotto gli occhi.Io non so se le soluzioni proposte dai partiti populisti serviranno a restituire ai ceti popolari e a quello medio la sicurezza che hanno perduto. Forse no, ma i populisti hanno pur sempre dalla loro un vantaggio: ascoltano il popolo, cioè la maggioranza, e provano a tradurne le istanze. Le élite invece sono diventate solo le interpreti di una minoranza. I loro punti di riferimento sono le classi agiate, facoltose, quelle che non hanno bisogno di quota 100 e neppure del reddito di cittadinanza, che non sono spaventate dall'immigrazione di massa perché vivono ai Parioli o in via Manzoni. Sì, i loro interlocutori sono le persone istruite. Uomini e donne colti che si rivolgono ad altri uomini e donne colti, provando l'ebbrezza di autodefinirsi competenti e superiori. Un circolo vizioso che crede di non avere nulla da imparare. Così, l'unica cosa che sanno fare è sbagliare.
Foto Pluralia
La XVIII edizione del Forum Economico Eurasiatico di Verona si terrà il 30 e 31 ottobre 2025 al Çırağan Palace di Istanbul. Tema: «Nuova energia per nuove realtà economiche». Attesi relatori internazionali per rafforzare la cooperazione tra Europa ed Eurasia.
Il Forum Economico Eurasiatico di Verona si sposta quest’anno a Istanbul, dove il 30 e 31 ottobre 2025 si terrà la sua diciottesima edizione al Çırağan Palace. L’evento, promosso dall’Associazione Conoscere Eurasia in collaborazione con la Roscongress Foundation, avrà come tema Nuova energia per nuove realtà economiche e riunirà rappresentanti del mondo politico, economico e imprenditoriale da decine di Paesi.
Dopo quattordici edizioni a Verona e tre tappe internazionali — a Baku, Samarcanda e Ras al-Khaimah — il Forum prosegue il suo percorso itinerante, scegliendo la Turchia come nuova sede di confronto tra Europa e spazio eurasiatico. L’obiettivo è favorire il dialogo e le opportunità di business in un contesto geopolitico sempre più complesso, rafforzando la cooperazione tra Occidente e Grande Eurasia.
Tra le novità di questa edizione, un’area collettiva dedicata alle imprese, pensata come piattaforma di incontro tra aziende italiane, turche e russe. Lo spazio offrirà l’occasione di presentare progetti, valorizzare il made in Italy, il made in Turkey e il made in Russia, e creare nuove partnership strategiche.
La Turchia, ponte tra Est e Ovest
Con un PIL di circa 1.320 miliardi di dollari nel 2024 e una crescita stimata al +3,1% nel 2025, la Turchia è oggi la 17ª economia mondiale e membro del G20 e dell’OCSE. Il Paese ha acquisito un ruolo crescente nella sicurezza e nell’economia globale, anche grazie alla sua industria della difesa e alla posizione strategica nel Mar Nero.
I rapporti con l’Italia restano solidi: nel 2024 l’interscambio commerciale tra i due Paesi ha toccato 29,7 miliardi di euro, con un saldo positivo per l’Italia di oltre 5,5 miliardi. L’Italia è il quarto mercato di destinazione per l’export turco e il decimo mercato di sbocco per quello italiano, con oltre 430 imprese italiane già attive in Turchia.
Nove sessioni per raccontare la nuova economia globale
Il programma del Forum si aprirà con una sessione dedicata al ruolo della Turchia nell’economia mondiale e proseguirà con nove panel tematici: energia e sostenibilità, cambiamento globale, rilancio del manifatturiero, trasporti e logistica, turismo, finanza e innovazione digitale, produzione alimentare e crescita sostenibile.
I lavori si svolgeranno in italiano, inglese, russo e turco, con partecipazione gratuita previa registrazione su forumverona.com, dove sarà disponibile anche la diretta streaming. Il percorso di avvicinamento all’evento sarà raccontato dal magazine Pluralia.
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Matteo Del Fante, ad di Poste Italiane (Ansa)
«Non esiste al mondo un prodotto così diffuso e delle dimensioni del risparmio postale», ha dichiarato Matteo Del Fante, amministratore delegato di Poste Italiane, a margine dell’evento «Risparmio Postale: da 150 anni la forza che fa crescere l’Italia», a cui ha presenziato anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «Come l’ha definito il Presidente della Repubblica, si tratta di un risparmio circolare: sono 27 milioni i risparmiatori postali», ha spiegato ai giornalisti Dario Scannapieco, amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti.