2025-03-16
La legge-femminicidio oltre che inutile rischia di essere pure incostituzionale
Il testo è in contrasto con l’articolo 3 della Carta, che dice che «tutti sono uguali davanti alla legge»: come giustificare l’ergastolo a chi uccide una donna «in quanto donna»? E non c’è una recrudescenza dei reati.Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione C’era da aspettarselo. Le parole, si sa, sono pietre. La parola «femminicidio», entrata da qualche anno nell’uso comune anche fuori d’Italia, evoca di per sé stessa l’idea di una sua implicita contrapponibilità alla parola «omicidio», quasi che quest’ultima sia riferibile soltanto alla soppressione fisica di un essere umano di sesso maschile e non, invece - come sempre è stata intesa, anche nel vigente articolo 575 del nostro Codice penale, che prevede, appunto, il reato di omicidio - a quella di un qualsiasi essere umano, maschio o femmina che esso sia; ciò sulla base del significato che già nella lingua latina era attribuito al termine homo come soggetto appartenente alla specie umana, definendosi invece il maschio come mas o vir. Era, quindi, inevitabile che, una volta creata quella indebita contrapposizione, qualcuno concepisse l’idea che l’uccidere una donna dovesse costituire reato diverso e autonomo dall’uccidere un uomo, inteso come essere umano di sesso maschile. Con riguardo all’Italia, quel «qualcuno» sembra identificabile nel ministro per le Pari opportunità, Eugenia Roccella, promotore del disegno di legge recentemente adottato dal Consiglio dei ministri, di cui ha anche assunto la strenua difesa nell’intervista comparsa su La Verità del 14 marzo scorso. In esso si prevede l’introduzione, nel Codice penale, di un articolo 577 bis, per il quale dovrebbe essere punito con l’ergastolo «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità». Va subito detto: una tale norma sembra porsi in evidente contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, in cui si stabilisce che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», senza distinzioni di sorta, ivi comprese, in particolare, quelle «di sesso». Ora, non vi è dubbio che l’essere donna è soltanto una delle infinite qualità personali, attinenti tanto alla sfera fisica quanto a quella morale o sociale, di cui ciascun cittadino è fornito e con riguardo a ciascuna delle quali non può né godere di privilegi né subire discriminazioni, anche sotto forma di una maggiore o minore tutela penale rispetto a quella offerta a chi non abbia quella qualità ma ne abbia una diversa o, magari, anche opposta.Non si vede, quindi, come potrebbe giustificarsi la punibilità con la massima pena dell’ergastolo di chi sopprima una donna «in quanto donna» e non anche di chi - come pure può avvenire - sopprima un uomo ( inteso come maschio) «in quanto uomo» o, tra gli infiniti esempi possibili, sopprima un disabile «in quanto disabile», un nero o un bianco «in quanto nero» o «in quanto bianco», uno straniero o un italiano «in quanto straniero» o «in quanto italiano», un musulmano o un cristiano «in quanto musulmano» o «in quanto cristiano», e così via. La maggior tutela penale di determinati soggetti, per effetto di una particolare qualità da essi rivestita, è, infatti, giustificabile solo quando la stessa sia correlata allo svolgimento di una qualche funzione pubblica o socialmente rilevante, ovvero sia tale da rendere quei soggetti particolarmente vulnerabili a fronte di chi volesse ledere un loro diritto, ovvero ancora, comportando la presunzione di particolari remore morali o di costume alla commissione di illeciti nei loro confronti, faccia sì che, quando tali illeciti siano invece commessi, essi siano considerati rivelatori di una speciale propensione a delinquere da parte di chi se ne rende autore.Ma il solo fatto di essere donna non può, all’evidenza, rendere configurabile alcuna di tali condizioni. Dovrebbe, quindi, valere anche per noi quanto affermato dal presidente dell’Argentina, Javier Milei, secondo cui la figura del femminicidio, prevista nel Codice penale di quel Paese come aggravante del reato di omicidio e della quale egli ha deciso la soppressione, implica «una distorsione del concetto di uguaglianza, che crea solo privilegi, mettendo metà della popolazione contro l’altra» e ponendosi, così, in contrasto con il principio di uguaglianza, contenuto anche dalla Costituzione argentina. E nemmeno può dirsi, poi, che la nuova norma - come spesso si sostiene da parte di chi è favorevole alla sua introduzione - risponda all’esigenza di meglio fronteggiare il preteso, ma in realtà inesistente, abnorme aumento dei «femminicidi». Risulta, infatti, dai dati ufficiali del ministero dell’Interno, reperibili su Internet, che, negli anni 2022, 2023 e 2024, i «femminicidi» (intendendosi per tali quelli riportati come commessi «in ambito familiare/affettivo») sono stati, rispettivamente, in numero di 106, 96 e 99 e che, mettendo a raffronto i soli mesi di gennaio 2024 e gennaio 2025, i numeri sono stati, rispettivamente, di 7 e di 3. D’altra parte, lo stesso ministro Roccella, nell’intervista sopra menzionata, ha riconosciuto che la pena dell’ergastolo è già oggi applicabile, per effetto dell’aggravante prevista dall’articolo 577, numero 1, del Codice penale, nel caso di «femminicidi» commessi in ambito domestico. Al che può aggiungersi che alla stessa pena è pure soggetto chi, anche al di fuori dell’ambito domestico, uccida una donna «in quanto donna», essendo in tal caso sicuramente applicabile, comunque, l’altra aggravante costituita dai «motivi abietti o futili», prevista dall’articolo 61 numero 1 del Codice penale.Non si vede, quindi, di quale utilità pratica, ai fini di una maggiore efficacia deterrente (ammesso pure che ve ne sia la oggettiva necessità) sarebbe l’introduzione della nuova figura di reato; il che rende legittimo il sospetto che sia vero proprio ciò che, sempre nella citata intervista, il ministro Roccella ha inteso, invece, negare: vale a dire che il disegno di legge in questione sia frutto di «un cedimento a quello che viene definito l’uso “sociologico” o “segnaletico” del diritto penale, che tante storture ha prodotto nella storia d’Italia». E, com’è noto, a pensar male di fa peccato ma quasi sempre si indovina.