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2024-03-03
Le spie russe umiliano Berlino. Parigi tiene in caldo le forze speciali
Olaf Scholz (Ansa)
È la guerra, bellezza. Sempre meno fredda. Con le basi Cia al confine tra Russia e Ucraina, le infiltrazioni di soldati occidentali, i voli degli F-35 americani. E le classiche spie di Mosca.
Come quelle che hanno captato le conversazioni di alcuni alti ufficiali dell’aeronautica tedesca, mentre discutevano della fornitura di missili Taurus a Kiev e del rischio che la resistenza li utilizzasse per colpire obiettivi sensibili. Ad esempio, il ponte che collega la Crimea al territorio della Federazione. La registrazione del colloquio è stata pubblicata dal canale Russia Today - oscurato nell’Ue - ed è stata diffusa sui social. Il ministero della Difesa di Berlino ha confermato che l’intercettazione c’è stata; tuttavia, non è in grado di stabilire «se siano state apportate modifiche alla versione registrata». L’esercito considera «autentico» il contenuto dell’audio e il governo assicura che il controspionaggio militare «ha adottato tutte le misure necessarie». Il regime di Vladimir Putin, però, alza le mani. Anzi, la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha chiesto spiegazioni alla Germania.
L’episodio aumenta la pressione attorno al cancelliere Olaf Scholz. Ieri, a margine della sua visita in Vaticano, il leader dei socialdemocratici ha ammesso che quella della fuga di informazioni è «una questione molto seria» e ha promesso un’«indagine molto accurata, molto estesa e molto rapida». Nondimeno, al congresso del Pse a Roma, ha ribadito che «non manderemo truppe» in Ucraina «e faremo di tutto per evitare questa evoluzione».
Il capo dell’esecutivo è alle prese con l’incalzante richiesta di fornire agli ucraini i razzi a lunga gittata. Lui, restio alla consegna per timore di un’escalation con i russi, ha reagito alle insistenze della Gran Bretagna, svelando dettagli imbarazzanti sulle attività di inglesi e francesi al fronte. «Ciò che fanno in termini di controllo dei bersagli», ha precisato, «la Germania non può farlo». Scholz, in pratica, ha dichiarato pubblicamente che Londra e Parigi assistono Kiev nel lancio dei missili Storm shadow, suscitando le ire del ministro della Difesa inglese, Ben Wallace, il quale ha definito il politico tedesco «l’uomo sbagliato, al posto sbagliato, nel momento sbagliato».
Che uomini e mezzi di Paesi Nato operino in Ucraina, comunque, era il segreto di Pulcinella. Ieri, sulla Verità, vi abbiamo dato conto di ciò che è stato documentato finora: il ruolo dell’intelligence Usa, il contributo dei caccia di quinta generazione nell’individuazione delle batterie russe di terra-aria, la presenza sul campo di forze speciali di Lituania, Stati Uniti, Regno Unito, Olanda e Francia. Che ormai è uscita allo scoperto.
A Emmanuel Macron non è bastato rivendicare le frasi sull’invio di truppe - ogni sua parola, ha garantito, è «pesata, pensata e misurata». Venerdì sera, Le Monde ha svelato cosa avrebbe in mente monsieur le président: vorrebbe consentire alle forze speciali di mettere gli stivali sul terreno, per porre la Russia dinanzi a un «dilemma strategico». Confiderebbe, così, di dissuadere Putin dall’attaccare le aree nelle quali sarebbero di stanza i transalpini. In realtà, si tratterebbe semplicemente di portare alla luce ciò che finora è avvenuto nell’ombra, anche con il contributo dei servizi segreti. I quali, ha ricordato al quotidiano francese un ex dipendente della direzione generale della Sicurezza esterna, Vincent Crouzet, «non sono soggetti alle leggi di guerra». Secondo una fonte di Kiev, tutte le nazioni alleate sarebbero già in Ucraina, sebbene non abbiano unità combattenti. Circostanza confermata da un funzionario della Difesa europea, che al Financial Times ha illustrato l’obiettivo della sortita di Macron: non tanto passare a una nuova fase dell’impegno bellico, dato che le forze speciali occidentali sono già coinvolte, quanto creare «deterrenza e ambiguità». In fondo, se subito dopo la sua proposta il presidente ha raccolto una bocciatura quasi unanime, inclusa quella del segretario della Nato, nelle ultime ore sono arrivate varie adesioni: quella di due Repubbliche baltiche, la lituana e l’estone, e quella del Canada. L’inquilino dell’Eliseo deve avere progetti abbastanza grandi da giustificare la convocazione, per giovedì prossimo, di tutti i capi dei partiti, per parlare della «situazione in Ucraina». S’incrociano due piani: quello delle ambizioni di Parigi, decisa ad approfittare della ritirata di Washington per imporre la propria egemonia sul Vecchio continente, anche attraverso il predominio militare; e il tentativo di scoraggiare eventuali colpi di coda dello zar, in una fase in cui l’inerzia del conflitto pende a favore di Mosca.
La verità è che un dilemma strategico attanaglia pure noi. L’Occidente deve evitare una catastrofe planetaria, ma al contempo non può permettersi una capitolazione. Perdere l’Ucraina significherebbe trasmettere alle potenze che intendono sfidarne il primato - la Cina che punta a Taiwan, oltre ai nemici di Usa e Israele in Medio Oriente, Iran in testa - che l’ordine mondiale si può scompaginare. Ma nemmeno a Putin è consentito mollare l’osso: c’è in ballo la possibilità di assicurarsi uno sbocco nel Mediterraneo, di controllare l’istmo ponto-baltico e, soprattutto, di scongiurare quello che l’élite russa considera un assedio della Nato.
È un guaio, perché una trattativa di pace implica la disponibilità a un compromesso. Qui, invece, siamo dinanzi a uno stallo totale: nelle trincee e nelle valutazioni politiche delle parti. Man mano, aumenta il pericolo di finire trascinati in una guerra dai contorni apocalittici. Non è più fantastoria. Ci siamo dentro fino al collo.
«Putin paga i vostri media». E il «Corriere» rilancia senza uno straccio di prova
I funerali di Alexei Navalny, celebrati lo scorso venerdì, hanno giustamente attirato l’attenzione dei media occidentali, che quando svolgono correttamente il loro lavoro fungono, secondo la nota definizione, da «cani da guardia» del potere. La morte in prigione di un oppositore politico è senz’altro un avvenimento da mettere in risalto e un’occasione per interrogarsi su temi importanti, come tutte le edizioni dei quotidiani di ieri hanno fatto, ma anche in certi casi per lanciare messaggi di altro tipo. Accanto al racconto della cerimonia funebre e della sepoltura di Navalny, il Corriere della Sera ieri ha proposto un’intervista ad Alexander Nevzorov, giornalista e deputato della Duma dal 1993 al 2007, il quale vive in Italia sotto protezione dopo essere fuggito da Mosca, il 22 marzo del 2022, per scampare alle accuse di diffondere false informazioni, reato per cui secondo la legge russa rischierebbe fino a 15 anni. «Più pressione sul regime. Da voi tanti fan di Mosca», ha titolato la conversazione il giornale milanese di Via Solferino, facendo eco alle parole di Volodymyr Zelensky di qualche giorno fa, quando in occasione della firma del patto bilaterale con il nostro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, aveva dichiarato: «Sappiamo però che in Italia ci sono tanti filoputiniani e in Europa anche. Stiamo preparando una loro lista, non solo riguardo all’Italia, da presentare alla Commissione europea».La breve intervista a Nevzorov si concentra sulla situazione in Russia e sulla possibilità o meno di un cambiamento dall’interno, cosa che l’interlocutore tende a escludere, tuttavia anche in uno degli occhielli a lato dell’articolo, quelli che si leggono quando si sfoglia frettolosamente il quotidiano, vengono messe in risalto le parole riguardanti questa presunta schiera di opinionisti al soldo dello zar: «Vladimir Putin ha tanti soldi e da sempre compra sostenitori», si legge nelle righe di sommario. «L’Italia è un Paese grande ed è un mercato importante per lui. Lo ha fatto anche in altri Stati europei, ha creato una rete». Nell’intervista, in realtà, il rilievo è ancora più esplicito: «Ha creato una vera e propria rete e ha pagato tantissimi opinionisti italiani perché dicano quello che vuole lui. È una pratica in atto da anni». Al che la giornalista, giustamente, ha chiesto al russo: «È un’accusa molto grave, ha prove di quello che dice?». Una domanda più che legittima, a cui l’intervistato ha risposto: «No, non possiamo accusare qualcuno in particolare, ma sappiamo chi sono e vediamo il risultato». Quindi, ricapitolando: secondo Nevzorov in Italia ci sono non uno, non dieci, bensì «tantissimi opinionisti» al soldo di Putin, ma è lui stesso ad ammettere di non avere alcuna prova che lo dimostri. Ora, l’oppositore russo ha tutto il diritto di pensarlo, ma prima di gettare fango sulla stampa italiana e sui suoi opinionisti in generale, forse dovrebbe avere qualcosa in mano. E dovrebbe essere il principale quotidiano italiano a chiedergliene conto, prima di fare da semplice megafono.Se il messaggio che la morte di Navalny ha lasciato al mondo è il valore delle libertà politiche e civili, anche le accuse senza prove non fanno bene alla democrazia, come già sapevano oltre due millenni fa gli inventori di questa straordinaria forma di governo, gli ateniesi. Esiste anche la possibilità, ebbene sì, che chi esprime preoccupazioni per il sostegno a oltranza verso Kiev, viste anche le ultime affermazioni di un noto leader europeo, non sia pagato da Putin, ma abbia solo conservato un minimo di senno o semplicemente non condivida la pressione bellicista a reti unificate.
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Scholz ammette che Mosca ha intercettato i dialoghi riservati sui missili Taurus: «Fatto grave». Se i soldati tedeschi non partiranno, quelli francesi sembrano pronti a farlo: l’Eliseo convoca i partiti per un annuncio. Il principale quotidiano italiano fa da megafono alle accuse dell’oppositore Nevzorov. Che ammette: «Non ho riscontri».Lo speciale contiene due articoli.È la guerra, bellezza. Sempre meno fredda. Con le basi Cia al confine tra Russia e Ucraina, le infiltrazioni di soldati occidentali, i voli degli F-35 americani. E le classiche spie di Mosca.Come quelle che hanno captato le conversazioni di alcuni alti ufficiali dell’aeronautica tedesca, mentre discutevano della fornitura di missili Taurus a Kiev e del rischio che la resistenza li utilizzasse per colpire obiettivi sensibili. Ad esempio, il ponte che collega la Crimea al territorio della Federazione. La registrazione del colloquio è stata pubblicata dal canale Russia Today - oscurato nell’Ue - ed è stata diffusa sui social. Il ministero della Difesa di Berlino ha confermato che l’intercettazione c’è stata; tuttavia, non è in grado di stabilire «se siano state apportate modifiche alla versione registrata». L’esercito considera «autentico» il contenuto dell’audio e il governo assicura che il controspionaggio militare «ha adottato tutte le misure necessarie». Il regime di Vladimir Putin, però, alza le mani. Anzi, la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha chiesto spiegazioni alla Germania. L’episodio aumenta la pressione attorno al cancelliere Olaf Scholz. Ieri, a margine della sua visita in Vaticano, il leader dei socialdemocratici ha ammesso che quella della fuga di informazioni è «una questione molto seria» e ha promesso un’«indagine molto accurata, molto estesa e molto rapida». Nondimeno, al congresso del Pse a Roma, ha ribadito che «non manderemo truppe» in Ucraina «e faremo di tutto per evitare questa evoluzione».Il capo dell’esecutivo è alle prese con l’incalzante richiesta di fornire agli ucraini i razzi a lunga gittata. Lui, restio alla consegna per timore di un’escalation con i russi, ha reagito alle insistenze della Gran Bretagna, svelando dettagli imbarazzanti sulle attività di inglesi e francesi al fronte. «Ciò che fanno in termini di controllo dei bersagli», ha precisato, «la Germania non può farlo». Scholz, in pratica, ha dichiarato pubblicamente che Londra e Parigi assistono Kiev nel lancio dei missili Storm shadow, suscitando le ire del ministro della Difesa inglese, Ben Wallace, il quale ha definito il politico tedesco «l’uomo sbagliato, al posto sbagliato, nel momento sbagliato». Che uomini e mezzi di Paesi Nato operino in Ucraina, comunque, era il segreto di Pulcinella. Ieri, sulla Verità, vi abbiamo dato conto di ciò che è stato documentato finora: il ruolo dell’intelligence Usa, il contributo dei caccia di quinta generazione nell’individuazione delle batterie russe di terra-aria, la presenza sul campo di forze speciali di Lituania, Stati Uniti, Regno Unito, Olanda e Francia. Che ormai è uscita allo scoperto.A Emmanuel Macron non è bastato rivendicare le frasi sull’invio di truppe - ogni sua parola, ha garantito, è «pesata, pensata e misurata». Venerdì sera, Le Monde ha svelato cosa avrebbe in mente monsieur le président: vorrebbe consentire alle forze speciali di mettere gli stivali sul terreno, per porre la Russia dinanzi a un «dilemma strategico». Confiderebbe, così, di dissuadere Putin dall’attaccare le aree nelle quali sarebbero di stanza i transalpini. In realtà, si tratterebbe semplicemente di portare alla luce ciò che finora è avvenuto nell’ombra, anche con il contributo dei servizi segreti. I quali, ha ricordato al quotidiano francese un ex dipendente della direzione generale della Sicurezza esterna, Vincent Crouzet, «non sono soggetti alle leggi di guerra». Secondo una fonte di Kiev, tutte le nazioni alleate sarebbero già in Ucraina, sebbene non abbiano unità combattenti. Circostanza confermata da un funzionario della Difesa europea, che al Financial Times ha illustrato l’obiettivo della sortita di Macron: non tanto passare a una nuova fase dell’impegno bellico, dato che le forze speciali occidentali sono già coinvolte, quanto creare «deterrenza e ambiguità». In fondo, se subito dopo la sua proposta il presidente ha raccolto una bocciatura quasi unanime, inclusa quella del segretario della Nato, nelle ultime ore sono arrivate varie adesioni: quella di due Repubbliche baltiche, la lituana e l’estone, e quella del Canada. L’inquilino dell’Eliseo deve avere progetti abbastanza grandi da giustificare la convocazione, per giovedì prossimo, di tutti i capi dei partiti, per parlare della «situazione in Ucraina». S’incrociano due piani: quello delle ambizioni di Parigi, decisa ad approfittare della ritirata di Washington per imporre la propria egemonia sul Vecchio continente, anche attraverso il predominio militare; e il tentativo di scoraggiare eventuali colpi di coda dello zar, in una fase in cui l’inerzia del conflitto pende a favore di Mosca.La verità è che un dilemma strategico attanaglia pure noi. L’Occidente deve evitare una catastrofe planetaria, ma al contempo non può permettersi una capitolazione. Perdere l’Ucraina significherebbe trasmettere alle potenze che intendono sfidarne il primato - la Cina che punta a Taiwan, oltre ai nemici di Usa e Israele in Medio Oriente, Iran in testa - che l’ordine mondiale si può scompaginare. Ma nemmeno a Putin è consentito mollare l’osso: c’è in ballo la possibilità di assicurarsi uno sbocco nel Mediterraneo, di controllare l’istmo ponto-baltico e, soprattutto, di scongiurare quello che l’élite russa considera un assedio della Nato.È un guaio, perché una trattativa di pace implica la disponibilità a un compromesso. Qui, invece, siamo dinanzi a uno stallo totale: nelle trincee e nelle valutazioni politiche delle parti. Man mano, aumenta il pericolo di finire trascinati in una guerra dai contorni apocalittici. Non è più fantastoria. 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La morte in prigione di un oppositore politico è senz’altro un avvenimento da mettere in risalto e un’occasione per interrogarsi su temi importanti, come tutte le edizioni dei quotidiani di ieri hanno fatto, ma anche in certi casi per lanciare messaggi di altro tipo. Accanto al racconto della cerimonia funebre e della sepoltura di Navalny, il Corriere della Sera ieri ha proposto un’intervista ad Alexander Nevzorov, giornalista e deputato della Duma dal 1993 al 2007, il quale vive in Italia sotto protezione dopo essere fuggito da Mosca, il 22 marzo del 2022, per scampare alle accuse di diffondere false informazioni, reato per cui secondo la legge russa rischierebbe fino a 15 anni. «Più pressione sul regime. Da voi tanti fan di Mosca», ha titolato la conversazione il giornale milanese di Via Solferino, facendo eco alle parole di Volodymyr Zelensky di qualche giorno fa, quando in occasione della firma del patto bilaterale con il nostro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, aveva dichiarato: «Sappiamo però che in Italia ci sono tanti filoputiniani e in Europa anche. Stiamo preparando una loro lista, non solo riguardo all’Italia, da presentare alla Commissione europea».La breve intervista a Nevzorov si concentra sulla situazione in Russia e sulla possibilità o meno di un cambiamento dall’interno, cosa che l’interlocutore tende a escludere, tuttavia anche in uno degli occhielli a lato dell’articolo, quelli che si leggono quando si sfoglia frettolosamente il quotidiano, vengono messe in risalto le parole riguardanti questa presunta schiera di opinionisti al soldo dello zar: «Vladimir Putin ha tanti soldi e da sempre compra sostenitori», si legge nelle righe di sommario. «L’Italia è un Paese grande ed è un mercato importante per lui. Lo ha fatto anche in altri Stati europei, ha creato una rete». Nell’intervista, in realtà, il rilievo è ancora più esplicito: «Ha creato una vera e propria rete e ha pagato tantissimi opinionisti italiani perché dicano quello che vuole lui. È una pratica in atto da anni». Al che la giornalista, giustamente, ha chiesto al russo: «È un’accusa molto grave, ha prove di quello che dice?». Una domanda più che legittima, a cui l’intervistato ha risposto: «No, non possiamo accusare qualcuno in particolare, ma sappiamo chi sono e vediamo il risultato». Quindi, ricapitolando: secondo Nevzorov in Italia ci sono non uno, non dieci, bensì «tantissimi opinionisti» al soldo di Putin, ma è lui stesso ad ammettere di non avere alcuna prova che lo dimostri. Ora, l’oppositore russo ha tutto il diritto di pensarlo, ma prima di gettare fango sulla stampa italiana e sui suoi opinionisti in generale, forse dovrebbe avere qualcosa in mano. E dovrebbe essere il principale quotidiano italiano a chiedergliene conto, prima di fare da semplice megafono.Se il messaggio che la morte di Navalny ha lasciato al mondo è il valore delle libertà politiche e civili, anche le accuse senza prove non fanno bene alla democrazia, come già sapevano oltre due millenni fa gli inventori di questa straordinaria forma di governo, gli ateniesi. Esiste anche la possibilità, ebbene sì, che chi esprime preoccupazioni per il sostegno a oltranza verso Kiev, viste anche le ultime affermazioni di un noto leader europeo, non sia pagato da Putin, ma abbia solo conservato un minimo di senno o semplicemente non condivida la pressione bellicista a reti unificate.
La Juventus resta sotto il controllo di Exor. Il gruppo ha chiarito con un comunicato la propria posizione sull’offerta di Tether. «La Juventus è un club storico e di successo, di cui Exor e la famiglia Agnelli sono azionisti stabili e orgogliosi da oltre un secolo», si legge nella nota della holding, che conferma come il consiglio di amministrazione abbia respinto all’unanimità l’offerta per l’acquisizione del club e ribadito il pieno impegno nel sostegno al nuovo corso dirigenziale.
A rafforzare il messaggio, nelle stesse ore, è arrivato anche un intervento diretto di John Elkann, diffuso sui canali ufficiali della Juventus. Un video breve, meno di un minuto, ma importante. Elkann sceglie una veste informale, indossa una felpa con la scritta Juventus e parla di identità e di responsabilità. Traduzione per i tifosi che sognano nuovi padroni o un ritorno di Andrea Agnelli: il mercato è aperto per Gedi, ma non per la Juve. Il video va oltre le parole. Chiarisce ciò che viene smentito e ciò che resta aperto. Elkann chiude alla vendita della Juventus. Ma non chiude alla vendita di giornali e radio.
La linea, in realtà, era stata tracciata. Già ai primi di novembre, intervenendo al Coni, Elkann aveva dichiarato che la Juve non era in vendita, parlando del club come di un patrimonio identitario prima ancora che industriale. Uno dei nodi resta il prezzo. L’offerta attribuiva alla Juventus una valutazione tra 1,1 e 1,2 miliardi, cifra che Exor giudica distante dal peso economico reale (si mormora che Tether potrebbe raddoppiare l’offerta). Del resto, la Juventus è una società quotata, con una governance strutturata, ricavi di livello europeo e un elemento che in Italia continua a fare la differenza: lo stadio di proprietà. L’Allianz Stadium non è solo un simbolo. Funziona come asset industriale. È costato circa 155 milioni di euro, è entrato in funzione nel 2011 e oggi gli analisti di settore lo valutano tra 300 e 400 milioni, considerando struttura, diritti e capacità di generare ricavi. L’impianto produce flussi stabili, consente pianificazione e riduce l’esposizione ai risultati sportivi di breve periodo.
I numeri di bilancio completano il quadro. Nei cicli più recenti la Juventus ha generato ricavi operativi tra 400 e 450 milioni di euro, collocandosi tra i principali club europei per fatturato, come indicano i report Deloitte football money league. Prima della pandemia, i ricavi da stadio oscillavano tra 60 e 70 milioni di euro a stagione, ai vertici della Serie A. Su queste basi, applicando multipli utilizzati per club con brand globale e asset infrastrutturali, negli ambienti finanziari la valutazione industriale della Juventus viene collocata tra 1,5 e 2 miliardi di euro, al netto delle variabili sportive.
Il confronto con il mercato rafforza questa lettura. Il Milan è stato ceduto a RedBird per circa 1,2 miliardi di euro, senza stadio di proprietà e con una governance più complessa. Quel prezzo resta un riferimento nel calcio italiano. Se quella è stata la valutazione di un top club privo dell’asset stadio, risulta difficile immaginare che la Juventus possa essere trattata allo stesso livello senza che il socio di controllo giudichi l’operazione penalizzante.
A incidere è anche il profilo dell’offerente. Tether, principale emittente globale di stablecoin, opera in un perimetro regolatorio diverso da quello degli intermediari tradizionali, seguito con attenzione anche da Consob. Dopo l’ultimo aumento di capitale bianconero, Standard & Poor’s ha declassato la capacità di Usdt di mantenere l’ancoraggio al dollaro. Sul piano reputazionale pesa, inoltre, il giudizio dell’Economist (del gruppo Exor), secondo cui la stablecoin è diventata uno strumento utilizzato anche nei circuiti dell’economia sommersa globale, cioè sul mercato nero.
Intorno alla Juventus circolano anche altre ipotesi. Si parla di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di Luxottica e azionista di EssilorLuxottica attraverso la holding di famiglia Delfin, dopo l’offerta presentata su Gedi, e di un possibile interesse indiretto di capitali mediorientali. Al momento, però, mancano cifre e progetti industriali strutturati. Restano solo indiscrezioni.
Sullo sfondo continua intanto a emergere il nome di Andrea Agnelli. L’ex presidente dei nove scudetti ha concluso la squalifica e raccoglie il consenso di una parte ampia della tifoseria, che lo sogna come possibile punto di ripartenza. L’ipotesi che circola immagina un ritorno sostenuto da imprenditori internazionali, anche mediorientali, in un contesto in cui il fondo saudita Pif, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e già proprietario del Newcastle, si è imposto come uno dei principali attori globali del calcio.
Un asse che non si esaurisce sul terreno sportivo. Lo stesso filone saudita riaffiora nel dossier Gedi, ormai entrato nella fase conclusiva. La presenza dell’imprenditore greco Theodore Kyriakou, fondatore del gruppo Antenna, rimanda a un perimetro di relazioni che incrocia capitali internazionali e investimenti promossi dal regno saudita. In questo quadro, Gedi - che comprende Repubblica, Stampa e Radio Deejay - è l’unico asset destinato a cambiare mano, mentre Exor ha tracciato una linea netta: il gruppo editoriale segue una strada propria, la Juventus resta fuori (al momento) da qualsiasi ipotesi di cessione.
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Finanziere puro. John Elkann, abilissimo a trasformare stabilimenti e impianti, operai e macchinari, sudore e fatica in figurine panini da comprare e vendere. Ma quando si tratta di gestire aziende «vere», quelle che producono, vincono o informano, la situazione si complica. È un po’ come vedere un mago dei numeri alle prese con un campo di calcio per stabilirne il valore e stabilire il valore dei soldi. Ma la palla… beh, la palla non sempre entra in porta. Peccato. Andrà meglio la prossima volta.
Prendiamo Ferrari. Il Cavallino rampante, che una volta dominava la Formula 1, oggi ha perso la capacità di galoppare. Elkann vende il 4% della società per circa 3 miliardi: applausi dagli azionisti, brindisi familiare, ma la pista? Silenziosa. Il titolo è un lontano ricordo. I tifosi hanno esaurito la pazienza rifugiandosi nell’ironia: «Anche per quest’anno vinceremo il Mondiale l’anno prossimo». E cosi gli azionisti. Da quando Elkann ha collocato quelle azioni il titolo scende e basta. Era diventato il gioiello di Piazza Affari. Dopo il blitz di Elkann per arricchire Exor il lento declino.
E la Juventus? Sotto Andrea Agnelli aveva conquistato nove scudetti di fila, un record che ha fatto parlare tutta Italia. Oggi arranca senza gloria. Racconta Platini di una breve esibizione dell’erede di Agnelli in campo. Pochi minuti e si fa sostituire. Rifiata, chiede di rientrare. Il campione francese lo guarda sorridendo: «John, questo è calcio non è basket». Elkann osserva da lontano, contento dei bilanci Exor e delle partecipazioni finanziarie, mentre tifosi e giornalisti discutono sulle strategie sportive. La gestione lo annoia, ma la rendita finanziaria quella è impeccabile.
Gedi naviga tra conti in rosso e sfide editoriali perdenti. Cairo, dall’altra parte, rilancia il Corriere della Sera con determinazione e nuovi investimenti. Elkann sorride: non è un problema gestire giornali, se sai fare finanza. La lezione è chiara: le aziende si muovono, ma i capitali contano di più.
Stellantis? La storia dell’auto italiana. La storia della dinastia. Ora un condominio con la famiglia Peugeot. Elkann lascia fare, osserva i mercati e, quando serve, vende o alleggerisce le partecipazioni. Anche qui, la gestione operativa non è il punto forte: ciò che conta è il risultato finanziario, non il numero di auto prodotte o le fabbriche gestite.
E gli investimenti? Alcuni brillano, altri richiedono pazienza. Philips è un esempio recente: un investimento ambizioso che riflette la strategia di diversificazione di Exor, con qualche rischio incorporato. Ma se si guarda al quadro generale, Elkann ha accumulato oltre 4 miliardi di liquidità entro metà 2025, grazie a vendite mirate e partnership strategiche. Una cifra sufficiente per pensare a nuove acquisizioni e opportunità, senza perdere il sorriso.
Perché poi quello che conta per John è altro. Il gruppo Exor continua a crescere in valore. Gli azionisti vedono il titolo passare da un minimo storico di 13,44 euro nel 2011 a circa 72 euro oggi, e sorridono. La famiglia Elkann Agnelli si gode i frutti degli investimenti, mentre il mondo osserva: Elkann è il finanziere perfetto, sa fare ciò che conta davvero, cioè far crescere la ricchezza e proteggere gli asset della famiglia.
In fondo, Elkann ci ricorda che la finanza ha il suo fascino anche quando la gestione aziendale è complicata: vendere, comprare, accumulare, investire con giudizio (e un pizzico di fortuna) può essere altrettanto emozionante che vincere scudetti, titoli di Formula 1 o rilanciare giornali. Il sorriso di chi ha azioni Exor vale più di qualsiasi trofeo, e dopotutto, questo è il suo segreto.
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