2019-10-23
Le scomode profezie di un vescovo che non sopportava il pensiero unico
Il gender, la genitorialità in crisi, l'immigrazione incontrollata. Già 20 anni fa Alessandro Maggiolini capì cosa sarebbe successo in Italia.«Vecchi si nasce, giovani si diventa». Mi congedò così, dopo un dolcetto alla mandorla e un bicchiere di vino bianco, stringendo forte la mano e guardandomi negli occhi. Un saluto laico da statista o da ammiraglio, per niente curiale, perché Alessandro Maggiolini chiedeva subito lealtà e regalava subito spontaneità, lontano anniluce dall'avvolgente ipocrisia di certe tonache di moda. Era il 2006, voleva conoscere il nuovo direttore de La Provincia, un comasco di ritorno a Como dopo 18 anni al Giornale; soprattutto voleva sentir parlare di Indro Montanelli. Voleva anche ribadire che nonostante gli acciacchi della salute lui sarebbe stato un lettore attento, un interlocutore disponibile, uno spirito libero. «Vecchi si nasce, giovani si diventa». Quell'ultima frase arrivò a sintetizzare un pensiero profondo: la vecchiaia dell'anima è figlia del conformismo, del camaleontismo, di quella voglia di somigliare agli altri che tutto omologa. Quindi non lo riguardava, non aveva niente a che fare con i fremiti di verità e di libertà che lo accompagnavano e che lo rendevano giovanissimo a 75 anni. Una giovinezza conquistata, una giovinezza immortale. Consigliava anche a noi giornalisti di studiare per diventare giovani, di non edulcorare, di non travisare, di non nascondere la polvere sotto il tappeto. Ma di scrivere sempre «qualcosa di potente e delicato come la verità». Non voleva essere interpretato e neppure protetto. La frase che manda a dire a Laura D'Incalci dopo la lettura del primo articolo che lo riguardava è perfetta nello stile di un vescovo da prima pagina: «Finalmente avete scritto ciò che avevo detto senza fraintendimenti». Senza divagare e senza edulcorare, cosa che lo infastidiva. Più che un complimento, un'investitura.Maggiolini era un gigante. Non sopportava navigare nel Banal Grande del politicamente corretto e non faceva niente per nascondere quel vulcano in perenne tremolìo rappresentato dall'unione di cervello e cuore in costante simbiosi. Andava ricordato, anzi andava riscoperto. E l'autrice lo ha fatto nel modo migliore: gli ha ridato la parola. Aprendo quell'armadio con i ritagli, pubblicando i suoi discorsi, le sue interviste, le sue omelie, ci ha confermato quanto fosse premonitore lui allora e quanto siamo noiosi e incagliati noi oggi. In 20 anni il dibattito sociale, etico e politico in Italia non è avanzato di un metro. Frasi illuminanti o preoccupate sul gender fluid («Con che disinvoltura i nostri governanti passano sopra al disegno di Dio che con sapienza ha creato l'uomo e la donna, la loro unione»), sulla genitorialità in crisi («Non lamentiamoci se la società si corrompe e se i bambini vengono su indifferenti a qualsiasi valore»), sull'immigrazione incontrollata («I rischi dell'immigrazione indiscriminata sono tanto più preoccupanti nel caso di immigrati musulmani che non vogliono integrarsi») erano già allora pietre angolari, convinzioni forti di un sacerdote che amava la sua terra e amava il Vangelo. Sosteneva 20 anni fa Maggiolini dal pulpito e dalle colonne de La Provincia: «L'uomo totalmente in balia di un potere scientifico e tecnologico, sottomesso ad un pensiero unico e omologante, è già ridotto ad oggetto che si può costruire e sopprimere. Siamo alla vigilia dell'eutanasia». Bingo.Chi non condivideva il suo pensiero, strumentalizzando l'amicizia con Gianfranco Miglio lo additava a leghista; in realtà erano stati colleghi docenti all'Università Cattolica di Milano. Il monsignore smentì l'accusa con un ragionamento ancora una volta poco ecumenico, anzi orgogliosamente da prima pagina: «Quella del vescovo leghista è una fola inventata da uomini dalla fantasia sfuocata. Non riuscirei ad essere leghista almeno perché ho il culto di una lingua italiana passabilmente elegante». Un giorno anche noi lo abbiamo fatto arrabbiare. Accadde quando, a fine 2006, cominciarono a spargersi i rumours sulla sua successione. Avevamo saputo direttamente da un noto vaticanista al seguito di papa Joseph Ratzinger che a prendere il suo posto in diocesi sarebbe arrivato Diego Coletti. Per la città la notizia era importante, di quelle con il bollino rosso. Facemmo qualche verifica - la covammo per qualche giorno come si dice in gergo - e infine la pubblicammo.Commettemmo un errore perché l'annuncio doveva darlo lui e solo lui, durante una cerimonia o una conferenza stampa. La Chiesa non è solo sostanza, è forma. E il protocollo non è solo rispetto di una consuetudine, ma applicazione della volontà divina. Non avevamo saputo resistere alla regola giornalistica dello scoop. Lui si inalberò, tuonò al telefono e fu del tutto inutile ricordargli che era stato il primo a indicarci la via della verità. Poi quel sacerdote moderno e giovane ci perdonò con una battuta disarmante: «Non è stata colpa vostra, ma di noi preti. Non sappiamo tenere un segreto perché siamo pettegoli».
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