2018-08-27
«Le privatizzazioni un disastro. Ora meglio vietare i profitti»
Il prof Giulio Sapelli: «Giù le mani da Paolo Savona, il caso Aspi emblema delle abbuffate targate Romano Prodi & Co». E dice: «Rinazionalizzare? Piuttosto obbligare il concessionario a reinvestire tutto».«Possibile che ci si scanni da formiche rosse contro formiche nere, come direbbe Guido Gozzano?». Il disastro arriva da lontano e per osservarlo con profondità bisogna guardarlo con un binocolo da marina e con gli occhi dell'esperienza. Sotto il ponte di Genova crollato sono finite anche le privatizzazioni all'italiana per non dire all'amatriciana, delitto perfetto di Romano Prodi e del centrosinistra da sacrestia negli anni delle abbuffate di Stato. La lente per giudicare l'operato delle formiche è quella di Giulio Sapelli, economista, già docente di storia economica all'Università statale di Milano, membro dell'International board dell'Ocse, premier mancato del governo M5s-Lega per un soffio («Mi cercarono loro»). «Dalla tragedia in poi ho sentito solo parolacce come caducazione», riflette Sapelli, che qui ricorda la stagione delle svendite a plusvalenza pazzesca, spiega la cleptocrazia, il grande equivoco di Mani pulite, i riflessi condizionati della sinistra finanziaria, le penombre del Britannia. Ha anche un paio di consigli per Romano Prodi, per chi governa («Indietro non si torna, serve un'idea nuova») e per chi ritiene di comprendere le curve dell'economia digitando Wikipedia.Professor Sapelli, le privatizzazioni sono entrate nel mirino. Ricorda quella stagione?«Fui protagonista passivo, ero nel consiglio dell'Eni che stava per essere privatizzata su proposta del professor Umberto Colombo. Posso dire che non sono state fatte come il professor Giuseppe Guarino e più umilmente io pensavamo. Dovevano essere molto diverse da quelle orchestrate da Prodi».Interessante, scenda nel dettaglio.«Prodi se le intestò, le realizzò sotto la regia di Giulio Andreatta, uomo con fama inversamente proporzionale alla caratura. Poi a gestirle a livello politico fu soprattutto Giuliano Amato. Fu lui a fallire in un'operazione chiave: accanto alle privatizzazioni non ci fu regolazione, non ci fu vera liberalizzazione. Si spacchettò e basta, si fecero spezzatini con valore finanziario e non industriale».Ci regali qualche esempio per capire. «Sto seguendo la vicenda Ilva. Ma allora perdemmo Bagnoli, perdemmo Italsider; avevamo la siderurgia a ciclo integrale migliore del mondo. Certe privatizzazioni furono un mezzo disastro, ma ormai è andata e qui dovremmo parlare di autostrade».Facciamolo, è il cuore della polemica.«Ci si liberò di un valore enorme in termini infrastrutturali senza alcuna regolazione, senza istruzioni per l'uso, lasciando al concessionario ogni vantaggio. Le spiego. Per Eni ed Enel si creò l'Autorità dell'energia. Per le telecomunicazioni, anche se con grave ritardo, arrivò l'Agcom. E poi Consob, Antitrust. Le autostrade furono privatizzate nel 1994 ma l'Autorità trasporti fu creata nel 2011 e resa operativa due anni dopo. In quell'enorme vuoto è capitato di tutto». Cosa significa, di tutto?«Il governo Prodi concede vantaggi ai Benetton con la prima riforma nel 2007, Berlusconi peggiora le cose nel 2009. Conferire un bene nazionale a concessionari che possono essere rimborsati per la mancanza di profitti è assurdo». Troppi vantaggi ai Benetton? «Davanti a ciò che è successo non mi piace infierire, eravamo tutti grandi quando ci furono gli anni di piombo. Dico che lo Stato ha costruito le autostrade e le ha gestite, con manutenzioni accurate, fino al 1994. In Italia c'è stato il miracolo economico, qualcosa come sistema Paese sapevamo pur fare».Col senno del poi meglio non privatizzare?«Il monopolio pubblico è sempre migliore del monopolio privato, diceva il grande Maffeo Pantaleoni. Ci furono errori grossolani, come svendere le telecomunicazioni, proprio in Italia dove era stata inventata la telefonia mobile. Stendiamo un velo pietoso». E invece parliamone.«Avevamo Telecom con il suo background e la sua storia. Avevamo Infostrada e Omnitel uscite dal genio di Adriano Olivetti. Ben tre compagnie: due le abbiamo vendute a Mannesmann attraverso Carlo De Benedetti con una plusvalenza mostruosa per lui. La terza finì con una scalata a debito sulla Telecom, e quel debito pesa ancora oggi su ciò che resta dell'azienda. Tutto pazzesco, ma il vento era quello».Un Paese in balìa del vento?«Sembra incredibile ma l'Italia era condizionata da una vulgata negativa, antindustriale. Il libro Razza padrona di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani spopolava, pur pieno di ingiurie e accuse fumose. In quegli anni tutto ciò che era pubblico doveva per forza essere corrotto. Ricorda Camilla Cederna?»Cosa c'entra l'affare Giovanni Leone?«Un presidente della Repubblica fu costretto a dimettersi per le menzogne di una signora molto chic alla quale sono stati intitolati i giardinetti davanti alla mia università a Milano. Il clima era quello. Il bel libro di Gianluigi Da Rold, Il grande bottino, spiega tutto. Quel clima portò allo spacchettamento vergognoso della Sme. Potevamo avere il più grande gruppo privato alimentare italiano e invece si liberalizzò per gli amici con un'allocazione politica e finanziaria. C'era una cordata tutta italiana con Berlusconi e Barilla da una parte, ma per Prodi non era quella giusta. Si fecero arrivare prima De Benedetti e poi i francesi». Non si può dire che la politica non fosse chiacchierata.«Nel 1994 ho scritto Cleptocrazia, tradotto in tutto il mondo ma ristampato in Italia solo un anno fa. La corruzione non arrivava dalla politica, ma dalla grande impresa. Le pare che un industriale top si facesse vessare da un assessore di Torino? Era esattamente il contrario. La vulgata del «tutti ladri» deriva da Mani pulite. La narrativa del pubblico=inefficienza e corruzione fu una vittoria ideologica ma una sconfitta per il Paese perché in Italia abbiamo una insopprimibile volontà di farci del male. Macché razza padrona; se penso a quanto guadagnava Biagio Agnes rispetto a quello che guadagnano i manager di oggi, mi viene da ridere. Lui in una vita, questi in un anno». Siamo finiti lontano dal ponte crollato e dalle autostrade incriminate.«Avverto molta indignazione e sento parlare di revoca, di caducazione. Indietro non si torna e al governo dico: ragazzi, inventatevi qualcosa di moderno. Ciò che è successo è così terribile che non ci si può limitare a nazionalizzare. Serve qualcosa di diverso, per esempio un Not for profit».Cosa sarebbe?«La concessione non deve avere come obiettivo il profitto. Oggi fra cambiamenti climatici, rischi geologici, ammodernamenti tecnologici, servono sistemi avanzatissimi, sensori collegati a computer, satelliti. È follia pura quotare in Borsa una società che gestisce le infrastrutture. Tutto quello che guadagna lo deve reinvestire nell'innovazione, nella manutenzione, nella sicurezza».Non c'è il rischio di tornare a un poltronificio?«Proprio no. Per gestire la concessione basterebbe un officer, un civil servant. Niente cda e tutti gli utili reinvestiti in sicurezza. Lo proposi quando nel 2004-2005 ero presidente delle Autostrade lombarde; non se ne fece nulla. Il sistema fu teorizzato da Elinor Ostrom, la geniale economista americana che vinse il Nobel nel 2009. E l'esempio pratico era la Florida, dove si lavorava per applicarlo. La Florida, non l'Unione sovietica».È curioso che oggi la sinistra sia per il superprivato e la destra per il pubblico.«Errore, mio caro. Questa sinistra non è filo mercato, è filo finanza. A tifare per un mercato non regolato sono i campioni del liberismo dei diritti senza doveri. La destra storica nasce dall'industria e anche la sinistra vera era industrialista, perché in fabbrica stava l'epopea della tuta blu. Questa invece è una sinistra rosa uscita dai miasmi e dai liquami del Sessantotto, che ha rinunciato all'orgoglio operaio».Romano Prodi non perde occasione per gettare ombre su Paolo Savona.«Mi chiedo come si permetta Prodi. Lui che del professore ha solo il titolo mentre Savona lo è davvero. Prodi ha scritto un solo libro, sul distretto delle ceramiche di Sassuolo, edito dal Mulino, in cui tra l'altro ne preconizzava la fine. Savona invece è un grande economista e tale rimarrà. Altra categoria».Si è tornati a parlare del summit del 1992 sul Britannia, yacht della regina d'Inghilterra, prodromo delle privatizzazioni. Intrigo internazionale?«Quella è una storia vera. È normale che un gruppo di investitori internazionali, resisi conto che ci sono molti soldi da fare magari eliminando dei concorrenti, partecipino a una riunione così. Adesso si chiamano convention, eventi in cui i policy maker incontrano gli economy maker. C'era chi sgomitava per farsi invitare, sul Britannia». Proprio tutti a bordo?«Allora l'unica che si salvava era Mediobanca, che di fronte a questa orgia manteneva un certo profilo distaccato. Perché stupirsi? Di Britannia ce ne saranno stati centomila. Nell'Argentina di Carlos Menem - Paese che aveva costruito migliaia di chilometri di strade ferrate e ora non ne possiede più neppure un metro - c'era un Britannia al giorno. Ma concentrarci su questo significa evitare di affrontare il problema, vivere di fantasmi e mettere tutto sotto la solita cappa con il rumore di manette».All'estero non hanno privatizzato alla carlona come da noi. «Sono stati più attenti e lo sono ancora, in generale sul tema c'è un profondo ripensamento. La Francia ha privatizzato pochissimo e ha conservato i suoi grandi gruppi. Anche la Germania non ha seguito il mood, soprattutto nel sistema bancario. Le Sparkasse, casse di risparmio, sono nazionali; in più lo Stato ha nazionalizzato due volte la Commerzbank. E adesso dovrà nazionalizzare la Deutsche bank, che è tecnicamente fallita».Professor Sapelli, cosa dire ai difensori del libero mercato a tutti i costi?«Consiglierei loro di smetterla di parlare di populismo e sovranismo. Lo fanno per tenere la gente sotto una coltre grigia, supportati dai loro quotidiani che hanno un ruolo negativo; non suscitano dibattito ma si limitano all'invettiva. Eppure ci sarebbe una domanda decisiva da porre».Quale?«Cosa ci è mai passato per la testa? Perché siamo caduti vittime di questa grande illusione delle privatizzazioni? Tornare al passato non ha senso, bisogna pensare in modo nuovo. Costerà tantissimo, ma le risorse vanno investite in sicurezza, unico sacro bene comune di un Paese moderno». Not for profit, come mai non ne parla nessuno?«È tutto scritto, ma oggi politici e imprenditori non leggono. Un tempo ci si confrontava e si approfondiva; oggi noi esperti siamo in esilio e i politici discutono di ciò che trovano su Wikipedia. In fondo all'arcobaleno, dentro la pentola d'oro, è sempre una questione di cultura».
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