2019-11-25
Le leggi al palo. 696 norme approvate ma ferme perché da anni non ci sono i decreti
Dalla riforma della polizia al sostegno ai disabili, dall'antiriciclaggio alla lotta ai prestanome: ecco tutti i provvedimenti rimasti lettera morta perché i vari governi se ne sono disinteressati. «Preferiscono norme fatte in fretta e rimandare i problemi a un domani». L'ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli: «I politici sfruttano l'effetto annuncio per mostrare che mantengono le promesse. Se le questioni si complicano, si rinvia a un testo successivo. E se non arriva, nessuna sanzione». Lo speciale comprende due articoli. Leggi non ancora applicabili, in attesa di diventare operative perché mancano i decreti attuativi. Abbiamo centinaia di provvedimenti, approvati dal Parlamento, fermi da anni. Rimangono solo sulla carta, belle intenzioni come il promesso taglio fiscale della manovra di bilancio 2020 che, al contrario, ci riserverà nuove tasse. A metà ottobre, secondo gli ultimi dati pubblicati dall'Ufficio per il programma di governo, i decreti che ancora mancano all'appello sono 287 tra Conte uno e Conte due, oltre ai 409 eredità della XVII legislatura: in tutto 696. Per leggi risalenti al governo Renzi si tratta di 135 decreti, 262 quelli lasciati dal governo Gentiloni, 12 dall'esecutivo Letta. Gli arretrati erano 677 a luglio 2018, qualche cosa si è fatto ma il fardello di regolamenti ancora da predisporre resta pesantissimo. Per ogni misura introdotta, infatti, servono norme che definiscano tecnica, attuazione, limiti delle leggi per dare loro piena operatività. Un secondo tempo complesso, un lavoro extraparlamentare macchinoso che accompagna i decreti attraverso diversi ministeri e agenzie competenti, protocolli d'intesa, linee di indirizzo, deliberazioni Cipe, in un arco di tempo anche lunghissimo. Nel frattempo possono «perdersi» nei corridoi o scadono i termini entro il quale devono essere adottati. Per avere un'idea, considerando gli 80 provvedimenti legislativi pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dal 1° giugno 2018 al 4 settembre 2019, di questi 43 sono «auto applicativi» (non prevedono il rinvio a misure attuative), 37 richiedono 367 regolamenti dei quali solo 81 sono stati predisposti, mentre 286 (di cui 114 con termine scaduto) sono in attesa di essere attuati. A giugno, il network Openpolis segnalava che dal 2014 al 2019 le leggi di bilancio approvate sono tutte incomplete. Al di là dei numeri, i decreti attuativi in sospeso, sommati a quelli dei precedenti esecutivi, rendono non fruibili progetti di legge necessari, dovuti o anche solo sbandierati per opportunismi politici, ma che dopo aver superato il consenso di Camera e Senato restano lettera morta. I cittadini pensano siano disposizioni in vigore, invece rimangono in un limbo sconosciuto ai più. Scopriamo così che il riordino dei ruoli delle forze di polizia del 2017 è ancora in attesa di 15 decreti attuativi, di 5 decreti la legge sugli interventi in materia di antiriciclaggio, di 4 il reddito di inclusione e contrasto alla povertà, di 4 la promozione dell'inclusione scolastica degli alunni con disabilità, di 7 il codice dell'amministrazione digitale. Un decreto legge del 2009 coinvolgeva il Pubblico registro automobilistico (Pra) nell'individuazione dei finti poveri, obbligandolo a segnalare ad agenzia delle entrate, guardia di finanza e alla regione competente la singola persona fisica che risulti proprietaria di 10 o più veicoli. Un anno dopo furono vietate per legge le intestazioni simulate. Però continuano a mancare i decreti attuativi, il risultato è che nel nostro Paese circolano 97.000 auto intestate a prestanome, utilizzate anche per scopi criminali. L'elenco è lungo e desolante di norme invocate, promesse in campo sociale, economico, in aree tematiche che vanno da ordine pubblico e sicurezza a infrastrutture, da sanità ad ambiente. Non sono applicate per l'inefficienza degli esecutivi, vanificando così il lavoro parlamentare. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/le-leggi-al-palo-696-norme-approvate-ma-ferme-perche-da-anni-non-ci-sono-i-decreti-2641445719.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="preferiscono-norme-fatte-in-fretta-e-rimandare-i-problemi-a-un-domani" data-post-id="2641445719" data-published-at="1758062738" data-use-pagination="False"> «Preferiscono norme fatte in fretta e rimandare i problemi a un domani» Ansa Carlo Cottarelli ha tentato (invano) di tagliare gli sprechi italiani per 4 mesi con il governo Letta e 8 mesi con il governo Renzi. Ora insegna alla Bocconi, dirige l'Osservatorio sui conti pubblici all'Università Cattolica e prova anche a semplificare la giungla legislativa. Perché non si fanno leggi senza decreti attuativi? «I motivi sono molteplici. Il principale è che si legifera in fretta perché, si dice, “il resto lo chiariremo più tardi"». Oggi certe leggi vengono approvate «salvo intese». «Il “salvo intese" esisteva anche prima dei governi Conte, anche se ora è diventato molto più comune. Nella legge di bilancio, per esempio, si infilano tanti provvedimenti e poi si pensa a come fare. A volte esistono anche motivi pratici, per evitare che ogni dettaglio dei provvedimenti venga sottoposto al Parlamento. C'è poi il problema che in Italia entrano nelle decisioni vari soggetti e spesso determinare chi deve entrare viene rimandato a un momento successivo. Talvolta è inevitabile». Ma a furia di alleggerire la fase parlamentare, i decreti languono. «È anche vero che certe leggi vengono fatte soltanto per sfruttare l'effetto annuncio. Si guadagna visibilità immediata, poi la cosa si rivela molto più impegnativa di quanto si è voluto fare apparire e si rimanda il resto ancora una volta». La legge usata come specchietto per le allodole? «Come manifesto per annunci politici». Per esempio? «Si mette una scadenza che però non è imperativa e non succede niente se non viene rispettata. Quando ero commissario per la spesa, nel 2014, fu approvata la riforma degli acquisti con il decreto legge 66, che prevedeva una serie di scadenze. Da ingenuo, mi ero preparato una tabella con le date entro cui varare i decreti di attuazione. Poi ho capito che quelle scadenze non erano poi così ferree». E addio scadenzario. «Mi dicevano: non importa se si è in ritardo sulla tabella di marcia, tanto non ci sono conseguenze». In questi ritardi la responsabilità è della politica o della burocrazia ministeriale? «È un insieme. La responsabilità politica è sempre presente: se l'apparato non si muove in certi tempi, allora spetta al politico farli rispettare. Però mi sono reso conto che a volte si fissano scadenze troppo stringenti». Perché non darsi i tempi giusti? «Per fare vedere che si fanno le cose rapidamente». Non c'è anche un tema di semplificazione legislativa? «Sì: è il vero tema dell'Italia. Si esagera sul numero di leggi esistenti: si parla di 150.000 leggi vigenti mentre, secondo una stima più adeguata, le leggi statali oggi in vigore sono circa 10.000, più o meno come in Francia. Però noi abbiamo anche 27.000 leggi regionali che in Francia mancano. Nel Regno Unito le leggi vigenti sono circa 3.000. La stessa complicazione vale per le tasse». In che senso? «C'è un elenco Istat con circa 110 tributi e ognuno di questi ha una sua procedura, una scadenza, un metodo per calcolare la base imponibile. La tortuosità del nostro sistema non deriva dall'avere 1 o 5 aliquote Irpef, ma dalla giungla della normativa, tributaria e non, che imbroglia tutto e frena gli investimenti. Da anni le imprese segnalano che l'eccesso di norme e burocrazia è uno dei motivi per cui esse investono meno». Nel suo ultimo libro, Pachidermi e pappagalli, lei dice che il reddito pro capite è fermo da almeno 20 anni: il caos normativo è uno degli elementi che frena? «Sicuramente. Le piccole e medie imprese ogni anno spendono circa 33 miliardi per compilare moduli. Stima ufficiale fatta dal Dipartimento della funzione pubblica della presidenza del Consiglio». È un valore superiore alla legge di bilancio in approvazione. «Come termine di paragone, la tassa sui profitti di tutte le società in Italia vale sui 32 miliardi e il costo dei moduli è di 33 miliardi solo per le piccole e medie imprese. Di fatto è un'altra imposta. Sono cose che riducono la nostra competitività perché le imprese tedesche non hanno questi costi da affrontare». Per sbloccare questa situazione che cosa ci vuole? Quale dev'essere il primo motore del cambiamento? «Dovrebbe essere il cittadino che deve eleggere politici che facciano certe cose. Però in Italia è più facile vincere le elezioni promettendo non la riforma della burocrazia, ma il reddito di cittadinanza e quota 100». Però il cittadino fa fatica a scegliere se non ha una proposta adeguata. «Ci vuole anche il politico che abbia il coraggio di impegnarsi a fare funzionare meglio l'apparato burocratico, o avere una giustizia civile che funziona. Queste cose sarebbero alla base del funzionamento dello Stato, e invece vengono superate dalle promesse di elargizioni varie». Accanto al suo Osservatorio sui conti pubblici, non ha mai pensato ad aprirne uno sul caos normativo? «In parte ci occupiamo anche dei problemi della burocrazia. Ora stiamo lavorando con alcuni imprenditori del Nordest, con l'Associazione costruttori edili e le associazioni degli operatori turistici a una proposta per ridurre la burocrazia».