2018-10-15
Le idrovore dei consorzi di bonifica succhiano soprattutto soldi (nostri)
Questi enti, fondati dal fascismo, devono curare e provvedere alla manutenzione dei corsi d'acqua minori. Costano 650 milioni di euro l'anno ai contribuenti che non li hanno mai visti all'opera. Intanto esondazioni e alluvioni non si contano più e sono continue le battaglie dei cittadini, come quella scoppiata a maggio di quest'anno a Firenze. L'ultima battaglia è scoppiata nel maggio 2018: «Fiorentini, non pagate i bollettini del Consorzio di bonifica Medio Valdarno: è un ente che non serve, perché la regimazione dei fiumi spetta alla Regione». L'appello alla disobbedienza fiscale di Mario Razzanelli, consigliere comunale di Forza Italia a Firenze e locale nemico pubblico numero 1 del consorzio, non è caduto nel nulla. In città, cinque mesi fa, erano appena atterrati 180.000 bollettini di pagamento: grosso modo un terzo di quelli spediti in mezza Toscana a 5-600.000 proprietari di casa. Ognuno di quei bollettini pretendeva, a seconda del destinatario, da poche decine a svariate centinaio di euro che il consorzio richiede come contributo al «finanziamento dei lavori 2017 per la manutenzione delle opere idrauliche e dei corsi d'acqua che attraversano le città di Empoli, Firenze, Pistoia, Prato, le campagne della Valdelsa, del Mugello, della Valdisieve, del Chianti, delle vallate dell'Ombrone pistoiese e dei Comuni a nord di Siena».Come Razzanelli, a Firenze e dintorni, in molti non vogliono pagare. «Io ho fatto ricorso alla commissione tributaria», spiega il politico, che protesta indignato: «Che cosa viene fatto davvero, con i soldi che vogliono? Nel bilancio del consorzio leggo che, su 25 milioni di euro incassati, solo 11 vanno alla manutenzione ordinaria dei corsi d'acqua, mentre 14 finiscono a non meglio identificati servizi, compresi gli 8 milioni in stipendi ai dipendenti, molti dei quali amministrativi». Sono seguiti inviti alla resistenza fiscale, perfino alla class action. La lotta, insomma, continua. Benvenuti nell'ultima grande guerra italiana, quella che a diverse latitudini della Penisola viene combattuta contro i consorzi di bonifica. In base a due regi decreti, uno del 1904 e uno del 1933 (per intenderci: anno XI del fascismo), i consorzi sono gli «enti a carattere associativo che gestiscono il complesso delle opere di bonifica e di irrigazione finalizzate alla difesa idraulica del territorio, all'irrigazione dei terreni agricoli e alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio». Descritti spesso come carrozzoni mangiasoldi carichi di personale, i consorzi di bonifica nella scorsa legislatura sono stati al centro di vari progetti di legge, che cercavano di ridimensionarli. Daniele Capezzone, del gruppo misto, aveva proposto fossero sciolti, trasferendone le funzioni alle Regioni. Non se n'è fatto nulla. Del resto sono così tanti, i consorzi, che è incerto perfino il loro numero: nel 2008, quando una riforma operò una generale ristrutturazione, il totale calò da 198 a 134. A Roma c'è un'associazione, l'Anbi, che ha lo scopo di «rappresentare e tutelare gli interessi dei consorzi di bonifica, di irrigazione e di miglioramento fondiario», e com'è ovvio difende a spada tratta la categoria ricordando che i suoi aderenti (per confermare i dubbi sul loro numero, secondo l'Anbi oggi dovrebbero essere 149, ma sullo stesso sito Internet dell'associazione se ne contano 145) operano sul 59,5% del territorio itliano, amministrando in totale 181.313 chilometri di canali, 754 impianti idrovori e 9.233 chilometri di argini. L'Anbi rintuzza le critiche e difende «un lavoro continuo e fondamentale, anche se spesso misconosciuto», che protegge case e terreni. «Per questo il contributo va pagato», dicono all'associazione, «e poi non è nemmeno una tassa, ma l'unica forma di finanziamento per la manutenzione ordinaria di una fitta rete di vie d'acqua». Messi insieme, questo è chiaro, i consorzi formano una potente lobby. I contributi che incassano ogni anno, del resto, non sono poca cosa: circa 650 milioni. Ai quali si aggiunge una massa di investimenti (altre centinaia, di milioni) che Stato o Regioni affidano alla loro gestione per nuove opere o per manutenzioni straordinarie. Pochi giorni fa, per esempio, il ministero dell'Agricoltura ha varato 19 progetti di nuove infrastrutture irrigue (sei in Veneto, quattro in Emilia, e uno a testa in Lazio, Sicilia, Piemonte, Campania, Marche, Friuli, Calabria, Lombardia e Abruzzo) per 284 milioni.Quel che è certo è che ci sono consorzi che funzionano meglio, altri peggio, mentre altri ancora proprio non funzionano e vengono commissariati. In un'audizione di fine luglio alla Camera dei deputati, gli stessi vertici dell'Anbi hanno dipinto un quadro positivo nell'Italia settentrionale, mentre al Sud hanno descritto una situazione spesso appesantita da commissariamenti e nomine politiche.In Sicilia, per esempio, dove fino al 2015 erano 11 e poi sono stati ridotti a due, oggi entrambi i consorzi sono commissariati. Così i loro 2.500 dipendenti fissi, più una quantità di turnisti e stagionali, costano oltre 60 milioni l'anno senza un vertice da cui dipendere. Già nel 2015, peraltro, l'allora assessore regionale all'Economia, Alessandro Baccei, del Pd, minacciava di spedire un dossier alla Corte dei conti pur di «sapere quanto i consorzi spendano davvero, e quanto incassino». Da allora, le giunte sono passate come l'acqua sotto i ponti, ma i dati non sono usciti.In effetti, la sovrabbondanza di addetti è tra le caratteristiche più negative dei consorzi. Perché forse non tutti hanno un bilancio ricco come quello del Medio Valdarno, contro cui c'è chi a Firenze combatte, ma il suo organico è interessante da indagare: a fine 2017 il consorzio aveva un direttore generale, quattro dirigenti, 16 quadri intermedi e 134 dipendenti a tempo indeterminato (il cui costo del lavoro complessivo l'anno scorso è arrivato a 7.691.423 euro), più sei addetti a tempo determinato (altri 209.178 euro). In totale, però, gli «operativi» sono solo 49: poco più di uno su tre. Ma i problemi, e le guerre, non si limitano a bilanci e organici. Perché ogni consorzio di bonifica ha un consiglio d'amministrazione, alla cui elezione dovrebbero partecipare tutti i proprietari d'immobili o di terreni nel suo territorio. E anche qui si combatte: lo scorso 4 settembre, per esempio, si è votato per i 20 nuovi consiglieri del Consorzio di bonifica dell'Emilia centrale e alle urne sono stati chiamati i 252.500 contribuenti. Il problema è che hanno votato su base censuaria, e con regole astruse. Per l'esattezza: i 176.300 che pagano un contributo di bonifica fino a 40,23 euro hanno eletto quattro consiglieri; i 70.600 che pagano da 40,23 a 391,51 euro ne hanno eletti sei; i quasi 5.000 che pagano da 391,51 a 2.092,53 euro ne hanno eletti cinque; e infine i 709 presunti latifondisti che versano oltre i 2.092 e rotti euro hanno eletto cinque consiglieri. Ognuno dei voti di questi ultimi, insomma, valeva quasi 250 voti dei primi.Nella guerra dei consorzi, è inevitabile, la bandiera che più garrisce al vento è quella dei contributi. Il dubbio di chi non vuol pagare, del resto, pare legittimo: la manutenzione e la messa in sicurezza dei corsi d'acqua fanno capo a Stato e Regioni, oppure ai Comuni. Che ci stanno a fare i consorzi? La Confedilizia che rappresenta i proprietari di casa e quindi molti degli 8 milioni di contribuenti dei consorzi, da anni contesta il balzello. Del resto, le case spesso sono obbligate al contributo solo perché si trovano in aree bonificate in tempi remoti: anche se i loro proprietari non ne traggono alcun vantaggio concreto, e anche se non si scorge più alcuna attività di bonifica o di manutenzione. Il contributo, sostengono i nemici dei consorzi, non solo è sopravvissuto a tutte le riforme fiscali, ma si è dilatato e colpisce anche chi abita in normali appartamenti di città. Quanto ai compiti svolti, beh, qui i nemici dei consorzi spesso hanno gioco facile. Basta un'occhiata alle cronache recenti. Prendiamo la Calabria, per esempio, il cui territorio è suddiviso tra 11 consorzi, ma dove il dissesto idrogeologico è un problema da decenni. Gli ultimi tre mesi di acqua hanno causato drammi: dieci morti il 20 agosto, nelle gole del Raganello inondate dal Pollino, mentre il 5 ottobre il torrente Cantagalli ha fatto altre tre vittime, una madre con due bimbi. Per non parlare dei disastri subiti in tutta la regione dall'agricoltura e dall'ambiente. Loro, i consorzi e l'Anbi, rispondono che i fiumi esondati in Calabria «non sono di nostra competenza», perché questa si limita «al reticolo idraulico minore». E in effetti l'unico grande fiume italiano gestito (in parte) dai consorzi è l'Arno. Però l'Associazione degli alluvionati del 15 agosto 2015, che da tre anni a Rossano e Corigliano lamentano di non essere mai stati indennizzati, oggi protestano anche di fronte ai nuovi disastri idrici calabresi perché, dicono, «né la Regione né i consorzi fanno nulla» e reclamano «almeno l'ordinaria manutenzione». Protestino pure. Tanto, di ordinario, c'è soprattutto il contributo.
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