2019-04-11
Le gesta criminali del branco di Rimini diventano un docufilm choc
«Sirene», su Nove, ricostruisce lo stupro attribuito a Guerlin Butungu e ai suoi complici minorenni, che insanguinò l'estate del 2017.«Se avessi dovuto pensare che sarebbe successo sulla mia pelle, io…». La frase è lasciata per aria. Un gesto della mano la conclude, come a scacciare via un brutto pensiero. Roberta Rizzo, sovraintendente capo della questura di Rimini, sorride debolmente alla telecamera, gli occhi incerti su dove posarsi. Il viso, stiracchiato in un'espressione di scuse, lascia trasparire il dolore, l'orrore conosciuto nell'estate 2017, quando la tiepida pace delle notti in spiaggia è stata rotta dal «branco». Così, allora, era chiamata la gang di Guerlin Butungu, il congolese ventenne che, secondo due sentenze, insieme a tre ragazzini africani, di età compresa tra i 14 e i 17 anni, si sarebbe avventato su una coppia di turisti polacchi, picchiando e stuprando con «violenza inaudita». Nel documentario di Nove, parte di quel ciclo, Sirene, atto a ricostruire i più controversi e discussi casi di cronaca recente, la parola che più ricorre è «brutalità». «Ferocia». «Inaudita». A mezza voce, la pronuncia chiunque abbia bazzicato Rimini nei giorni successivi al fatto, senza curarsi di celare lo strascico emotivo che, ancora, si porta appresso.Roberta Rizzo, sul viso, ha dipinta la propria repulsione, di donna e agente. Una repulsione che, identica, torna sul viso di chi abbia accettato di ricostruire il caso insieme alle telecamere di Nove e Verve Media Company. Il network di Discovery, insieme alla casa produttrice italiana, ha confezionato Rimini, La Notte del Branco, uno speciale che, in onda questa sera alle 21.25 su Nove, e disponibile su DPlay nei giorni a venire, ripercorre le indagini dell'estate 2017. A comparire, sul piccolo schermo, sono Roberta Rizzo e Massimo Sacco, dirigente della squadra mobile della Questura di Rimini. È Luciano Baglioni, sostituto commissario, Alfredo Fabbrocini, dirigente della II divisione dello Sco (Servizio centrale operativo). L'idea di Discovery, difatti, è quella di tenersi a distanza dalla pornografia delle carte, delle ricostruzioni guidate dalla voglia morbosa di carpire chissà quali dettagli. «L'unicità di Sirene è rappresentata proprio dall'utilizzo della ricostruzione autentica effettuata con i reali protagonisti di casi di cronaca drammatici e rilevanti come quanto accaduto a Rimini», spiega alla Verità Lorenzo Torraca, produttore di Verve. «Questa struttura narrativa permette allo spettatore di gettare uno sguardo autentico, inedito e assolutamente veritiero sui fatti per come si sono svolti e permette di riflettere il reale punto di vista di coloro, donne e uomini in divisa, che hanno indagato alla ricerca della verità. Il punto di vista unico, dunque, è quello di chi ha indagato. Cosa, questa, che insieme all'utilizzo in montaggio dei tanti materiali originali ed esclusivi d'indagine consente un racconto di taglio cinematografico, cifra e particolarità di Sirene», un ciclo che, nei mesi passati, ha saputo raccontare la mafia nigeriana e restituire la tragedia del piccolo Lorys. Rimini, La Notte del Branco, come spiegato da Torraca, si addentra, quindi, nel lavoro della polizia. Un lavoro meticoloso, sulla cui utilità la televisione ha spesso tessuto trame romanzate.La scientifica, le prove, gli interrogatori condotti in qualche stanza asfittica. La liturgia del poliziesco, da Csi a Montalbano, ha avuto la propria fortuna. E ci si è, in qualche modo, abituati a credere che funzioni proprio così: che esista un poliziotto buono e uno cattivo, e che la soluzione se ne stia lì, buona e placida in attesa di essere portata allo scoperto. Sirene, invece, e nello specifico il documentario realizzato sullo stupro di Rimini, ha il merito di ricordare quanto sacrificio, quanta sofferenza, professionale e umana, si nascondano dietro l'attività della polizia. Un'attività necessaria che, con sé, non porta «alcuna gioia». L'epilogo di quella settimana di ricerche, condotte grazie alla collaborazione di una prostituta transessuale peruviana, aggredita, secondo i giudici, dalla gang di Butungu dopo la coppia polacca, si è avuto nell'arresto dei quattro africani. «C'è stata la sensazione di essere utili, perché in qualche modo si è data giustizia a chi ha tanto sofferto», dice Fabbrocini, il tono rassegnato, alle telecamere di Nove. «Però, non c'è gioia. C'è soddisfazione. Soddisfazione perché si è dato un senso alle scelte di vita che sono state fatte da ognuno di noi tanti anni fa», prosegue con lo stesso tono piatto, un po' flemmatico, di chi sa di non poter dimenticare. Non la brutale gratuità con cui è stata violentata la turista polacca, non le ricerche che, dal Lungomare Spadazzi alla Strada Statale Adriatica, hanno portato lui e la mobile di Rimini a piantonare ogni angolo, alla ricerca di telecamere ed indizi. Non, infine, il tono del medico del pronto soccorso che, agli inquirenti, ha detto: «Quel ragazzo è irriconoscibile». «Nel momento in cui la storia finisce, i processi si esauriscono, le condanne sono definitive, ricostruire quel che è successo con i personaggi reali, i suoi luoghi veri, con i protagonisti che parlano è un modo per liberarli da quel senso di oppressione che all'epoca c'è stato. È un modo di liberare la parte fragile, del sentimento umano che anche l'investigatore ha», chiude Maurizio Improta, che di Rimini, fino al 25 marzo 2019, è stato questore.