2019-10-13
Le civiltà possono crescere libere solo grazie a muri, barriere e confini
Il saggio dell'autorevole storico David Frye spiega perché le società più protette da attacchi esterni sono riuscite a prosperare e creare gli stessi valori umanitari di cui oggi si riempiono la bocca i «no borders».Costruite ponti, non muri. La frase rimbalza ovunque, da qualche anno. La ripetono a oltranza i profeti dell'accoglienza, la sentiamo nelle prediche della domenica, è diventata pure il titolo di un libro firmato da tre celebrità del mondo cattolico: Enzo Bianchi, Nunzio Galantino e Gianfranco Ravasi. Il muro è divenuto una sorta di simbolo del sovranismo più gretto: da Donald Trump in giù, il costruttore di muri è descritto come un essere disumano, con il cuore arido e l'egoismo alle stelle. Eppure, senza i muri la civiltà non esisterebbe. Senza i muri, non ci sarebbero gli alti ideali di umanità di cui i tifosi delle frontiere aperte amano riempirsi la bocca. E il motivo è piuttosto semplice: i muri proteggono le civiltà, permettendo loro di svilupparsi e prosperare.È un concetto estremamente semplice, di puro buonsenso. Tuttavia, in questa epoca confusa, anche le verità più evidenti devono essere ribadite e difese da chi mistifica per professione. Dunque in difesa dei muri occorre chiamare un avvocato dei più esperti. Non un pericoloso sovranista, ovviamente, bensì uno studioso di fama, presentato come «l'unico specialista a studiare la storia comparativa dei muri di confine». Si chiama David Frye, insegna alla Eastern Connecticut state university, negli Stati Uniti, e ha scritto un robusto saggio intitolato Muri. Una storia della civiltà in mattoni e sangue (Piemme).«Quale importanza hanno avuto i muri nella storia della civiltà?», si chiede il professore. «Pochi popoli civilizzati hanno vissuto al di fuori di essi. Già nel decimo millennio avanti Cristo i costruttori di Gerico circondarono la loro città, la prima al mondo, con un bastione. Col tempo l'urbanizzazione e l'agricoltura si diffusero da Gerico e dal Levante in nuovi territori - Anatolia, Egitto, Mesopotamia, Balcani e oltre - inevitabilmente seguite da muri».A che cosa servivano queste bandiere? A proteggersi, ovviamente. Perché senza protezione la civiltà non poteva difendersi dagli attacchi esterni, né prosperare.Costruisce muri chi ha paura del diverso, dice il ritornello che ci tempesta le orecchie di questi tempi. Ed è arretrato, primitivo avere paura. In realtà, però, muri, barriere e confini saldi producono esattamente l'effetto opposto. «Le civiltà - e i muri - furono creati solo da popolazioni insolitamente timorose?», scrive Frye. «O fu la civiltà a renderle tali?». La paura di cui parla lo studioso è un sentimento sano: il timore di perdere le conquiste della propria civiltà, la paura di perdere il proprio «stile di vita», magari per colpa di un popolo dalle usanze completamente diverse, che ai nostri occhi appaiono barbare.Sentite che cosa spiega Frye a proposito dei muri difensivi: «Nessuna invenzione nella storia dell'uomo ha giocato un ruolo maggiore nel creare e plasmare la civiltà. Senza muri, non ci sarebbe mai potuto essere un Ovidio, e lo stesso si può dire per gli studiosi cinesi, i matematici babilonesi o i filosofi greci».Frye cita lo psicologo Abraham Maslow per chiarire un concetto fondamentale: «La storia ha dimostrato che il senso di sicurezza creato dai muri ha liberato un numero crescente di maschi dalla necessità di fare i guerrieri. Grazie ai muri, hanno potuto dedicarsi totalmente ad attività civili - fare cose, costruirle, pensare, creare - a prescindere dal fatto che siano riusciti davvero ad autorealizzarsi. E rendendo gli uomini disponibili per il lavoro nei campi, i muri hanno liberato anche le donne dalla responsabilità di produrre da sole i viveri necessari al sostentamento».Si potrebbe obiettare: tutto ciò valeva nel passato, oggi non c'è più bisogno di erigere barriere per difendersi. A dirla tutta, le cose non stanno proprio così. Continuiamo ad avere bisogno di confini saldi, e di muraglie - fatte di mattoni o soltanto simboliche - che ci proteggano dalle minacce esterne. L'alternativa è la società che ci viene proposta dal neoliberismo delle frontiere aperte. Oh, certo, apparentemente si tratta di un mondo aperto, dialogante, pacifico. In verità, però, quella ci viene prospettata è una società perennemente insicura, in cui i singoli debbono aggirarsi guardandosi le spalle, perché i pericoli possono venire da ogni dove. Senza un muro a proteggerci, siamo soli ad affrontare le minacce. Il cittadino del mondo senza confini, in realtà, non ha nessuna patria, è completamente isolato, un'isola circondata dal mare in tempesta. L'alternativa alla civiltà dei confini, delle barriere e dei muri è una società apertissima ma continuamente sotto osservazione, il panopticon sui cui è basato il capitalismo della sorveglianza descritto da Soshana Zuboff, ovvero un «movimento che cerca di imporre un nuovo ordine collettivo basato sulla sicurezza assoluta». Una sicurezza che, però, non viene garantita dalle sgradevoli barriere esterne, ma da meccanismi interni sempre più pervasivi, che a un certo punto penetreranno persino all'interno degli individui, monitorando addirittura i loro pensieri e le loro opinioni. I muri che dobbiamo temere, allora, non sono quelli che proteggono le frontiere, bensì quelli invisibili dentro di noi. Quelli che vengono imposti per fermare le idee sgradite dagli stessi difensori entusiasti della «libertà di circolazione».