True
2023-04-17
Le bugie sulla cucina italiana smontate punto per punto
Ansa
Le seconde: «Posso parlare male di loro?». Grandi è descritto come accademico marxista, riluttante celebrità di podcast, giudice di quest’anno alla Tiramisu World Cup di Treviso, carriera dedicata a fare il debunking dei miti sulla cucina italiana, food expert e, da una sua affermazione nel podcast Doi (acronimo del titolo del suo libro «Denominazione di Origine Inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani», Mondadori), persona che deve uscire di casa «con le guardie del corpo, come Salman Rushdie». Considerato che di Rushdie Wikipedia scrive, riguardo al suo primo romanzo di successo percepito come anti indiano e precedente a quello percepito come anti musulmano «I versi satanici», «il successo delle reazioni che incitavano violenza nei confronti delle sue opere produsse molta pubblicità e libri venduti; una formula che ripeté nuovamente», non ci sembra un buon modello per quello che sarebbe uno storico e non uno scrittore di fantasia. Abbiamo ritenuto interessante operare il debunking delle tesi del debunker. Scoprendo che se il marketing, come dice Grandi, può emettere bugie, può anche essere che l’addotta affermazione falsa del marketing in realtà non sia mai stata proferita oppure sì ed è veritiera e che le affermazioni del debunker del marketing, invece, siano false.
Un piatto nato in America? Ma se i suoi antenati sono nel Mezzogiorno...
«Per Grandi, la storia della carbonara racchiude perfettamente l’idea di Hobsbawm di “invenzione della tradizione”», dice la giornalista del Financial Times nell’intervista che ha fatto tanto scalpore. E poi, «per fare un po’ di luce» chiama un 97enne di Morlupo, oltre 30 km da Roma, che le dice: «Forse una volta all’anno mangiavamo l’amatriciana, quando potevamo permetterci di ammazzare un maiale. Ma non avevo mai sentito parlare della carbonara prima della guerra». Io sono romana, non ho mai mangiato la pajata, se sostenessi che siccome io non l’ho mai mangiata e non l’ho mai sentita nominare allora non esiste verrei presa giustamente a pernacchie e sarebbe carino spiegare al nonno testimone che poiché l’amatriciana si fa col guanciale, che si stagiona per conservarlo, non si deve ammazzare un maiale ogni volta che si fa l’amatriciana...
Tornando alla carbonara, è molto più probabile che sia una versione romana di uno dei mille connubi di cacio e uova, o uova e maiale, o addirittura cacio uova e formaggio che sono attestati intorno a Roma, come gli strascinati di Cascia. Ed è facile che sia una versione «on the go» dei carbonai. Perché questa gente doveva mangiare, non è che c’era la mensa. La tesi che la carbonara sia americana deriva dal fatto che la prima ricetta attestata (attestata finora, ma possono esserci attestazioni non ancora ritrovate) sia stata pubblicata nel 1952 in una guida gastronomica di Chicago di Patricia Bronté, nella recensione di Armando’s, che faceva la carbonara. Ma questo Armando era praticamente italiano e cucinava italiano. Era figlio di italiani, nato in Usa, tornato a Lucca fino all’adolescenza e poi riemigrato in Usa. Quindi abbiamo già due elementi che fanno vacillare la tesi cui Grandi si attacca. La prima attestazione è solo una prima attestazione ed essendo la cucina, come la musica e la letteratura, una tradizione in prima battuta pratica e orale, già la ricetta sulla guida di Chicago non dimostra proprio niente. Crolla proprio del tutto, poi, la tesi dell’americanità considerato che Armando è italiano.
La ricetta è reclamata come propria anche dal bolognese Renato Gualandi, che sosteneva di averla preparata col bacon, le uova disidratate e la cream degli americani per gli americani nel 1944. Queste le «pezze» d’appoggio dei teorici della carbonara Usa che spergiurano l’origine americana della carbonara, «dati» che a un esame logico e filologico serio reggerebbero come lo sputo al posto della colla e hanno solo l’effetto - e forse lo scopo - di screditare il primato culinario italiano nel mondo.
La tesi più logica è che gli americani che avessero razioni per farsi le bacon eggs con cui fanno colazione abbiano intravisto negli spaghetti alla carbonara già esistenti una porzione di bacon eggs mescolata con della pasta e abbiano iniziato a mangiarli fatti o fatti fare con le loro scatolette. Per il resto, è molto più plausibile che la carbonara sia una versione più leggera degli strascinati di Cascia, appunto. Il critico gastronomico Luciano Pignataro ha stilato una sorprendente costellazione di piatti meridionali che coniugano uova e maiale e che potrebbero essere antenati della carbonara: la scarpella di Castelvenere, il pastiere montonerese, i vermicelli pertosani. Anche in Grecia si preparano le uova con la pancetta, anche in Gran Bretagna, in Lombardia c’è la frittata rognosa, con le salamelle: sono ricette americane anche tutte queste?
Quella col pomodoro è tutta nostra: la mangiava De Sanctis già nell’Ottocento
L’autrice dell’intervista al Financial Times scrive: «Prima della guerra, mi racconta Grandi, la pizza si trovava solo in alcune città del sud Italia, dove era prodotta e consumata per strada dalle classi inferiori. Le sue ricerche suggeriscono che il primo ristorante che a tutti gli effetti serviva esclusivamente pizza non aprì in Italia, ma a New York nel 1911». Se ancora nell’Ottocento la pizza è preparata nei forni, e non in mezzo alla strada come sostiene Grandi, presto questi forni si industriano per servire le pizze non «a portar via» per il consumo in piedi o camminando in strada, ma seduti al tavolo.
Francesco De Sanctis, nelle sue memorie, scrive, riferendosi all’anno in cui aveva sedici anni ossia il 1833: «La sera s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità». Nel 1833 Antonio La Vecchia aveva infatti aperto Le stanze di Piazza Carità a Largo della Carità, ma la pizzeria Port’Alba aveva già le sedute nel 1830. La famosa prima pizzeria di New York è stata aperta nel 1905, non 1911, da Gennaro Lombardi a Little Italy, usando carbone invece che legna e soprattutto formaggio americano al posto della mozzarella. Dopo le polemiche seguenti all’intervista del Financial Times, Grandi è stato intervistato anche dal Corriere della Sera, dove ha rincarato la dose: «Finché è rimasta a Napoli la pizza è stata una grandissima schifezza. Ma quando è arrivata a New York si è riempita di prodotti nuovi e, in particolare, della salsa di pomodoro diventando la meraviglia che conosciamo oggi. Senza il viaggio degli italiani in America sono convinto che questa specialità sarebbe scomparsa». Ancora dalla storia della cucina italiana in formato graphic novel: «Prima della scoperta dell’America le pizze erano bianche condite con aglio, olio, pesciolini, origano, basilico e formaggio caciocavallo. Però il vero successo arrivò nell’800 quando sulla pizza venne messo il pomodoro e successivamente la mozzarella». Nel 1843, Alexandre Dumas padre descrisse la diversità dei condimenti della pizza nella raccolta di racconti Il corricolo, relativi al suo viaggio a Napoli nel 1835: «aromatizzata con olio, lardo, sego, formaggio, pomodoro, o acciughe sotto sale». Come riporta uno studio della facoltà di Agraria dell’Università di Udine, nel libro Napoli, contorni e dintorni del 1830, autore tale Riccio, si trova descritta la pizza con pomodoro, mozzarella e basilico.
Nel 2022 il giornalista napoletano Angelo Forgione interpella Alberto Grandi per correggerlo riguardo a queste stesse affermazioni, proposte pure allora: Forgione gli spiega che la pizza nasce come cibo di strada distribuito dagli ambulanti nel Settecento ma dal primo Ottocento nascono le pizzerie per mangiarla seduti, tanto che presso l’Archivio di Stato di Napoli si può consultare l’Elenco dei pizzajoli con bottega del 1807, a testimonianza che le pizze venivano distribuite agli ambulanti, ma anche vendute in loco, tanto che anche Francesco De Sanctis ne scrive. Grandi, scrive Forgione anche sui suoi profili social in questi giorni, gli risponde di aver rilasciato dichiarazioni errate sull’argomento, di non essere troppo esperto di pizza, di essere stato illuminato dalle affermazioni di De Sanctis apprese da Forgione e di aver voluto soltanto evidenziare quel fenomeno sociologico detto «effetto pizza» per cui un particolare di un popolo viene esaltato prima in un’altra nazione dove parte di quel popolo emigra e solo dopo nel resto dell’intera nazione originaria proprio grazie al tramite straniero, una specie di Tizio profeta in patria solo dopo esser stato riconosciuto profeta dalla non patria. L’illuminazione deve essere durata poco, avendo Grandi riproposto le stesse affermazioni rinnegate a Forgione al Financial Times e al Corriere della Sera.
Ma esaminiamo la questione effetto pizza. Il teorico dell’«effetto pizza» è Agehananda Bharati, monaco indù di origine austriaca e docente di antropologia all’Università di Syracuse, che nel 1970 nel Journal of Asian Studies scrisse: «La pizza originariamente era un semplice pane cotto a caldo senza guarnizioni, l’alimentazione base dei contadini calabresi e siciliani da cui discende ben oltre il 90% di tutti gli italoamericani. Dopo la prima guerra mondiale, un piatto molto elaborato, la pizza americana di molte dimensioni, sapori e colori, ha fatto ritorno in Italia con i parenti in visita dall’America. Il termine e l’oggetto hanno acquisito un nuovo significato e un nuovo status, così come molti nuovi sapori nella terra d’origine, non solo nel sud, ma in tutta la lunghezza e la larghezza dell’Italia».
A parte il fatto che ancora oggi molti italiani farebbero a brandelli le pizze effettivamente elaborate in America, da quella con l’ananas a quella col salame piccante pepperoni, non parliamo poi di quando vedono una Chicago deep dish pizza, la pizza napoletana era ciò che era ben prima del suo trasbordo insieme con l’emigrazione napoletana negli Usa, emigrazione cominciata tra fine Ottocento e inizio Novecento, e quello che accade è semplicemente che la pizza, già da un bel pezzo «co’ ‘a pummarola ‘ncoppa» come cantava pure la canzone, da Napoli si diffonde nel resto d’Italia, come avvenuto per mille altre preparazioni prima e dopo allora. Basti pensare al lagănum degli antichi Romani che lascia figli ovunque lungo lo Stivale. L’effetto pizza inteso come gli italiani che scoprirebbero la pizza che nascerebbe schifezza in Italia e diventerebbe leccornia e al pomodoro dopo un risciacquo dei suoi panni italici in Usa, con gli italiani che effettuano un’appropriazione culturale da deficienti ombelicali è un falso storico. Anche inteso come gli italiani che apprezzano la pizza solo dopo averla vista apprezzare in alcuni luoghi Usa resta un falso storico.
«La cucina italiana è davvero più americana che italiana» ha detto Grandi al Financial Times. Peccato che questa affermazione sia falsa e se andiamo col bilancino e i libri di storia potremmo casomai affermare che la cucina americana è più italiana che americana.
Macché operazione marketing. È uno stile alimentare salutare e le eccellenze non c’entrano
Nel libro Denominazione di origine inventata, Alberto Grandi scrive che è «un’altra straordinaria invenzione […] da parte, guarda caso, di un fisiologo americano, Ancel Keys» il quale «fece una scoperta sensazionale: le persone denutrite non hanno problemi di colesterolo... Ma, al di là della facile ironia, resta il fatto che l’invenzione della “dieta mediterranea” e l’abile uso in termini di marketing che ne venne fatto, già dallo stesso Keys peraltro, rilanciò nel mondo un’idea di vita sana, bella e in grado di soddisfare i sensi, che diventerà una sorta di garanzia di qualità per tutto ciò che si può genericamente ricondurre al made in Italy».
Ancel Keys e sua moglie Margaret, dei quali si può leggere La dieta mediterranea. Come mangiare bene e stare bene, Slow Food Editore, non hanno mai detto che i denutriti non hanno problemi di colesterolo: la teoria lipidica delle malattie cardiovascolari che oggi ci sembra ovvia si fece strada a fine Ottocento, inizio Novecento, per mano del medico olandese in Indonesia Cornelis de Langen, del medico olandese in Cina Isidore Snapper e del medico svedese Hqvin Malmrose. Ancel Keys postulò lo stesso loro collegamento e in più dimostrò che bassi valori di colesterolo nel sangue, caratteristica di chi seguiva una dieta salutare, e non insufficiente come afferma Grandi, si associavano a basso rischio di infarto miocardico. Keys, sua moglie e altri medici studiarono prima la dieta napoletana, sì, poi osservarono l’alimentazione a Città del Capo, a Cagliari, a Ilomantsi (Finlandia), a Fukuoka (Giappone), a Honolulu, a Bologna. Poi organizzarono in quelle nazioni il Seven Countries Study, uno studio epidemiologico multicentrico e pluriennale, rimasto leggendario nella storia della medicina, e omologato dall’Oms nel 1990.
La dieta mediterranea per Keys è uno stile alimentare che non riguarda solo l’Italia, ma l’area mediterranea, che non ha niente a che vedere con le eccellenze italiane come invece afferma Grandi, anzi Keys annota che il colesterolo di chi mangia tutti i giorni «pasta condita con sugo di carne ricoperta con formaggio parmigiano, […] arrosto di carne […] secondo piatto, dessert gelato o ricchi dolci» era assai alto, mentre era basso quello di chi presentava «dieta comune scarsa di carne e prodotti caseari», con «la pasta» che «generalmente sostituiva la carne a cena» e «montagne di verdura»: la dieta «scarsa di carne e prodotti caseari» (attenzione, scarsa, non priva) era una «dieta salutare» e «motivo dell’assenza di disturbi cardiaci».
Altro che trovata industriale: pure i panifici più piccoli lo facevano allo stesso modo
Sempre dall’articolo del Financial Times: «Prima del XX secolo, il panettone era una focaccia sottile e dura farcita con una manciata di uvetta. Era mangiato solo dai poveri e non aveva legami con il Natale. Il panettone come lo conosciamo oggi è un’invenzione industriale. Negli anni ‘20 Angelo Motta del marchio alimentare Motta introdusse una nuova ricetta di impasto e diede inizio alla “tradizione” del panettone a forma di cupola. Poi, negli anni ‘70, di fronte alla crescente concorrenza dei supermercati, i panifici indipendenti iniziarono a produrre loro stessi panettoni a forma di cupola. Come scrive Grandi nel suo libro, “dopo un bizzarro viaggio a ritroso, il panettone è finalmente arrivato ad essere ciò che non era mai stato prima: un prodotto artigianale”».
Il panettone non era assolutamente una focaccia piatta (con focaccia si intende una pizza che per tutta la sua area presenta la stessa altezza, come la focaccia barese o quella genovese) e dura, il panettone era una pagnotta dolce e aveva forma a cupola perché ogni pagnotta, anche di pane, ce l’ha. La forma a cupola del panettone col diametro appena più largo (e quindi un’altezza minore) di quello odierno si può vedere in tante illustrazioni pubblicitarie della stessa Motta. Angelo Motta avvia un forno artigianale nel 1919 a Milano specializzandosi nel panettone, che era il tipico dolce natalizio locale da un bel po’. Lo preparano già altri, tra cui Cova, pasticceria per ricchi, o Enrico Baj. Ciò che fa Motta, dichiarandolo, è riprendere l’uso precedente della lievitazione con lievito madre, che forse anche per via della guerra qualcuno aveva sostituito con lievito di birra o, peggio, lievito chimico, e arricchire l’impasto con maggiori dosi di uova e burro che tuttavia già sono usate anche dagli altri, idem i canditi, perché l’evoluzione del panettone da qualcosa che somiglia al pan tramvai verso ciò che è ora è cominciata da ben prima di Angelo Motta.
Tornando al quale, spieghiamo a Grandi che Angelo e gli altri usano la fasciatura con carta a corona, in un primo tempo legata con lo spago. In un recente video visibile sul sito di «Italia squisita», Andrea Besuschio della Pasticceria Besuschio, attiva dal 1845 ad Abbiategrasso, davanti al forno originario in cui ancora oggi i Besuschio cuociono i panettoni, spiega: «All’inizio non c’erano i pirottini e quindi i panettoni venivano legati con della carta paglia e con uno spago, a volte si slegavano e quindi non si potevano vendere. Un amico di famiglia di mio nonno che aveva una cartotecnica ha fatto i primi pirottini per panettoni, e caso vuole che questi pirottini sono stati testati per la prima volta, ai primi degli anni ’50, all’interno di questo forno in compagnia di grandi pasticceri come il Cavalier Motta, Alemagna e mio nonno Giulio».
Angelo Motta non inventa il panettone dal niente, non lo alza che di pochi centimetri, che sono quelli che sottrae alla larghezza, e agisce sempre da pasticcere, strumento, come altri, della naturale evoluzione di una ricetta lungo il corso dei secoli. L’evoluzione del forno in fabbrica per Motta e per altri non si configura mai come la trasformazione in industria intesa come luogo di produzione non artigianale di miliardi di pezzi opposta a «i panifici indipendenti». In quegli anni, alcuni panifici hanno successo e ampliano. Altri no. E parallelamente, sia il panificio che resta piccolo, sia quello che si espande, preparano il panettone allo stesso modo. Ciò che fa diventare nazionale il panettone è la diffusione di prodotti locali oltre i propri confini, mescola favorita anche dal progressivo avvento dei supermercati, sempre in quegli anni.
Gusto, consistenza, tonalità, dimensioni: impossibile che discenda dal parmesan
Al Parmigiano Reggiano Dop Grandi contesta che prima degli anni ‘60 le forme pesassero solo circa 10 kg rispetto ai 40 kg di oggi, avessero la crosta nera, e consistenza più grassa e morbida. Tanto che «la sua esatta corrispondenza moderna è il parmigiano del Wisconsin». Ossia quel Parmesan che gli americani acquistano spesso credendolo fatto in Italia. Luciano Pignataro ha chiesto un’opinione a Gabriele Arlotti, uno dei due soli italiani che, ogni due anni, spiega il critico sul suo sito omonimo, è invitato nella patria dell’Italian sounding dei formaggi come giurato tra altri 60 colleghi al World Championship Cheese Contest, il più antico concorso internazionale di formaggi statunitense, organizzato proprio dalla potente organizzazione dei latticini americani, la Wisconsin Cheese makers Association.
Sintetizziamo la risposta: «Il Parmigiano Reggiano è una Dop tutelata dall’Ue oltre che un marchio di certificazione tutelato dal Consorzio Parmigiano Reggiano negli Usa. Da un lato il professor Grandi afferma alcune verità (come il fatto che la cucina italiana è in evoluzione), ma dall’altro commette, forse a scopo propagandistico, alcuni errori grossolani come sostenere il fatto che il Parmigiano Reggiano dei nostri nonni sia più simile all’imitazione americana che non al Parmigiano Reggiano di oggi. Non è così né lo è mai stato. A prova di palato posso allora assolutamente smentire il fatto che ci sia qualche somiglianza tra il Parmigiano Reggiano dei nonni, che consumo con piacere dagli anni Settanta, e il parmesan americano. Il formaggio che gli americani chiamano commercialmente Parmesan raggruppa oggi una serie di caci estremamente diversi da loro. Quelli che ho avuto modo di assaggiare non hanno la caratteristica grana derivata dai cristalli di tirosina (che ha il Parmigiano Reggiano attuale ma anche quello passato), è pastoso, particolarmente grasso in linea con i loro gusti alimentari, di tonalità molto variabili, così come pezzature e dimensione, e prevede l’aggiunta di additivi: nulla a che fare col formaggio dei nostri nonni. È soprattutto privo delle caratteristiche sensoriali che conosciamo bene, dalle note lattiche a quelle fruttate e di noce secca, marcate all’aumentare della stagionatura, che ha, invece, il Parmigiano Reggiano».
Continua a leggereRiduci
Ha suscitato incredulità l’intervista del «Financial Times» ad Alberto Grandi sulla cucina italiana. Abbiamo ritenuto interessante operare il debunking delle tesi del debunker. La carbonara è probabile che sia una versione romana di uno dei mille connubi di cacio e uova, o uova e maiale, o addirittura cacio uova e formaggio che sono attestati intorno a Roma, come gli strascinati di Cascia.Francesco De Sanctis, nelle sue memorie, scrive, riferendosi all’anno in cui aveva sedici anni ossia il 1833: «La sera s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità». La dieta mediterranea è uno stile alimentare che non riguarda solo l’Italia, ma l’area mediterranea, che non ha niente a che vedere con le eccellenze italiane come invece afferma GrandiIl panettone era una pagnotta dolce e aveva forma a cupola perché ogni pagnotta, anche di pane, ce l’ha. «Posso smentire il fatto che ci sia qualche somiglianza tra il Parmigiano Reggiano dei nonni, che consumo con piacere dagli anni Settanta, e il parmesan americano».Lo speciale contiene sei articoliLe seconde: «Posso parlare male di loro?». Grandi è descritto come accademico marxista, riluttante celebrità di podcast, giudice di quest’anno alla Tiramisu World Cup di Treviso, carriera dedicata a fare il debunking dei miti sulla cucina italiana, food expert e, da una sua affermazione nel podcast Doi (acronimo del titolo del suo libro «Denominazione di Origine Inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani», Mondadori), persona che deve uscire di casa «con le guardie del corpo, come Salman Rushdie». Considerato che di Rushdie Wikipedia scrive, riguardo al suo primo romanzo di successo percepito come anti indiano e precedente a quello percepito come anti musulmano «I versi satanici», «il successo delle reazioni che incitavano violenza nei confronti delle sue opere produsse molta pubblicità e libri venduti; una formula che ripeté nuovamente», non ci sembra un buon modello per quello che sarebbe uno storico e non uno scrittore di fantasia. Abbiamo ritenuto interessante operare il debunking delle tesi del debunker. Scoprendo che se il marketing, come dice Grandi, può emettere bugie, può anche essere che l’addotta affermazione falsa del marketing in realtà non sia mai stata proferita oppure sì ed è veritiera e che le affermazioni del debunker del marketing, invece, siano false. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-bugie-sulla-cucina-italiana-smontate-punto-per-punto-2659863028.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="un-piatto-nato-in-america-ma-se-i-suoi-antenati-sono-nel-mezzogiorno" data-post-id="2659863028" data-published-at="1681634294" data-use-pagination="False"> Un piatto nato in America? Ma se i suoi antenati sono nel Mezzogiorno... «Per Grandi, la storia della carbonara racchiude perfettamente l’idea di Hobsbawm di “invenzione della tradizione”», dice la giornalista del Financial Times nell’intervista che ha fatto tanto scalpore. E poi, «per fare un po’ di luce» chiama un 97enne di Morlupo, oltre 30 km da Roma, che le dice: «Forse una volta all’anno mangiavamo l’amatriciana, quando potevamo permetterci di ammazzare un maiale. Ma non avevo mai sentito parlare della carbonara prima della guerra». Io sono romana, non ho mai mangiato la pajata, se sostenessi che siccome io non l’ho mai mangiata e non l’ho mai sentita nominare allora non esiste verrei presa giustamente a pernacchie e sarebbe carino spiegare al nonno testimone che poiché l’amatriciana si fa col guanciale, che si stagiona per conservarlo, non si deve ammazzare un maiale ogni volta che si fa l’amatriciana... Tornando alla carbonara, è molto più probabile che sia una versione romana di uno dei mille connubi di cacio e uova, o uova e maiale, o addirittura cacio uova e formaggio che sono attestati intorno a Roma, come gli strascinati di Cascia. Ed è facile che sia una versione «on the go» dei carbonai. Perché questa gente doveva mangiare, non è che c’era la mensa. La tesi che la carbonara sia americana deriva dal fatto che la prima ricetta attestata (attestata finora, ma possono esserci attestazioni non ancora ritrovate) sia stata pubblicata nel 1952 in una guida gastronomica di Chicago di Patricia Bronté, nella recensione di Armando’s, che faceva la carbonara. Ma questo Armando era praticamente italiano e cucinava italiano. Era figlio di italiani, nato in Usa, tornato a Lucca fino all’adolescenza e poi riemigrato in Usa. Quindi abbiamo già due elementi che fanno vacillare la tesi cui Grandi si attacca. La prima attestazione è solo una prima attestazione ed essendo la cucina, come la musica e la letteratura, una tradizione in prima battuta pratica e orale, già la ricetta sulla guida di Chicago non dimostra proprio niente. Crolla proprio del tutto, poi, la tesi dell’americanità considerato che Armando è italiano. La ricetta è reclamata come propria anche dal bolognese Renato Gualandi, che sosteneva di averla preparata col bacon, le uova disidratate e la cream degli americani per gli americani nel 1944. Queste le «pezze» d’appoggio dei teorici della carbonara Usa che spergiurano l’origine americana della carbonara, «dati» che a un esame logico e filologico serio reggerebbero come lo sputo al posto della colla e hanno solo l’effetto - e forse lo scopo - di screditare il primato culinario italiano nel mondo. La tesi più logica è che gli americani che avessero razioni per farsi le bacon eggs con cui fanno colazione abbiano intravisto negli spaghetti alla carbonara già esistenti una porzione di bacon eggs mescolata con della pasta e abbiano iniziato a mangiarli fatti o fatti fare con le loro scatolette. Per il resto, è molto più plausibile che la carbonara sia una versione più leggera degli strascinati di Cascia, appunto. Il critico gastronomico Luciano Pignataro ha stilato una sorprendente costellazione di piatti meridionali che coniugano uova e maiale e che potrebbero essere antenati della carbonara: la scarpella di Castelvenere, il pastiere montonerese, i vermicelli pertosani. Anche in Grecia si preparano le uova con la pancetta, anche in Gran Bretagna, in Lombardia c’è la frittata rognosa, con le salamelle: sono ricette americane anche tutte queste? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-bugie-sulla-cucina-italiana-smontate-punto-per-punto-2659863028.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="quella-col-pomodoro-e-tutta-nostra-la-mangiava-de-sanctis-gia-nellottocento" data-post-id="2659863028" data-published-at="1681634294" data-use-pagination="False"> Quella col pomodoro è tutta nostra: la mangiava De Sanctis già nell’Ottocento L’autrice dell’intervista al Financial Times scrive: «Prima della guerra, mi racconta Grandi, la pizza si trovava solo in alcune città del sud Italia, dove era prodotta e consumata per strada dalle classi inferiori. Le sue ricerche suggeriscono che il primo ristorante che a tutti gli effetti serviva esclusivamente pizza non aprì in Italia, ma a New York nel 1911». Se ancora nell’Ottocento la pizza è preparata nei forni, e non in mezzo alla strada come sostiene Grandi, presto questi forni si industriano per servire le pizze non «a portar via» per il consumo in piedi o camminando in strada, ma seduti al tavolo. Francesco De Sanctis, nelle sue memorie, scrive, riferendosi all’anno in cui aveva sedici anni ossia il 1833: «La sera s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità». Nel 1833 Antonio La Vecchia aveva infatti aperto Le stanze di Piazza Carità a Largo della Carità, ma la pizzeria Port’Alba aveva già le sedute nel 1830. La famosa prima pizzeria di New York è stata aperta nel 1905, non 1911, da Gennaro Lombardi a Little Italy, usando carbone invece che legna e soprattutto formaggio americano al posto della mozzarella. Dopo le polemiche seguenti all’intervista del Financial Times, Grandi è stato intervistato anche dal Corriere della Sera, dove ha rincarato la dose: «Finché è rimasta a Napoli la pizza è stata una grandissima schifezza. Ma quando è arrivata a New York si è riempita di prodotti nuovi e, in particolare, della salsa di pomodoro diventando la meraviglia che conosciamo oggi. Senza il viaggio degli italiani in America sono convinto che questa specialità sarebbe scomparsa». Ancora dalla storia della cucina italiana in formato graphic novel: «Prima della scoperta dell’America le pizze erano bianche condite con aglio, olio, pesciolini, origano, basilico e formaggio caciocavallo. Però il vero successo arrivò nell’800 quando sulla pizza venne messo il pomodoro e successivamente la mozzarella». Nel 1843, Alexandre Dumas padre descrisse la diversità dei condimenti della pizza nella raccolta di racconti Il corricolo, relativi al suo viaggio a Napoli nel 1835: «aromatizzata con olio, lardo, sego, formaggio, pomodoro, o acciughe sotto sale». Come riporta uno studio della facoltà di Agraria dell’Università di Udine, nel libro Napoli, contorni e dintorni del 1830, autore tale Riccio, si trova descritta la pizza con pomodoro, mozzarella e basilico. Nel 2022 il giornalista napoletano Angelo Forgione interpella Alberto Grandi per correggerlo riguardo a queste stesse affermazioni, proposte pure allora: Forgione gli spiega che la pizza nasce come cibo di strada distribuito dagli ambulanti nel Settecento ma dal primo Ottocento nascono le pizzerie per mangiarla seduti, tanto che presso l’Archivio di Stato di Napoli si può consultare l’Elenco dei pizzajoli con bottega del 1807, a testimonianza che le pizze venivano distribuite agli ambulanti, ma anche vendute in loco, tanto che anche Francesco De Sanctis ne scrive. Grandi, scrive Forgione anche sui suoi profili social in questi giorni, gli risponde di aver rilasciato dichiarazioni errate sull’argomento, di non essere troppo esperto di pizza, di essere stato illuminato dalle affermazioni di De Sanctis apprese da Forgione e di aver voluto soltanto evidenziare quel fenomeno sociologico detto «effetto pizza» per cui un particolare di un popolo viene esaltato prima in un’altra nazione dove parte di quel popolo emigra e solo dopo nel resto dell’intera nazione originaria proprio grazie al tramite straniero, una specie di Tizio profeta in patria solo dopo esser stato riconosciuto profeta dalla non patria. L’illuminazione deve essere durata poco, avendo Grandi riproposto le stesse affermazioni rinnegate a Forgione al Financial Times e al Corriere della Sera. Ma esaminiamo la questione effetto pizza. Il teorico dell’«effetto pizza» è Agehananda Bharati, monaco indù di origine austriaca e docente di antropologia all’Università di Syracuse, che nel 1970 nel Journal of Asian Studies scrisse: «La pizza originariamente era un semplice pane cotto a caldo senza guarnizioni, l’alimentazione base dei contadini calabresi e siciliani da cui discende ben oltre il 90% di tutti gli italoamericani. Dopo la prima guerra mondiale, un piatto molto elaborato, la pizza americana di molte dimensioni, sapori e colori, ha fatto ritorno in Italia con i parenti in visita dall’America. Il termine e l’oggetto hanno acquisito un nuovo significato e un nuovo status, così come molti nuovi sapori nella terra d’origine, non solo nel sud, ma in tutta la lunghezza e la larghezza dell’Italia». A parte il fatto che ancora oggi molti italiani farebbero a brandelli le pizze effettivamente elaborate in America, da quella con l’ananas a quella col salame piccante pepperoni, non parliamo poi di quando vedono una Chicago deep dish pizza, la pizza napoletana era ciò che era ben prima del suo trasbordo insieme con l’emigrazione napoletana negli Usa, emigrazione cominciata tra fine Ottocento e inizio Novecento, e quello che accade è semplicemente che la pizza, già da un bel pezzo «co’ ‘a pummarola ‘ncoppa» come cantava pure la canzone, da Napoli si diffonde nel resto d’Italia, come avvenuto per mille altre preparazioni prima e dopo allora. Basti pensare al lagănum degli antichi Romani che lascia figli ovunque lungo lo Stivale. L’effetto pizza inteso come gli italiani che scoprirebbero la pizza che nascerebbe schifezza in Italia e diventerebbe leccornia e al pomodoro dopo un risciacquo dei suoi panni italici in Usa, con gli italiani che effettuano un’appropriazione culturale da deficienti ombelicali è un falso storico. Anche inteso come gli italiani che apprezzano la pizza solo dopo averla vista apprezzare in alcuni luoghi Usa resta un falso storico. «La cucina italiana è davvero più americana che italiana» ha detto Grandi al Financial Times. Peccato che questa affermazione sia falsa e se andiamo col bilancino e i libri di storia potremmo casomai affermare che la cucina americana è più italiana che americana. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-bugie-sulla-cucina-italiana-smontate-punto-per-punto-2659863028.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="macche-operazione-marketing-e-uno-stile-alimentare-salutare-e-le-eccellenze-non-centrano" data-post-id="2659863028" data-published-at="1681634294" data-use-pagination="False"> Macché operazione marketing. È uno stile alimentare salutare e le eccellenze non c’entrano Nel libro Denominazione di origine inventata, Alberto Grandi scrive che è «un’altra straordinaria invenzione […] da parte, guarda caso, di un fisiologo americano, Ancel Keys» il quale «fece una scoperta sensazionale: le persone denutrite non hanno problemi di colesterolo... Ma, al di là della facile ironia, resta il fatto che l’invenzione della “dieta mediterranea” e l’abile uso in termini di marketing che ne venne fatto, già dallo stesso Keys peraltro, rilanciò nel mondo un’idea di vita sana, bella e in grado di soddisfare i sensi, che diventerà una sorta di garanzia di qualità per tutto ciò che si può genericamente ricondurre al made in Italy». Ancel Keys e sua moglie Margaret, dei quali si può leggere La dieta mediterranea. Come mangiare bene e stare bene, Slow Food Editore, non hanno mai detto che i denutriti non hanno problemi di colesterolo: la teoria lipidica delle malattie cardiovascolari che oggi ci sembra ovvia si fece strada a fine Ottocento, inizio Novecento, per mano del medico olandese in Indonesia Cornelis de Langen, del medico olandese in Cina Isidore Snapper e del medico svedese Hqvin Malmrose. Ancel Keys postulò lo stesso loro collegamento e in più dimostrò che bassi valori di colesterolo nel sangue, caratteristica di chi seguiva una dieta salutare, e non insufficiente come afferma Grandi, si associavano a basso rischio di infarto miocardico. Keys, sua moglie e altri medici studiarono prima la dieta napoletana, sì, poi osservarono l’alimentazione a Città del Capo, a Cagliari, a Ilomantsi (Finlandia), a Fukuoka (Giappone), a Honolulu, a Bologna. Poi organizzarono in quelle nazioni il Seven Countries Study, uno studio epidemiologico multicentrico e pluriennale, rimasto leggendario nella storia della medicina, e omologato dall’Oms nel 1990. La dieta mediterranea per Keys è uno stile alimentare che non riguarda solo l’Italia, ma l’area mediterranea, che non ha niente a che vedere con le eccellenze italiane come invece afferma Grandi, anzi Keys annota che il colesterolo di chi mangia tutti i giorni «pasta condita con sugo di carne ricoperta con formaggio parmigiano, […] arrosto di carne […] secondo piatto, dessert gelato o ricchi dolci» era assai alto, mentre era basso quello di chi presentava «dieta comune scarsa di carne e prodotti caseari», con «la pasta» che «generalmente sostituiva la carne a cena» e «montagne di verdura»: la dieta «scarsa di carne e prodotti caseari» (attenzione, scarsa, non priva) era una «dieta salutare» e «motivo dell’assenza di disturbi cardiaci». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-bugie-sulla-cucina-italiana-smontate-punto-per-punto-2659863028.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="altro-che-trovata-industriale-pure-i-panifici-piu-piccoli-lo-facevano-allo-stesso-modo" data-post-id="2659863028" data-published-at="1681634294" data-use-pagination="False"> Altro che trovata industriale: pure i panifici più piccoli lo facevano allo stesso modo Sempre dall’articolo del Financial Times: «Prima del XX secolo, il panettone era una focaccia sottile e dura farcita con una manciata di uvetta. Era mangiato solo dai poveri e non aveva legami con il Natale. Il panettone come lo conosciamo oggi è un’invenzione industriale. Negli anni ‘20 Angelo Motta del marchio alimentare Motta introdusse una nuova ricetta di impasto e diede inizio alla “tradizione” del panettone a forma di cupola. Poi, negli anni ‘70, di fronte alla crescente concorrenza dei supermercati, i panifici indipendenti iniziarono a produrre loro stessi panettoni a forma di cupola. Come scrive Grandi nel suo libro, “dopo un bizzarro viaggio a ritroso, il panettone è finalmente arrivato ad essere ciò che non era mai stato prima: un prodotto artigianale”». Il panettone non era assolutamente una focaccia piatta (con focaccia si intende una pizza che per tutta la sua area presenta la stessa altezza, come la focaccia barese o quella genovese) e dura, il panettone era una pagnotta dolce e aveva forma a cupola perché ogni pagnotta, anche di pane, ce l’ha. La forma a cupola del panettone col diametro appena più largo (e quindi un’altezza minore) di quello odierno si può vedere in tante illustrazioni pubblicitarie della stessa Motta. Angelo Motta avvia un forno artigianale nel 1919 a Milano specializzandosi nel panettone, che era il tipico dolce natalizio locale da un bel po’. Lo preparano già altri, tra cui Cova, pasticceria per ricchi, o Enrico Baj. Ciò che fa Motta, dichiarandolo, è riprendere l’uso precedente della lievitazione con lievito madre, che forse anche per via della guerra qualcuno aveva sostituito con lievito di birra o, peggio, lievito chimico, e arricchire l’impasto con maggiori dosi di uova e burro che tuttavia già sono usate anche dagli altri, idem i canditi, perché l’evoluzione del panettone da qualcosa che somiglia al pan tramvai verso ciò che è ora è cominciata da ben prima di Angelo Motta. Tornando al quale, spieghiamo a Grandi che Angelo e gli altri usano la fasciatura con carta a corona, in un primo tempo legata con lo spago. In un recente video visibile sul sito di «Italia squisita», Andrea Besuschio della Pasticceria Besuschio, attiva dal 1845 ad Abbiategrasso, davanti al forno originario in cui ancora oggi i Besuschio cuociono i panettoni, spiega: «All’inizio non c’erano i pirottini e quindi i panettoni venivano legati con della carta paglia e con uno spago, a volte si slegavano e quindi non si potevano vendere. Un amico di famiglia di mio nonno che aveva una cartotecnica ha fatto i primi pirottini per panettoni, e caso vuole che questi pirottini sono stati testati per la prima volta, ai primi degli anni ’50, all’interno di questo forno in compagnia di grandi pasticceri come il Cavalier Motta, Alemagna e mio nonno Giulio». Angelo Motta non inventa il panettone dal niente, non lo alza che di pochi centimetri, che sono quelli che sottrae alla larghezza, e agisce sempre da pasticcere, strumento, come altri, della naturale evoluzione di una ricetta lungo il corso dei secoli. L’evoluzione del forno in fabbrica per Motta e per altri non si configura mai come la trasformazione in industria intesa come luogo di produzione non artigianale di miliardi di pezzi opposta a «i panifici indipendenti». In quegli anni, alcuni panifici hanno successo e ampliano. Altri no. E parallelamente, sia il panificio che resta piccolo, sia quello che si espande, preparano il panettone allo stesso modo. Ciò che fa diventare nazionale il panettone è la diffusione di prodotti locali oltre i propri confini, mescola favorita anche dal progressivo avvento dei supermercati, sempre in quegli anni. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem5" data-id="5" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-bugie-sulla-cucina-italiana-smontate-punto-per-punto-2659863028.html?rebelltitem=5#rebelltitem5" data-basename="gusto-consistenza-tonalita-dimensioni-impossibile-che-discenda-dal-parmesan" data-post-id="2659863028" data-published-at="1681634294" data-use-pagination="False"> Gusto, consistenza, tonalità, dimensioni: impossibile che discenda dal parmesan Al Parmigiano Reggiano Dop Grandi contesta che prima degli anni ‘60 le forme pesassero solo circa 10 kg rispetto ai 40 kg di oggi, avessero la crosta nera, e consistenza più grassa e morbida. Tanto che «la sua esatta corrispondenza moderna è il parmigiano del Wisconsin». Ossia quel Parmesan che gli americani acquistano spesso credendolo fatto in Italia. Luciano Pignataro ha chiesto un’opinione a Gabriele Arlotti, uno dei due soli italiani che, ogni due anni, spiega il critico sul suo sito omonimo, è invitato nella patria dell’Italian sounding dei formaggi come giurato tra altri 60 colleghi al World Championship Cheese Contest, il più antico concorso internazionale di formaggi statunitense, organizzato proprio dalla potente organizzazione dei latticini americani, la Wisconsin Cheese makers Association. Sintetizziamo la risposta: «Il Parmigiano Reggiano è una Dop tutelata dall’Ue oltre che un marchio di certificazione tutelato dal Consorzio Parmigiano Reggiano negli Usa. Da un lato il professor Grandi afferma alcune verità (come il fatto che la cucina italiana è in evoluzione), ma dall’altro commette, forse a scopo propagandistico, alcuni errori grossolani come sostenere il fatto che il Parmigiano Reggiano dei nostri nonni sia più simile all’imitazione americana che non al Parmigiano Reggiano di oggi. Non è così né lo è mai stato. A prova di palato posso allora assolutamente smentire il fatto che ci sia qualche somiglianza tra il Parmigiano Reggiano dei nonni, che consumo con piacere dagli anni Settanta, e il parmesan americano. Il formaggio che gli americani chiamano commercialmente Parmesan raggruppa oggi una serie di caci estremamente diversi da loro. Quelli che ho avuto modo di assaggiare non hanno la caratteristica grana derivata dai cristalli di tirosina (che ha il Parmigiano Reggiano attuale ma anche quello passato), è pastoso, particolarmente grasso in linea con i loro gusti alimentari, di tonalità molto variabili, così come pezzature e dimensione, e prevede l’aggiunta di additivi: nulla a che fare col formaggio dei nostri nonni. È soprattutto privo delle caratteristiche sensoriali che conosciamo bene, dalle note lattiche a quelle fruttate e di noce secca, marcate all’aumentare della stagionatura, che ha, invece, il Parmigiano Reggiano».
Secondo i calcoli di Facile.it, il 2025 si chiuderà con un calo di circa 50 euro per la rata mensile di un mutuo variabile standard, scesa da 666 euro di inizio anno a circa 617 euro. Un movimento coerente con il progressivo rientro delle componenti di costo indicizzate (Euribor) e con l’aspettativa di stabilizzazione di breve periodo.
Sul versante dei mutui a tasso fisso, il 2025 è stato invece caratterizzato da un lieve aumento dei costi per i nuovi mutuatari, in larga parte legato alla risalita dell’indice IRS (il riferimento tipico per i fissi). A gennaio 2025 l’IRS a 25 anni è stato in media pari a 2,4%; nell’ultimo mese è arrivato al 3,1%. L’effetto, almeno parziale, si è trasferito sulle nuove offerte: per un finanziamento standard la rata risulta oggi più alta di circa 40 euro rispetto a inizio anno.
«Il 2025 è stato un anno positivo sul fronte dei tassi dei mutui: i variabili sono scesi a seguito dei tagli della Bce, mentre i fissi, seppur in lieve aumento, offrono comunque buone condizioni per chi vuole tutelarsi da possibili futuri aumenti di rata. Oggi, quindi, l’aspirante mutuatario può godere di un’ampia offerta di soluzioni: scegliere il tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», spiegano gli esperti di Facile.it
Guardando in avanti, un’indicazione operativa sui variabili arriva dai Futures sugli Euribor (aggiornati al 10 dicembre 2025): per il 2026 non vengono prezzate grandi variazioni. L’Euribor a 3 mesi, oggi sotto il 2,1%, è atteso su livelli simili anche nel prossimo anno.
«In questo momento il mercato non prevede ulteriori tagli da parte della BCE nel 2026 e al netto di qualche piccola oscillazione al rialzo verso fine anno, nei prossimi 12 mesi le rate dovrebbero rimanere tendenzialmente stabili», continuano gli esperti di Facile.it
Lo snodo resta l’inflazione: se dovesse tornare ad accelerare, non si potrebbero escludere nuove mosse restrittive della Bce, con un impatto immediato sugli indici e quindi sulle rate dei variabili. Più difficile, invece, «leggere» i fissi: finché i rendimenti dei titoli europei resteranno in salita, è complicato immaginare una traiettoria diversa per gli Irs e, a cascata, per i mutui collegati.
Per chi deve scegliere adesso, lo scenario è nettamente diverso rispetto a inizio anno. Nel 2025, il tasso variabile è tornato mediamente più conveniente. Secondo l’analisi** di Facile.it sulle migliori offerte online, per un mutuo da 126.000 euro in 25 anni (LTV 70%) i variabili partono da un TAN del 2,54%, con rata di 554,5 euro. A parità di profilo, i fissi partono da un TAN del 3,10%, con rata di 604 euro: circa 50 euro in più al mese.
«Scegliere oggi un tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», concludono gli esperti di Facile.it.
Continua a leggereRiduci
Brahim Diaz esulta dopo aver segnato un gol durante la partita inaugurale della 35ª Coppa d'Africa tra Marocco e Comore allo stadio Prince Moulay Abdellah di Rabat (Getty Images)
Serve a spostare l’immaginario: non più periferia, non più frontiera, ma piattaforma. Il governo marocchino non lo nasconde. «La Coppa d’Africa è una prova generale per il Mondiale 2030 e un simbolo della nostra capacità di organizzare eventi globali con standard elevati», ha dichiarato recentemente un portavoce del governo di Rabat, sottolineando l’utilizzo dello sport come leva di soft power e di consolidamento di immagine internazionale. Il re Mohammed VI ha insistito pubblicamente sul ruolo dello sport come strumento di dialogo e cooperazione regionale, definendo iniziative come Afcon e il Mondiale 2030 parte integrante della «strategia marocchina di apertura e modernizzazione». Questa visione è stata ripresa anche dai media di Stato come elemento di legittimazione politica e di promozione dell’identità nazionale. I numeri aiutano a capire la traiettoria. Il Marocco conta oggi circa 37 milioni di abitanti e una crescita demografica relativamente contenuta dell’1 per cento annuo circa, molto più bassa rispetto a molte economie subsahariane.
Questo rallentamento demografico consente una pianificazione a medio-lungo termine più sostenibile. Sul piano economico, il pil ha superato i 140 miliardi di dollari nel 2023, con un pil pro capite attorno ai 3.700 dollari, superiore a molti Paesi dell’Africa subsahariana e stabile negli ultimi anni. Il calcio entra qui. La Coppa d’Africa diventa una vetrina perché cade in un momento preciso. Il Paese è nel pieno di un ciclo di investimenti pubblici legati a grandi eventi. Strade, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità, stadi. Secondo stime ufficiali, tra infrastrutture sportive e opere collegate il Marocco ha messo sul piatto investimenti nell’ordine di oltre 21 miliardi di dirham — quasi 2 miliardi di euro — per modernizzare stadi e città in vista di Afcon 2025 e del Mondiale 2030. Questa spinta è percepita anche a livello diplomatico.
Nel corso degli ultimi anni Rabat ha promosso nuove alleanze economiche in Africa occidentale, con piani di investimento in energia, telecomunicazioni e infrastrutture. La Coppa d’Africa è intesa come un elemento di “soft power” che attraversa i confini: non solo uno spettacolo sportivo, ma un’occasione per creare reti di relazioni, far visita a delegazioni internazionali e mostrare un’immagine di stabilità e apertura. Il messaggio è rivolto prima di tutto al continente africano. Il Marocco si propone come modello alternativo: africano per storia e geografia, ma sempre più occidentale per governance, modelli economici e partner strategici. “Lo sport è parte integrante della nostra politica estera e interna”, ha detto un consigliere politico marocchino parlando della Coppa d’Africa come di un evento che rafforza l’influenza regionale di Rabat. La Coppa d’Africa serve anche a rafforzare una narrativa interna. Il Paese viene da anni di riforme graduali, non sempre popolari, tra cui la promozione di miglioramenti nei servizi pubblici. Il consenso passa anche dalla capacità di offrire orgoglio nazionale e visibilità internazionale.
Dopo il quarto posto al Mondiale 2022, la nazionale è diventata un moltiplicatore emotivo, un simbolo di successo collettivo. Ma non mancano le critiche. In un anno segnato da proteste giovanili e richieste di maggiori investimenti in sanità ed educazione, alcuni osservatori ricordano che infrastrutture sportive e servizi sociali competono per risorse limitate. «Vogliamo ospedali, non stadi» è stato lo slogan di manifestazioni che hanno investito diverse città marocchine nei mesi scorsi, sottolineando il rischio di disallineamento tra spesa per eventi e bisogni sociali. Nel contesto internazionale il torneo assume un ulteriore significato. La Coppa d’Africa 2025 arriva pochi anni prima del Mondiale 2030, che il Marocco ospiterà insieme a Spagna e Portogallo. Non come semplice partecipante, ma come Paese co-organizzatore, una delle prime volte che un Paese africano riveste questo ruolo congiunto nel calcio globale. Il Marocco conta di vincere la Coppa D'Africa. Il risultato sportivo conterà. Ma conterà meno del messaggio lasciato. Rabat vuole usare il calcio per ribadire che il centro può spostarsi, che l’Africa non è solo luogo di risorse e problemi, ma anche piattaforma, regia e snodo geopolitico. E nel 2030, quando il mondo guarderà lo stesso pallone rimbalzare tra Europa e Africa, quella storia sarà già stata scritta.
Continua a leggereRiduci
Chen Zhi
Dall’immobiliare al fintech, fino al cuore delle truffe online: a 37 anni il fondatore del Prince Group è accusato da Stati Uniti e Regno Unito di aver costruito dalla Cambogia un impero criminale basato su frodi digitali, riciclaggio e sfruttamento di manodopera. Tra cittadinanze comprate, rapporti con il potere politico e miliardi congelati in criptovalute, il ritratto di un magnate oggi scomparso dai radar.
A trentasette anni appena compiuti, Chen Zhi viene indicato dagli inquirenti come l’architetto occulto di una gigantesca macchina di frodi digitali, descritta come un sistema criminale costruito sullo sfruttamento sistematico delle vittime. L’aspetto giovanile, il volto quasi infantile e la barba curata contrastano con l’immagine dell’uomo che, in pochissimo tempo, avrebbe accumulato una ricchezza smisurata. Nell’ottobre scorso il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti lo ha formalmente incriminato, accusandolo di aver orchestrato dalla Cambogia un colossale schema di truffe in criptovalute, capace di sottrarre miliardi di dollari a persone sparse in tutto il mondo. Parallelamente, il Dipartimento del Tesoro americano ha annunciato il sequestro di circa 14 miliardi di dollari in bitcoin riconducibili, secondo le autorità, alla sua rete: il più imponente congelamento di asset digitali mai registrato. Sul sito ufficiale del suo conglomerato, la Cambodian Prince Group, Chen Zhi viene presentato come un imprenditore rispettato e un benefattore di primo piano, capace di trasformare l’azienda in uno dei gruppi più influenti del Paese, allineato – si legge – ai parametri internazionali. Interpellata per un commento, la società non ha rilasciato dichiarazioni. Resta dunque aperta la domanda centrale: chi è davvero Chen Zhi, l’uomo che secondo le accuse avrebbe costruito un impero fondato sulle truffe online?
Originario della provincia cinese del Fujian, nella parte sud-orientale del Paese, Chen Zhi avrebbe mosso i primi passi imprenditoriali nel settore dei giochi online, con risultati tutt’altro che eclatanti. Tra il 2010 e il 2011 si trasferì in Cambogia, inserendosi in un mercato immobiliare allora in piena ebollizione. Il suo arrivo coincise con l’esplosione di una bolla speculativa alimentata dall’afflusso di capitali cinesi e dalla disponibilità di ampie porzioni di territorio sottratte alle comunità locali e finite nelle mani di figure politicamente ben introdotte. Una parte consistente di quei fondi derivava dall’espansione internazionale dei progetti infrastrutturali cinesi legati alla Belt and Road Initiative, mentre altri capitali provenivano da investitori privati alla ricerca di sbocchi meno costosi rispetto al mercato immobiliare cinese, ormai surriscaldato. A questo si aggiunse l’aumento vertiginoso del turismo proveniente dalla Cina.
Phnom Penh cambiò volto in pochi anni: il profilo urbano, un tempo dominato da edifici coloniali bassi e color ocra, lasciò spazio a una distesa di torri in vetro e acciaio. Ancora più drastica fu la metamorfosi di Sihanoukville, ex località balneare tranquilla, trasformata in un polo di casinò, hotel di lusso e complessi residenziali. Qui confluirono non solo turisti e investitori, ma anche giocatori d’azzardo, spinti dal divieto di gioco vigente in Cina. In questo contesto, la rapida ascesa di Chen Zhi apparve fuori scala. Nel 2014 ottenne la cittadinanza cambogiana, rinunciando a quella cinese, un passaggio che gli consentì di intestarsi direttamente terreni e proprietà, a fronte di un contributo minimo di 250 mila dollari allo Stato. L’origine dei suoi capitali rimase però opaca. Nel 2019, aprendo un conto bancario sull’Isola di Man, dichiarò di aver ricevuto due milioni di dollari da uno zio non meglio identificato per avviare la sua prima operazione immobiliare. Nessuna prova documentale è mai emersa a sostegno di questa versione.
Il Prince Group nacque ufficialmente nel 2015, quando Chen Zhi aveva soltanto 27 anni, con un focus iniziale sul real estate. Tre anni dopo ottenne una licenza bancaria per creare la Prince Bank. Nello stesso periodo acquisì la cittadinanza cipriota, in cambio di un investimento di almeno 2,5 milioni di dollari, aprendo così le porte dell’Unione Europea. Successivamente ottenne anche il passaporto di Vanuatu. Nel giro di pochi anni il gruppo si espanse in settori sempre più diversi: compagnie aeree, centri commerciali di fascia alta, hotel a cinque stelle e progetti faraonici come la cosiddetta “Baia delle Luci”, una eco-città dal valore stimato di 16 miliardi di dollari. Nel 2020 Chen Zhi ha ricevuto dal sovrano cambogiano il titolo onorifico di “Neak Oknha”, il più elevato riconoscimento del Paese, riservato a chi effettua donazioni significative al governo.
In quella fase, ha consolidato relazioni politiche di altissimo livello: consigliere del ministro dell’Interno Sar Kheng, partner d’affari del figlio Sar Sokha, e collaboratore diretto di Hun Sen e, successivamente, di Hun Manet dopo la sua ascesa alla guida del governo nel 2023. I media locali lo hanno celebrato come mecenate, lodando il finanziamento di borse di studio e le donazioni durante l’emergenza Covid. Nonostante ciò, Chen Zhi è rimasto una figura schiva, poco incline alle apparizioni pubbliche. Secondo il giornalista Jack Adamovic Davies, autore di una lunga inchiesta su di lui, chi lo ha incontrato lo descrive come una persona pacata, educata e capace di esercitare un’autorità silenziosa. Una discrezione che, col senno di poi, potrebbe aver contribuito a schermarlo da attenzioni indesiderate. Il punto di svolta arriva nel 2019, con il crollo della bolla immobiliare a Sihanoukville. Il settore del gioco d’azzardo online attirò organizzazioni criminali cinesi, scatenando violenti conflitti tra bande e allontanando i turisti. Sotto la pressione di Pechino, il governo cambogiano vietò il gioco online nell’agosto di quell’anno. Centinaia di migliaia di cittadini cinesi lasciarono la città, e interi complessi residenziali rimasero vuoti. Eppure, nonostante il tracollo, Chen Zhi ha continuato ad comprare beni di lusso e a espandere il proprio raggio d’azione. Secondo le autorità occidentali, avrebbe investito decine di milioni in immobili a Londra, New York, jet privati, yacht e opere d’arte, tra cui un dipinto attribuito a Picasso.
Per Stati Uniti e Regno Unito, l’origine di questa ricchezza risiede nell’industria criminale più redditizia dell’Asia contemporanea: la frode online, alimentata da traffico di esseri umani e sofisticati sistemi di riciclaggio. Le sanzioni imposte colpiscono oltre cento società e numerosi individui legati al Prince Group, descrivendo una rete globale di società di comodo e portafogli digitali usati per occultare i flussi finanziari. Al centro delle accuse figurano complessi come il Golden Fortune Science and Technology Park, vicino al confine vietnamita, dove – secondo testimonianze raccolte – lavoratori provenienti da diversi Paesi sarebbero stati trattenuti con la forza e costretti a perpetrare truffe informatiche. Oggi, dopo l’annuncio delle sanzioni, banche e governi regionali prendono le distanze dal gruppo. Le autorità cambogiane cercano di rassicurare i risparmiatori, mentre Singapore e Thailandia avviano verifiche sulle attività locali. Resta però difficile immaginare un netto distacco dell’élite di Phnom Penh da un uomo con cui i legami sono stati così stretti per anni. Di Chen Zhi, intanto, si sono perse le tracce. L’uomo che fino a poco tempo fa figurava tra i più influenti del Paese sembra essersi dissolto, lasciando dietro di sé un intreccio di potere, denaro e accuse che ora scuote l’intera Cambogia.
Continua a leggereRiduci
iStock
Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
Continua a leggereRiduci