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2019-07-01
Le Asl vendono i dati dei malati
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Dati, informazioni, business. Tutto quel che ci circonda, ormai, ruota attorno ai dati. Siamo esposti a tal punto da non renderci conto della mole di nozioni che regaliamo a grandi aziende multinazionali, e non solo. Ma che succede se a finire sul piatto sono le informazioni che potrebbero riguardare la nostra salute?
Qualche settimana fa ha fatto discutere un articolo pubblicato sul sito Cronachelucane.it nel quale si dà conto della convenzione sottoscritta dall'Azienda sanitaria di Potenza con la Iqvia solutions Italy srl, filiale italiana di una delle multinazionali leader nel settore dei servizi in ambito sanitario. Oggetto dell'accordo: la cessione a titolo non esclusivo dei «dati relativi agli acquisti e ai consumi di specialità medicinali, farmaci generici e vaccini e qualunque altro prodotto medicinale».
Il prezzo di un caffè
Nel testo si legge che l'acquirente è «una società operante nella raccolta, elaborazione e commercializzazione di dati e studi statistici di mercato per l'industria farmaceutica ed è interessata a disporre e a utilizzare, per la propria attività d'impresa, i dati raccolti secondo opportune metodologie statistiche». L'importo concordato per la trasmissione delle informazioni è decisamente contenuto: si parla infatti di appena 10.000 euro (Iva esclusa) per un triennio. Ma ciò che fa più riflettere si trova nel terzo comma dell'articolo 6: «Terminata l'attività di elaborazione dei dati, indipendentemente dalla durata del contratto, i risultati dell'indagine potranno essere liberamente ceduti da Iqvia a propri clienti, aziende interessate al settore farmaceutico, enti pubblici e altre controparti di Iqvia nell'ambito della propria attività d'impresa».
Quello dell'Asp lucana non è un caso isolato. Da Nord a Sud, negli ultimi anni la Iqvia Italia ha stipulato accordi con un certo numero di strutture sanitarie pubbliche.
Da quello che ha potuto appurare La Verità, oltre all'Asp di Potenza nell'elenco figurano l'Asst di Cremona (20.000 euro iva esclusa), l'Aosg Moscati di Avellino (15.000 euro), l'Aou Federico II di Napoli (20.000 euro), l'Aorn Ospedale dei Colli di Napoli (23.000 euro), l'Asst Ovest Milanese (38.000 euro), l'Irccs Istituto nazionale dei tumori (40.000 euro) e l'Asl Verbano-Cusio-Ossola (16.500). Eccezion fatta per quest'ultima, che ha sottoscritto un contratto quadriennale, tutte le altre organizzazioni si sono legate all'Iqvia per tre anni. Stabilire il valore del singolo dato non è possibile, ma se rapportiamo gli importi dei contratti al numero di ricoveri in queste strutture nel 2017, il dato ricavato fa un certo effetto: meno di un euro. In sostanza, neppure un caffè al bar.
Scopi di lucro?
Già la legge 167 del 2017, approvata ai tempi del governo Gentiloni, specificava che «nell'ambito delle finalità di ricerca scientifica ovvero per scopi statistici può essere autorizzato dal Garante il riutilizzo dei dati, anche sensibili, a esclusione di quelli genetici, a condizione che siano adottate forme preventive di minimizzazione e di anonimizzazione dei dati ritenute idonee a tutela degli interessati». Resta da capire se nel caso specifico dei contratti sottoscritti dalle aziende sanitaria ci troviamo ancora nel campo della ricerca oppure se, una volta acquisiti, i dati entrino in un circuito commerciale vero e proprio. Nonostante i numerosi tentativi, Iqvia non ha dato riscontro alle nostre richieste di chiarimento in merito, né in forma scritta né per via telefonica.
Più disponibili al dialogo, invece, le strutture ospedaliere coinvolte. Contattato dalla Verità, il responsabile dell'ufficio Affari legali del Moscati di Avellino ha dichiarato: «Stiamo discutendo di un mero dato statistico. Non riteniamo necessario informare i pazienti dal momento che non c'è alcun trattamento del dato. Numeri, stiamo parlando solo di numeri. Non riteniamo ci sia alcuna forma di violazione della privacy. Il paziente è un numero, un'entità astratta, utile a fini statistici. Non c'è distinzione né di età né di genere, è un dato statistico generale, niente di più». Alla domanda su quali siano i criteri utilizzati per definire il prezzo di vendita, il nostro interlocutore ci invita a rivolgerci alla responsabile della farmacia dell'ospedale, che raggiunta al telefono, taglia corto: «I dati sono tutti coperti, non c'è alcuna cessione, è una collaborazione. Questi numeri sono quantitativi, non riconducibili ai pazienti».
«Abbiamo fatto delle riunioni nel corso delle quali ci siamo interrogati sul rinnovo della convenzione» con Iqvia, ci spiega invece la dottoressa Marisa Di Sano, direttore del Provveditorato ed economato dell'Azienda ospedaliera di Caserta. Spulciando in Rete, è possibile trovare traccia di una riunione che si è tenuta nel maggio del 2018, durante la quale il vertice della struttura si trova a discutere circa l'opportunità di proseguire la collaborazione con la multinazionale, dal momento che «non risulta chiara e ben definita la modalità, il metodo e il rispetto della segretezza dei dati prelevati ai sensi della vigente normativa sul trattamento dei dati sensibili». La convocazione nasce dalla richiesta formale inoltrata un mese prima dall'avvocato Edoardo Chianese, direttore Affari generali e legali. Chianese invita i direttori a esprimere un parere sul rinnovo, facendo presente che «le informazioni chieste in convenzione possono rappresentare dati sensibili ed esprimono, in estrema sintesi, cessione di dati aventi valore commerciale». Nonostante i dubbi, qualche mese dopo la dirigenza dell'ospedale ritiene di dare comunque il nullaosta al rinnovo dell'accordo.
Discorso analogo anche per l'Irccs Istituto nazionale dei tumori. «I dati che vengono raccolti dalla società Iqvia», spiega un referente alla Verità, «sono esclusivamente “dati di impiego di farmaci e dispositivi medici" forniti in forma anonima e aggregata, e non “dati personali". Pertanto non si applica il quadro regolatorio sulla protezione dei dati personali e non è richiesto alcun tipo di obbligo di informativa». Riguardo all'utilizzo dei proventi ricevuti dalla vendita, l'Istituto dichiara che questi confluiscono «in un fondo utilizzato dalla Struttura complessa Farmacia per supportare prevalentemente le attività di ricerca scientifica, che è una delle due principali attività istituzionali condotte dalla Fondazione Irccs. Parte dell'importo ricevuto può essere quindi investito in Borse di studio e/o aggiornamenti tecnologici necessari alla Sc Farmacia».
I dubbi dell'ex garante
Ma è davvero così semplice garantire che, a partire da un certo dato, non si riesca a risalire al paziente? Secondo Francesco Pizzetti, presidente dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali dal 2005 al 2012 e docente universitario, «un'informazione è davvero anonima quando anche chi la cede non è in grado di spiegare a quale persona fisica, identificata o identificabile, sia riconducibile: in campo sanitario, nessun dato è completamente anonimizzato». «Anonimo», continua Pizzetti, «non significa solamente trasmesso senza identificativo o nominativo del paziente: occorre garantire che il dato non si possa in alcun modo riassociare alla persona cui si riferisce, se non con un'attività particolarmente complessa e onerosa, difficile da mettere in atto». Secondo l'ex Garante, «tra le attività istituzionali di una Asl non rientra di certo la vendita di dati a società che realizzano indagini di mercato. Le Asl hanno i dati per curare i pazienti, non certo per commerciarli».
Quando di mezzo c'è la salute, mettere d'accordo le esigenze della ricerca scientifica, il diritto dell'individuo alla privacy e le necessità commerciali delle aziende diventa un'impresa sempre più ardua. Nonostante tutti i caveat, a livello globale il giro d'affari legato alla compravendita dei dati sanitari si fa sempre più importante e, per quanto difficile da quantificare, si può misurare nell'ordine dei miliardi di euro all'anno. La sola holding della Iqvia ha generato nel 2018 ricavi per 10,4 miliardi di dollari (9,1 miliardi di euro circa) e utili per 259 milioni di dollari (227 milioni di euro circa). Ma non c'è solo il business legale. Una buona fetta delle transazioni che riguardano le informazioni sanitarie viene scambiata sul dark Web, il lato oscuro della Rete che racchiude tutto ciò che non è raggiungibile tramite un comune motore di ricerca. Secondo una ricerca pubblicata poche settimane fa dalla società di cybersicurezza Carbon Black, anche il mercato nero dei dati sanitari è una realtà fiorente. Si va dai 500 dollari per una finta laurea in medicina, a importi tra i 10 e i 120 dollari per ottenere documenti utili a realizzare frodi (ad esempio, ricette mediche e tessere), fino a poco più di 3 dollari per le credenziali dei portali assicurativi. Per contro, le aziende sono sempre più preoccupate per via dei continui attacchi informati. Nel report in questione si legge che l'83% delle organizzazioni del campo medico ha rilevato un incremento degli attacchi in rete, mentre il 66% ha notato che i cyberattacchi sono diventati sempre più sofisticati. Dati che rendono l'idea di quanto sia delicata la posta in gioco quando si parla di dati sanitari.
«Senza controlli l’anonimato è a rischio»
Quale rischi comporta maneggiare i dati sanitari? In quale perimetro legale ci si muove? L'abbiamo chiesto all'avvocato Andrea Lisi. Attivo da oltre 15 anni nel campo di diritto dell'informatica, Lisi è direttore in numerosi master e percorsi specialistici di settore ed è presidente di Anorc professioni, associazione iscritta nell'elenco del Mise che rappresenta i professionisti della digitalizzazione e della privacy.
Avvocato, quali sono le norme di riferimento che regolano la cessione di dati a terzi da parte delle aziende sanitarie?
«La fonte normativa primaria in materia di trattamento dei dati personali è il Gdpr (General data protection regulation), mentre, a livello nazionale, il Codice in materia di protezione dei dati personali del 2003, recentemente riformato in adeguamento al Gdpr, regola all'articolo 110 bis il trattamento ulteriore, da parte di terzi, dei dati personali a fini di ricerca scientifica o statistici, inclusi i dati relativi alla salute».
Domanda diretta: a chi può cedere i suoi dati un'azienda sanitaria e per quali finalità?
«Se parliamo di dati personali, ossia di informazioni riguardanti una persona fisica identificata o identificabile, l'ambito di circolazione deve essere rigorosamente limitato ai casi in cui la comunicazione sia necessaria per lo svolgimento delle prestazioni sanitarie, o qualora la cessione sia autorizzata da specifiche norme di legge. I dati relativi alla salute trattati da un'azienda sanitaria, come previsto dal Gdpr, non dovrebbero, invece, essere assolutamente ceduti e trattati per altre finalità da parte di terzi, quali datori di lavoro, compagnie di assicurazione e istituti di credito».
Può un'azienda sanitaria cedere dati a una multinazionale che fa ricerche di mercato e non ricerche scientifiche o statistiche?
«L'articolo 110 bis del Codice prevede la possibilità di trattamento ulteriore dei dati personali a fini di ricerca scientifica o statistici solo da parte di soggetti terzi che svolgano principalmente tali attività e a condizione che siano adottate forme preventive di minimizzazione e di anonimizzazione dei dati, previa autorizzazione del Garante. Questa norma, singolarmente approvata prima di intraprendere l'iter di adeguamento del Codice al Gdpr, in prossimità dell'accordo - poi bloccato - tra il governo Renzi e Ibm per l'utilizzo dei dati sanitari dei cittadini italiani in cambio dell'apertura a Milano del centro Watson Health, ha sollevato sin dall'indomani della sua entrata in vigore non pochi dubbi interpretativi».
Le aziende sanitarie sono tenute a informare i pazienti? Può il paziente opporsi a una eventuale cessione di dati, ancorché anonimizzati?
«L'azienda sanitaria, quale titolare del trattamento, è certamente obbligata a rendere noti ai pazienti, interessati al trattamento, i destinatari o le categorie di destinatari ai quali i dati personali saranno comunicati. Tale obbligo, però, si configura quando la comunicazione abbia a oggetto dati personali, nell'accezione prima ricordata. Qualora, invece, il dato sia reso anonimo, in modo da non essere assolutamente riconducibile a una persona fisica identificata o identificabile, l'obbligo di rendere l'informativa verrebbe meno. Questo significa che il paziente non avrebbe la possibilità di opporsi a una cessione di cui non è al corrente».
Le aziende sanitarie giustificano le convenzioni con le multinazionali affermando che i dati sono anonimizzati e in alcun modo riconducibili a persone identificabili. È proprio così? Ci sono dei rischi connessi alla cessione di dati?
«Nel caso in cui i risultati statistici siano relativi a una popolazione ristretta e a un ambito territoriale limitato (come, ad esempio, i pazienti di un distretto sanitario) non è possibile escludere la possibilità di risalire all'identità degli interessati, tramite il raffronto e la correlazione con altre fonti di informazione».
Senza contare le tecnologie di ultima generazione…
«La disponibilità di sistemi di intelligenza artificiale sempre più sofisticati, associati a sistemi automatizzati di elaborazione e profilazione sempre più penetranti, rende questa possibilità realizzabile».
È possibilei che i dati acquistati da queste multinazionali vengano rivenduti alle case farmaceutiche?
«In mancanza di specifiche garanzie contrattuali imposte alle società che acquisiscono i dati, non si può escludere che gli stessi dati solo teoricamente anonimizzati ed eventualmente rielaborati tramite strumenti di profilazione, siano ceduti alle case farmaceutiche (e potrebbero essere interessati in tal senso tanti altri, come compagnie di assicurazione, datori di lavoro, società finanziarie…)».
Cosa si può?
«È essenziale svolgere controlli estesi e penetranti nei confronti delle multinazionali, pretendendo che siano rese trasparenti le loro politiche di profilazione, troppo spesso striscianti e ponendo un argine al commercio di dati, anche delicatissimi, come quelli relativi alla salute. Magari, evitando di introdurre norme ambigue e sostanzialmente prive di utilità … se non per altro genere di interessi».
Continua a leggereRiduci
Da Nord a Sud, le Aziende sanitarie hanno ceduto per pochi soldi informazioni sensibili sui pazienti a una multinazionale. Tutto legale. Ma la nostra privacy potrebbe essere in pericolo.L'esperto: «Le identificazioni sono possibili. E fanno gola a case farmaceutiche, assicurazioni e finanziarie».Lo speciale contiene due articoliDati, informazioni, business. Tutto quel che ci circonda, ormai, ruota attorno ai dati. Siamo esposti a tal punto da non renderci conto della mole di nozioni che regaliamo a grandi aziende multinazionali, e non solo. Ma che succede se a finire sul piatto sono le informazioni che potrebbero riguardare la nostra salute?Qualche settimana fa ha fatto discutere un articolo pubblicato sul sito Cronachelucane.it nel quale si dà conto della convenzione sottoscritta dall'Azienda sanitaria di Potenza con la Iqvia solutions Italy srl, filiale italiana di una delle multinazionali leader nel settore dei servizi in ambito sanitario. Oggetto dell'accordo: la cessione a titolo non esclusivo dei «dati relativi agli acquisti e ai consumi di specialità medicinali, farmaci generici e vaccini e qualunque altro prodotto medicinale». Il prezzo di un caffèNel testo si legge che l'acquirente è «una società operante nella raccolta, elaborazione e commercializzazione di dati e studi statistici di mercato per l'industria farmaceutica ed è interessata a disporre e a utilizzare, per la propria attività d'impresa, i dati raccolti secondo opportune metodologie statistiche». L'importo concordato per la trasmissione delle informazioni è decisamente contenuto: si parla infatti di appena 10.000 euro (Iva esclusa) per un triennio. Ma ciò che fa più riflettere si trova nel terzo comma dell'articolo 6: «Terminata l'attività di elaborazione dei dati, indipendentemente dalla durata del contratto, i risultati dell'indagine potranno essere liberamente ceduti da Iqvia a propri clienti, aziende interessate al settore farmaceutico, enti pubblici e altre controparti di Iqvia nell'ambito della propria attività d'impresa».Quello dell'Asp lucana non è un caso isolato. Da Nord a Sud, negli ultimi anni la Iqvia Italia ha stipulato accordi con un certo numero di strutture sanitarie pubbliche. Da quello che ha potuto appurare La Verità, oltre all'Asp di Potenza nell'elenco figurano l'Asst di Cremona (20.000 euro iva esclusa), l'Aosg Moscati di Avellino (15.000 euro), l'Aou Federico II di Napoli (20.000 euro), l'Aorn Ospedale dei Colli di Napoli (23.000 euro), l'Asst Ovest Milanese (38.000 euro), l'Irccs Istituto nazionale dei tumori (40.000 euro) e l'Asl Verbano-Cusio-Ossola (16.500). Eccezion fatta per quest'ultima, che ha sottoscritto un contratto quadriennale, tutte le altre organizzazioni si sono legate all'Iqvia per tre anni. Stabilire il valore del singolo dato non è possibile, ma se rapportiamo gli importi dei contratti al numero di ricoveri in queste strutture nel 2017, il dato ricavato fa un certo effetto: meno di un euro. In sostanza, neppure un caffè al bar.Scopi di lucro?Già la legge 167 del 2017, approvata ai tempi del governo Gentiloni, specificava che «nell'ambito delle finalità di ricerca scientifica ovvero per scopi statistici può essere autorizzato dal Garante il riutilizzo dei dati, anche sensibili, a esclusione di quelli genetici, a condizione che siano adottate forme preventive di minimizzazione e di anonimizzazione dei dati ritenute idonee a tutela degli interessati». Resta da capire se nel caso specifico dei contratti sottoscritti dalle aziende sanitaria ci troviamo ancora nel campo della ricerca oppure se, una volta acquisiti, i dati entrino in un circuito commerciale vero e proprio. Nonostante i numerosi tentativi, Iqvia non ha dato riscontro alle nostre richieste di chiarimento in merito, né in forma scritta né per via telefonica. Più disponibili al dialogo, invece, le strutture ospedaliere coinvolte. Contattato dalla Verità, il responsabile dell'ufficio Affari legali del Moscati di Avellino ha dichiarato: «Stiamo discutendo di un mero dato statistico. Non riteniamo necessario informare i pazienti dal momento che non c'è alcun trattamento del dato. Numeri, stiamo parlando solo di numeri. Non riteniamo ci sia alcuna forma di violazione della privacy. Il paziente è un numero, un'entità astratta, utile a fini statistici. Non c'è distinzione né di età né di genere, è un dato statistico generale, niente di più». Alla domanda su quali siano i criteri utilizzati per definire il prezzo di vendita, il nostro interlocutore ci invita a rivolgerci alla responsabile della farmacia dell'ospedale, che raggiunta al telefono, taglia corto: «I dati sono tutti coperti, non c'è alcuna cessione, è una collaborazione. Questi numeri sono quantitativi, non riconducibili ai pazienti».«Abbiamo fatto delle riunioni nel corso delle quali ci siamo interrogati sul rinnovo della convenzione» con Iqvia, ci spiega invece la dottoressa Marisa Di Sano, direttore del Provveditorato ed economato dell'Azienda ospedaliera di Caserta. Spulciando in Rete, è possibile trovare traccia di una riunione che si è tenuta nel maggio del 2018, durante la quale il vertice della struttura si trova a discutere circa l'opportunità di proseguire la collaborazione con la multinazionale, dal momento che «non risulta chiara e ben definita la modalità, il metodo e il rispetto della segretezza dei dati prelevati ai sensi della vigente normativa sul trattamento dei dati sensibili». La convocazione nasce dalla richiesta formale inoltrata un mese prima dall'avvocato Edoardo Chianese, direttore Affari generali e legali. Chianese invita i direttori a esprimere un parere sul rinnovo, facendo presente che «le informazioni chieste in convenzione possono rappresentare dati sensibili ed esprimono, in estrema sintesi, cessione di dati aventi valore commerciale». Nonostante i dubbi, qualche mese dopo la dirigenza dell'ospedale ritiene di dare comunque il nullaosta al rinnovo dell'accordo.Discorso analogo anche per l'Irccs Istituto nazionale dei tumori. «I dati che vengono raccolti dalla società Iqvia», spiega un referente alla Verità, «sono esclusivamente “dati di impiego di farmaci e dispositivi medici" forniti in forma anonima e aggregata, e non “dati personali". Pertanto non si applica il quadro regolatorio sulla protezione dei dati personali e non è richiesto alcun tipo di obbligo di informativa». Riguardo all'utilizzo dei proventi ricevuti dalla vendita, l'Istituto dichiara che questi confluiscono «in un fondo utilizzato dalla Struttura complessa Farmacia per supportare prevalentemente le attività di ricerca scientifica, che è una delle due principali attività istituzionali condotte dalla Fondazione Irccs. Parte dell'importo ricevuto può essere quindi investito in Borse di studio e/o aggiornamenti tecnologici necessari alla Sc Farmacia».I dubbi dell'ex garanteMa è davvero così semplice garantire che, a partire da un certo dato, non si riesca a risalire al paziente? Secondo Francesco Pizzetti, presidente dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali dal 2005 al 2012 e docente universitario, «un'informazione è davvero anonima quando anche chi la cede non è in grado di spiegare a quale persona fisica, identificata o identificabile, sia riconducibile: in campo sanitario, nessun dato è completamente anonimizzato». «Anonimo», continua Pizzetti, «non significa solamente trasmesso senza identificativo o nominativo del paziente: occorre garantire che il dato non si possa in alcun modo riassociare alla persona cui si riferisce, se non con un'attività particolarmente complessa e onerosa, difficile da mettere in atto». Secondo l'ex Garante, «tra le attività istituzionali di una Asl non rientra di certo la vendita di dati a società che realizzano indagini di mercato. Le Asl hanno i dati per curare i pazienti, non certo per commerciarli».Quando di mezzo c'è la salute, mettere d'accordo le esigenze della ricerca scientifica, il diritto dell'individuo alla privacy e le necessità commerciali delle aziende diventa un'impresa sempre più ardua. Nonostante tutti i caveat, a livello globale il giro d'affari legato alla compravendita dei dati sanitari si fa sempre più importante e, per quanto difficile da quantificare, si può misurare nell'ordine dei miliardi di euro all'anno. La sola holding della Iqvia ha generato nel 2018 ricavi per 10,4 miliardi di dollari (9,1 miliardi di euro circa) e utili per 259 milioni di dollari (227 milioni di euro circa). Ma non c'è solo il business legale. Una buona fetta delle transazioni che riguardano le informazioni sanitarie viene scambiata sul dark Web, il lato oscuro della Rete che racchiude tutto ciò che non è raggiungibile tramite un comune motore di ricerca. Secondo una ricerca pubblicata poche settimane fa dalla società di cybersicurezza Carbon Black, anche il mercato nero dei dati sanitari è una realtà fiorente. Si va dai 500 dollari per una finta laurea in medicina, a importi tra i 10 e i 120 dollari per ottenere documenti utili a realizzare frodi (ad esempio, ricette mediche e tessere), fino a poco più di 3 dollari per le credenziali dei portali assicurativi. Per contro, le aziende sono sempre più preoccupate per via dei continui attacchi informati. Nel report in questione si legge che l'83% delle organizzazioni del campo medico ha rilevato un incremento degli attacchi in rete, mentre il 66% ha notato che i cyberattacchi sono diventati sempre più sofisticati. 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Avvocato, quali sono le norme di riferimento che regolano la cessione di dati a terzi da parte delle aziende sanitarie? «La fonte normativa primaria in materia di trattamento dei dati personali è il Gdpr (General data protection regulation), mentre, a livello nazionale, il Codice in materia di protezione dei dati personali del 2003, recentemente riformato in adeguamento al Gdpr, regola all'articolo 110 bis il trattamento ulteriore, da parte di terzi, dei dati personali a fini di ricerca scientifica o statistici, inclusi i dati relativi alla salute». Domanda diretta: a chi può cedere i suoi dati un'azienda sanitaria e per quali finalità? «Se parliamo di dati personali, ossia di informazioni riguardanti una persona fisica identificata o identificabile, l'ambito di circolazione deve essere rigorosamente limitato ai casi in cui la comunicazione sia necessaria per lo svolgimento delle prestazioni sanitarie, o qualora la cessione sia autorizzata da specifiche norme di legge. I dati relativi alla salute trattati da un'azienda sanitaria, come previsto dal Gdpr, non dovrebbero, invece, essere assolutamente ceduti e trattati per altre finalità da parte di terzi, quali datori di lavoro, compagnie di assicurazione e istituti di credito». Può un'azienda sanitaria cedere dati a una multinazionale che fa ricerche di mercato e non ricerche scientifiche o statistiche? «L'articolo 110 bis del Codice prevede la possibilità di trattamento ulteriore dei dati personali a fini di ricerca scientifica o statistici solo da parte di soggetti terzi che svolgano principalmente tali attività e a condizione che siano adottate forme preventive di minimizzazione e di anonimizzazione dei dati, previa autorizzazione del Garante. Questa norma, singolarmente approvata prima di intraprendere l'iter di adeguamento del Codice al Gdpr, in prossimità dell'accordo - poi bloccato - tra il governo Renzi e Ibm per l'utilizzo dei dati sanitari dei cittadini italiani in cambio dell'apertura a Milano del centro Watson Health, ha sollevato sin dall'indomani della sua entrata in vigore non pochi dubbi interpretativi». Le aziende sanitarie sono tenute a informare i pazienti? Può il paziente opporsi a una eventuale cessione di dati, ancorché anonimizzati? «L'azienda sanitaria, quale titolare del trattamento, è certamente obbligata a rendere noti ai pazienti, interessati al trattamento, i destinatari o le categorie di destinatari ai quali i dati personali saranno comunicati. Tale obbligo, però, si configura quando la comunicazione abbia a oggetto dati personali, nell'accezione prima ricordata. Qualora, invece, il dato sia reso anonimo, in modo da non essere assolutamente riconducibile a una persona fisica identificata o identificabile, l'obbligo di rendere l'informativa verrebbe meno. Questo significa che il paziente non avrebbe la possibilità di opporsi a una cessione di cui non è al corrente». Le aziende sanitarie giustificano le convenzioni con le multinazionali affermando che i dati sono anonimizzati e in alcun modo riconducibili a persone identificabili. È proprio così? Ci sono dei rischi connessi alla cessione di dati? «Nel caso in cui i risultati statistici siano relativi a una popolazione ristretta e a un ambito territoriale limitato (come, ad esempio, i pazienti di un distretto sanitario) non è possibile escludere la possibilità di risalire all'identità degli interessati, tramite il raffronto e la correlazione con altre fonti di informazione». Senza contare le tecnologie di ultima generazione… «La disponibilità di sistemi di intelligenza artificiale sempre più sofisticati, associati a sistemi automatizzati di elaborazione e profilazione sempre più penetranti, rende questa possibilità realizzabile». È possibilei che i dati acquistati da queste multinazionali vengano rivenduti alle case farmaceutiche? «In mancanza di specifiche garanzie contrattuali imposte alle società che acquisiscono i dati, non si può escludere che gli stessi dati solo teoricamente anonimizzati ed eventualmente rielaborati tramite strumenti di profilazione, siano ceduti alle case farmaceutiche (e potrebbero essere interessati in tal senso tanti altri, come compagnie di assicurazione, datori di lavoro, società finanziarie…)». Cosa si può? «È essenziale svolgere controlli estesi e penetranti nei confronti delle multinazionali, pretendendo che siano rese trasparenti le loro politiche di profilazione, troppo spesso striscianti e ponendo un argine al commercio di dati, anche delicatissimi, come quelli relativi alla salute. Magari, evitando di introdurre norme ambigue e sostanzialmente prive di utilità … se non per altro genere di interessi».
Michele Emiliano (Ansa)
Fino ad oggi, però, nessun risultato. Forse la comunicazione non è stata così «forte» come fu la lettera che proprio l’allora governatore dem inviò a tutti i dirigenti e dipendenti della Regione, delle sue agenzie e società partecipate, invitandoli a interrompere i rapporti con il governo di Netanyahu «a causa del genocidio di inermi palestinesi e con tutti quei soggetti ad esso riconducibili che non siano apertamente e dichiaratamente motivati dalla volontà di organizzare iniziative per far cessare il massacro nella Striscia di Gaza».
Ora, dopo l’addio di Emiliano e l’arrivo del neo governatore Antonio Decaro, gli sprechi non sarebbero stati eliminati dalle sette società nel mirino, parzialmente o interamente controllate dalla Regione Puglia: Acquedotto spa, InnovaPuglia, Aeroporti di Puglia, Puglia valore immobiliare, Terme di Santa Cesarea, Puglia sviluppo e Aseco. Infatti, secondo il report approdato in giunta regionale nel corso dell’ultima seduta, è stato evidenziato che non c’è stata riduzione di spesa di funzionamento in nessuna di queste, anzi in tre hanno addirittura superato i limiti per consulenze (Puglia sviluppo, Acquedotto e Terme di Santa Cesarea), mentre il dato peggiore è sulle spese di acquisto, manutenzione, noleggio delle auto o di acquisto di buoni taxi. Quattro società non hanno comunicato alcun dato, mentre Aeroporti ha certificato lo sforamento. Nel dettaglio, Acquedotto pugliese, anziché contenere le spese di funzionamento, le ha incrementate di 17 milioni di euro rispetto al 2024. La giustificazione? Il maggior costo del personale «riconducibile al rinnovo del contratto collettivo nazionale», ma pure «l’incremento delle risorse in forza alla società, spese legali, assicurazioni, convegni, pubblicità e marketing, buoni pasto, costi postali non ribaltabili all’utenza nell’ambito della tariffa del Servizio idrico integrato».
Per quanto riguarda le consulenze, invece, Aqp sostiene che, essendo entrati i Comuni nell’assetto societario, nella fase di trasformazione sono stati necessari 639.000 euro per le consulenze.
Aeroporti di Puglia attribuisce l’aumento di spese all’organizzazione del G7, anche se l’incremento dell’8,44%, secondo la società, «è comunque inferiore all’aumento del traffico registrato nel 2024 rispetto al 2023 (+10,51%) e quindi dei ricavi. Spese superate, alla faccia del risparmio, anche per auto e taxi: 120.000 euro in più. Costi lievitati anche per InnovaPuglia, la controllata che si occupa di programmazione strategica a sostegno dell’innovazione: 12 milioni di euro nel 2024 a fronte dei 7 milioni del 2023, passando, in termini percentuali sul valore della produzione, dal 18,21% al 43,68%. Di Aseco, la società in house controllata da Aqp e Ager che si occupa di smaltimento di fanghi e frazione organica dei rifiuti urbani, non si hanno dati aggiornati al punto che è stata sollecitata dalla stessa Regione a comunicarli.
Insomma, secondo la Regione, se aumentano i costi vanno ridotti i servizi poiché il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica prevede quella di contenere le spese di funzionamento individuando specifici obiettivi di spesa come quelli per il personale e quelli per consulenze, studi e ricerche. E la stessa Regione, che ha potere di vigilanza e di controllo, dove accerta «il mancato e ingiustificato raggiungimento degli obiettivi di contenimento della spesa» può «revocare gli incarichi degli organi di direzione, amministrazione e controllo nominati nelle società». La palla passa a Decaro.
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Inizialmente, la presentazione della strategia della Commissione avrebbe dovuto avvenire mercoledì, ma la lettera di Friedrich Merz del 28 novembre diretta a Ursula von der Leyen ha costretto a ritardare la comunicazione. In quel giorno Merz, appena ottenuto dal Bundestag il via libera alla costosa riforma delle pensioni, si era subito rivolto a Von der Leyen chiedendo modifiche pesanti alle regole sul bando delle auto Ice al 2035. Questa contemporaneità ha reso evidente che il via libera alla richiesta di rilassamento delle regole sulle auto arrivava dalla Spd come contropartita al sì della Cdu alla riforma delle pensioni, come spiegato sulla Verità del 2 dicembre.
Se il contenuto della revisione dovesse essere quello circolato ieri, vorrebbe dire che la posizione tedesca è stata interamente accolta. I punti di cui Bloomberg parla, infatti, sono quelli contenuti nella lettera di Merz.
Non è ancora chiaro quale sarà la quota di veicoli ibridi plug-in e ad autonomia estesa che potranno essere immatricolati dopo il 2035, né se la data del 2040 sarà mantenuta. Anche i dettagli tecnici chiave sugli e-fuel e sui biocarburanti avanzati non ci sono. Resta poi ancora da precisare (da anni) quale metodo sarà utilizzato per il Life cycle assessment (Lca), ovvero i criteri con cui si valutano le emissioni nell’intero ciclo di vita dei veicoli elettrici. Non si tratta di un banale dettaglio tecnico, ma dell’architrave delle nuove regole, da cui dipenderanno tecnologie e modelli in futuro. Un Lca avrebbe già dovuto essere definito entro il 31 dicembre di quest’anno dalla Commissione, ma ancora non si è visto nulla. Contabilizzare l’acciaio green nella produzione di veicoli significa dotarsi di un metodo Lca condiviso, così finalmente si saprà quanto emette davvero un veicolo elettrico (sempre se il Lca è fatto bene).
Qualche giorno fa, sei governi Ue, tra cui quello italiano, affiancato da Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Repubblica Ceca, in scia alla Germania, avevano chiesto alla Commissione di proporre un allentamento delle regole sulle auto, consentendo gli ibridi plug-in e le auto con autonomia estesa anche dopo il 2035. In una situazione in cui l’assalto al mercato europeo da parte dei marchi cinesi è appena iniziato, le case del Vecchio continente faticano a tenere il passo. L’incertezza normativa è però anche peggio di una regola fatta male. L’industria europea dell’auto si sta preparando a mantenere in produzione modelli con il motore a scoppio anche dopo il 2035, con la relativa componentistica, ma tutta la filiera, che coinvolge milioni di lavoratori in Europa e fuori, ha bisogno di certezze.
Intanto, l’applicazione al settore auto della norma «made in Europe», che dovrebbe servire a proteggere l’industria europea stabilendo quote minime di componenti fatti al 100% in Europa, è stata rinviata a fine gennaio. La regola, fortemente voluta dalla Francia ma che lascia la Germania fredda, si intreccia con la richiesta di dazi sulle merci cinesi fatta da Macron. Avanti (o indietro) in ordine sparso.
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Un concetto già smentito da Fdi che in un dossier sulle fake news relative proprio all’oro di Bankitalia, ha precisato l’infondatezza dell’allarmismo basato sulla errata idea di volersi impossessare delle riserve auree per ridurre il debito. E nello stesso documento si ricordava invece come questa idea non dispiacesse al governo di sinistra di Romano Prodi del 2007. Peraltro nel dossier si precisa che la finalità dell’emendamento è di «non far correre il rischio all’Italia che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani».
Per due volte la Banca centrale europea ha puntato i piedi, probabilmente spinta dal retropensiero che il governo voglia mettere le mani sull’oro detenuto e gestito da Bankitalia, per venderlo. Ma anche su questo punto da Fdi hanno tranquillizzato. Nel documento esplicativo precisano che «al contrario, vogliamo affermare che la proprietà dell’oro detenuto dalla Banca d’Italia è dello Stato proprio per proteggere le riserve auree da speculazioni». Il capitale dell’istituto centrale è diviso in 300.000 quote e nessun azionista può detenere più del 5%. I principali soci di Via Nazionale sono grandi banche e casse di previdenza. Dai dati pubblicati sul sito Bankitalia, primo azionista risulta Unicredit (15.000 quote pari al 5%), seguono con il 4,93% ciascuna Inarcassa (la Cassa di previdenza di ingegneri e architetti), Fondazione Enpam (Ente di previdenza dei medici e degli odontoiatri) e la Cassa forense. Del 4,91% la partecipazione detenuta da Intesa Sanpaolo. Al sesto posto tra gli azionisti, troviamo la Cassa di previdenza dei commercialisti con il 3,66%. Seguono Bper Banca con il 3,25%, Iccrea Banca col 3,12%, Generali col 3,02%. Pari al decimo posto, con il 3% ciascuna, Inps, Inail, Cassa di sovvenzioni e risparmio fra il personale della Banca d'Italia, Cassa di Risparmio di Asti. Primo azionista a controllo straniero è la Bmnl (Gruppo Bnp Paribas) col 2,83% seguita da Credit Agricole Italia (2,81%). Bff Bank (partecipata da fondi italiani e internazionali) detiene l’1,67% mentre Banco Bpm (i cui principali azionisti sono Credit Agricole con circa il 20% e Blackrock con circa il 5%) ha l’1,51%.
Un motivo fondato quindi per esplicitare che le riserve auree sono di proprietà di tutti gli italiani. Il che, a differenza di quanto sostenuto da politici e analisti di sinistra, «non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. Non si comprende quindi la levata di scudi di queste ore nei confronti della proposta di Fdi. A meno che, ed è lecito domandarselo, chi oggi si agita non abbia altri motivi per farlo».
C’è poi il fatto che «alcuni Stati, anche membri dell’Ue, hanno già chiarito che la proprietà delle riserve appartiene al popolo, nella propria legislazione, mettendolo nero su bianco, a dimostrazione del fatto che ciò è perfettamente compatibile con i Trattati europei». Pertanto si tratta di un emendamento «di buon senso».
La riformulazione della proposta potrebbe essere presentata oggi, come annunciato dal capogruppo di Fdi in Senato, Lucio Malan. «Si tratta di dare», ha specificato, «una formulazione che dia maggiore chiarezza». Nella risposta alle richieste della presidente della Bce, Christine Lagarde, il ministro Giorgetti, avrebbe precisato che la disponibilità e gestione delle riserve auree del popolo italiano sono in capo alla Banca d’Italia in conformità alle regole dei Trattati e che la riformulazione della norma trasmessa è il frutto di apposite interlocuzioni con quest’ultima per addivenire a una formulazione pienamente coerente con le regole europee.
Risolto questo fronte, altri agitano l’iter della manovra. L’obiettivo è portare la discussione in Aula per il weekend. Il lavoro è tutto sulle coperture. Ci sono i malumori delle forze dell’ordine per la mancanza di nuovi fondi, rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura di infrazione, e ieri quelli dei sindacati dei medici, Anaao Assomed e Cimo-Fesmed, che hanno minacciato lo stato di agitazione se saranno confermate le voci «del tentativo del ministero dell’Economia di bloccare l’emendamento, peraltro segnalato, a firma Francesco Zaffini, presidente della commissione Sanità del Senato con il sostegno del ministro della Salute», che prevede un aumento delle indennità di specificità dei medici, dirigenti sanitari e infermieri. In ballo, affermano le due sigle, ci sono circa 500 milioni già preventivati. E reclamano che il Mef «licenzi al più presto la pre-intesa del Ccnl 2022-2024 per consentire la firma e quindi il pagamento di arretrati e aumenti».
Intanto in una riformulazione del governo l’aliquota della Tobin Tax è stata raddoppiata dallo 0,2% allo 0,4%.
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