2022-08-06
Le 5 C non sono la sola unicità del cacciucco
Il piatto identitario livornese curiosamente è anche l’unico termine della lingua italiana ad avere cinque consonanti uguali. Una ventata di contaminazioni etniche in cui il pesce di paranza si mescola alla tradizione ebraica e al contraltare ottomano.Citare Livorno e pensare al cacciucco è un gemellaggio automatico, eppure andando a scavare nella storia della città e del suo piatto simbolo vi è una fonte di scoperte che rende ancora una volta ragione del fascino di quella che viene anche definita cultura materiale, ovvero dello stretto legame che, soprattutto nel bel Paese, vi sia tra un territorio e la sua derivazione naturale a tavola. Livorno è l’unica città Toscana a non avere origini che risalgono all’epoca etrusca o romana. Il cambio di passo nel 1593 con le leggi livornine volute da Ferdinando I dei Medici per favorire l’incremento demografico del borgo marinaro. Veniva concessa la cittadinanza senza distinzione di razza o religione, favorendo così l’arrivo di una borghesia mercantile che avrebbe tratto vantaggio dal fatto che Livorno diventava porto franco. Un melting pot che rese la città un incrocio di popoli e civiltà diverse. Importante la presenza della componente ebraica, in particolare quella in fuga da Spagna e Portogallo, che portò con sé anche piccoli tesori in arrivo dal nuovo mondo, pomodoro e peperoncino. Ebrei attirati a Livorno anche da una visione senza preclusioni verso «il diverso», tanto che potevano alloggiare (e commerciare) liberamente senza essere costretti a stiparsi dentro un ghetto. Al punto che, Livorno, arrivò ad essere la più importante comunità ebraica della penisola con il 20 per cento dei residenti. Inevitabili le contaminazioni culinarie, in primis le triglie alla livornese, rilettura delle tradizionali triglie alla mosaica, oppure il cuscussù. Non da meno importante la componente ottomana, o berbera, sia come élite commerciale per i traffici con i porti orientali del Mediterraneo, ma pure con i predoni che, al largo del Tirreno, assalivano le numerose navi mercantili. Per questo motivo a Livorno vennero costruiti i bagni penali, delle carceri molto originali. Vi erano numerosi forni dove i detenuti preparavano le gallette, ovvero quel pane essiccato di lunga conservazione utile da stipare nelle stive delle navi che prendevano le varie rotte del Mediterraneo. Basti pensare che la fornitura media era di circa cinquecento quintali di prodotto. Poteva capitare che, una volta scontata la pena, fossero gli stessi soggetti che chiedevano di poter continuare ad essere ospitati tra quelle mura, con la libertà di muoversi nella città labronica, alcuni dedicandosi al contrabbando di sale e tabacco, altri guadagnandosi da vivere con varie attività, compresa quella culinaria, iniettando quindi contaminazioni orientali nella tradizione locale, peraltro tutta da costruire, della giovane Livorno del XVII secolo. Su una città quindi che si arricchiva di culture e tradizioni diverse (Aldo Santini la definì un «cacciucco di genti») non poteva che svilupparsi la sua evoluzione naturale a tavola, ovvero il cacciucco (rigorosamente con 5C). Curiosamente è anche l’unico termine della lingua italiana ad essere così palestrato da cinque consonanti uguali. Con queste premesse figurarsi quante sfide per individuarne i geni che lo hanno portato a diventare tradizione identitaria della città. Vige la necessaria premessa. Nella cucina di una economia di sussistenza si faceva tesoro di quanto natura offriva, e quindi il frutto della pesca quotidiana. La tradizione delle zuppe o dei brodetti di pesce è una costante lungo tutta la costa nazionale, dalla buridda ligure alle infinite varianti che si trovano sulla costa adriatica, ma nessuna di queste realtà ha avuto le contaminazioni che hanno reso originale il cacciucco. All’inizio vi è una sorta di versione «precolombiana», ossia una zuppa di pesce e pane raffermo, che veniva così riutilizzato per assorbire il brodo. Poi, con l’arrivo del pomodoro e del peperoncino ebraico, il piatto comincia ad assumere una sua propria identità. Il pomodoro serve a dare consistenza nell’accompagnare l’unione di pane e pescato. Il peperoncino, oltre a donare intrigante piccantezza al gusto, ha anche un effetto cosmetico, nell’attenuare una qualità del prodotto ittico non sempre di prima scelta. Giunti a questo punto, siamo sul finire del Seicento, si inserisce una seconda attribuzione di paternità, dopo quella ebraica, ovvero il contraltare ottomano. Ne racconta Giuseppe Chionetti che, per alcuni anni, ha vissuto a Smirne, sulla costa turca. Protagonista un certo Ahmet, un giovanetto originario di quelle coste, che seguiva di giorno il padre a pesca e, la sera, la mamma in cucina, la quale provvedeva a valorizzare il pescato di scarto, quello non venduto, con delle zuppe che piacevano molto ai clienti dell’osteria di famiglia. Curioso del mondo, il giovane Ahmet incontrò Ozgur, un ricco mercante le cui navi facevano la spola con il porto franco di Livorno. Lo seguì e, una volta sbarcato, venne attratto da questa pulsante città cosmopolita. Decise di non tornare in patria e mettere a frutto il suo talento, ovviamente ai fornelli. Applicò gli insegnamenti di mamma Mirjam in cucina e l’esperienza che gli aveva trasmesso il padre mentre issavano le reti all’alba. Ozgur lo aiutò ad avviare la sua piccola attività di oste. Scoprì il pomodoro, abbandonò i familiari capperi e vide che la salvia che si era portato con sè, quale ricordo e conforto delle sue origini, era presente anche ai mercati di Livorno, fiorente centro di scambio anche di spezie, grazie all’incrocio delle vie commerciali che si erano create. I mezzi finanziari erano scarsi e, quindi, quando si recava al mercato, ai pescivendoli che lo attiravano per vendergli il meglio, ripeteva «kuçuk balik», pesci piccoli. Oramai era diventato una sorta di suo soprannome. Ma la zuppa di kuçuk che preparava per i suoi avventori, utilizzando anche le gallette che gli vendevano i connazionali provenienti dai bagni penali, divenne ben presto meta golosa e affidabile per tutta Livorno. Nasce così il cacciucco come lo conosciamo noi. Una ventata di contaminazioni etniche che, evidentemente, non poteva trovare tutti d’accordo, tanto che, a metà Ottocento, era in voga una versione molto più popolare raccontata da Giulio Picci, in arte Jarro, autorevole penna de La Nazione, testimone della generosità popolare nell’Italia appena riunificata dai Savoia. Si narra di una giovane vedova, con tre bimbi piccoli, il cui marito, impegnato a pesca per mantenere la famiglia, venne travolto dal maestrale. Impietositi, i colleghi dello sfortunato naufrago fecero una colletta offrendo per un po’ di tempo quel che rimaneva loro nelle reti. Piccoli totani, qualche scorfano, polpi e seppioline. La giovane vedova si mise di impegno per ricambiare tanta generosità e quella zuppa che lei preparava iniziò presto ad attirare anche i vicini tanto da diventare per lei piccola fonte di sostentamento per la famiglia. Probabilmente Jarro si ispirò a una realtà poi ben descritta da un altro cronista livornese, il bravo Otello Chelli: «Vi erano molte madri di famiglia che si recavano al mercato in attesa che si vendesse il pesce migliore, e poi si contendevano tra loro la minutaglia, gli scarti liscosi e spinosi, così da garantire il pranzo alle bocche di una famiglia sempre troppo numerosa». In realtà il cacciucco appartiene a quelle eredità trasmesse per via orale e visiva lungo le varie generazioni di una comunità, posto che, nonostante la sua lunga tradizione, la prima citazione scritta avviene per opera di Giuseppe Rigutini, nel 1864, nel suo Vocabolario dell’uso toscano.
Nella prima mattinata del 28 ottobre 2025 la Guardia di Finanza e la Polizia di Stato hanno eseguito numerose perquisizioni domiciliari in tutta Italia ed effettuato il sequestro preventivo d’urgenza del portale www.voltaiko.com, con contestuale blocco di 95 conti correnti riconducibili all’omonimo gruppo societario.
Si tratta del risultato di una complessa indagine condotta dal Nucleo Operativo Metropolitano della Guardia di Finanza di Bologna e dal Centro Operativo per la Sicurezza Cibernetica per l’Emilia-Romagna, sotto la direzione del Pubblico Ministero Marco Imperato della Procura della Repubblica di Bologna.
Un’azione coordinata che ha visto impegnate in prima linea anche le Sezioni Operative Sicurezza Cibernetica delle varie Regioni e gli altri reparti territoriali della Fiamme Gialle nelle province di Bologna, Rimini, Modena, Milano, Varese, Arezzo, Frosinone, Teramo, Pescara, Ragusa.
L’operazione ha permesso di ricostruire il modus operandi di un gruppo criminale transnazionale con struttura piramidale tipica del «network marketing multi level» dedito ad un numero indeterminato di truffe, perpetrate a danno anche di persone fragili, secondo il cosiddetto schema Ponzi (modello di truffa che promette forti guadagni ai primi investitori, a discapito di nuovi investitori, a loro volta vittime del meccanismo di vendita).
La proposta green di investimenti nel settore delle energie rinnovabili non prevedeva l’installazione di impianti fisici presso le proprie abitazioni, bensì il noleggio di pannelli fotovoltaici collocati in Paesi ad alta produttività energetica, in realtà inesistenti, con allettanti rendimenti mensili o trimestrali in energy point. Le somme investite erano tuttavia vincolate per tre anni, consentendo così di allargare enormemente la leva finanziaria.
Si stima che siano circa 6.000 le persone offese sul territorio nazionale che venivano persuase dai numerosi procacciatori ad investire sul portale, generando un volume di investimenti stimato in circa 80 milioni di euro.
La Procura della Repubblica di Bologna ha disposto in via d’urgenza il sequestro preventivo del portale www.voltaiko.com e di tutti i rapporti finanziari riconducibili alle società coinvolte e agli indagati, da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva.
Nel corso delle perquisizioni è stato possibile rinvenire e sottoporre a sequestro criptovalute, dispositivi elettronici, beni di lusso, lingotti d’oro e documentazione di rilevante interesse investigativo.
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