2021-03-25
«L'Azerbaigian liberi i prigionieri armeni»
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Parata militare a Baku dopo la vittoria azera in Nagorno-Karabakh (Epa/Ansa)
È un appello all'Azerbaigian per il rilascio dei prigionieri armeni quello che è stato firmato da alcune personalità italiane, tra cui Antonia Arslan, Dacia Maraini, Laura Efrikian, Carlo Verdone e Giovanni Donfrancesco.
È un appello all'Azerbaigian per il rilascio dei prigionieri armeni quello che è stato firmato da alcune personalità italiane, tra cui Antonia Arslan, Dacia Maraini, Laura Efrikian, Carlo Verdone e Giovanni Donfrancesco.«È estremamente allarmante», si legge nel documento, «che, nonostante la Dichiarazione tripartita di cessate il fuoco firmata dai leader di Armenia, Azerbaigian e Russia il 9 novembre 2020, centinaia di prigionieri di guerra armeni e civili, tra cui anche donne, restino prigionieri e non siano ancora stati rilasciati dall'Azerbaigian. Molti di loro sono stati catturati dopo la fine delle ostilità». «Ci appelliamo all'Azerbaigian», prosegue la petizione, «perché restituisca immediatamente e incondizionatamente tutti i prigionieri di guerra e tutte le altre persone catturate alle loro famiglie in conformità con le Convenzioni di Ginevra e con la Dichiarazione tripartita. Tutti gli ostacoli per il rilascio dei prigionieri di guerra armeni politicizzano il processo di ripresa umanitaria postbellica». «Crediamo fermamente», conclude il documento, «che il rilascio immediato di tutte le persone catturate sia una questione puramente umanitaria e non debba essere soggetto ad alcuna manipolazione e politicizzazione. Pertanto, sollecitiamo l'Azerbaigian ad astenersi dall'utilizzo di questa questione per scopi politici e a permettere a tutti i prigionieri di riabbracciare i loro cari al più presto possibile».Secondo quanto riferito appena pochi giorni fa da Human Rights Watch, «le forze azere hanno abusato dei prigionieri di guerra armeni del conflitto del Nagorno-Karabakh del 2020, sottoponendoli a trattamenti crudeli e degradanti e torture sia quando sono stati catturati, durante il loro trasferimento, sia mentre erano detenuti in varie strutture di detenzione». Non solo: l'organizzazione ha anche esortato l'Azerbaigian a rilasciare "tutti i prigionieri di guerra e i civili detenuti rimanenti". In particolare, Human Rights Watch ha reso noto di aver intervistato quattro ex prigionieri di guerra che hanno raccontato di svariati maltrattamenti subiti, tra cui: percosse, bruciature, scosse elettriche e utilizzo di lame. Oltre a queste interviste, l'organizzazione ha fatto anche riferimento a video e documenti medici. Al momento sarebbero (almeno) sessanta i prigionieri armeni nelle mani degli azeri, trattenuti con l'accusa di sospette attività terroristiche. Insomma, non si placano le drammatiche preoccupazioni per quanto sta avvenendo nel Nagorno-Karabakh. Al di là delle (gravissime) accuse di abusi e torture ai danni dei detenuti armeni, sono mesi che si registrano apprensioni anche per il patrimonio culturale cristiano della regione: patrimonio che risulterebbe sottoposto ad atti di vandalismo (se non di vera e propria cancellazione) da parte delle forze azere. Sulla questione, si è espressa – la scorsa settimana – anche l'Assemblea interparlamentare dell'Ortodossia, sottolineando "la necessità di salvaguardare i monumenti della civiltà mondiale, di fronte a decisioni e azioni che li minacciano di distruzione o alterazione del loro carattere" e invocando, per il Nagorno-Karabakh, protezione da parte dell'Onu e dell'Unesco. «Chiediamo quindi all'Onu e all'Unesco di contribuire alla protezione della ricchezza culturale e dei monumenti del popolo armeno, ora sotto l'amministrazione dell'Azerbaigian, e di non consentire cambiamenti nel loro uso o distruzione», si legge in una nota.Tutto questo, senza infine dimenticare i risvolti geopolitici di quanto sta accadendo nella regione ai danni degli armeni. Ricordiamo che, nel corso del conflitto, le forze azere sono state spalleggiate dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan, desiderosa di rafforzare la propria influenza sul Caucaso e di sferrare un duro colpo ad Erevan. Il che pone evidentemente un problema, più in generale, pure sul fronte della politica estera aggressiva di Ankara: una politica estera che rischia di produrre conseguenze problematiche anche in altre aree del globo.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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