2019-04-16
«Lavorare meno, ma la sinistra non capisce»
Il sociologo Domenico De Masi: «Pasquale Tridico ha ragione quando dice che bisogna ridurre gli orari, a parità di salari, però gli sono saltati addosso. I dem? Con quei numeri si salvano solo andando con i grillini. Quella volta con Gustavo Zagrebelsky davanti al cinema a luci rosse».(Sospira). «La partita della politica oggi si gioca su questo semplice problema: capire la sfida del futuro». Quale sfida? «La riduzione dell'orario di lavoro. Possibilmente a parità di salario. L'unico che ne ha parlato è Pasquale Tridico, il presidente dell'Inps, e gli sono saltati addosso». Sono due cose difficili. Sono possibili? «Sono indispensabili. Entrambe». Perché?«Siamo in un passaggio di crisi così drammatico che se non cambi paradigma ora, subito, intere economie collasseranno. Lo Stato sociale andrà in frantumi». Professore, lei queste cose le dice da trent'anni. «Ma adesso accadono. E qualcuno lo sta capendo». Proviamo a spiegarlo. «Passiamo da un'era in cui entravi in fabbrica a 16 anni e andavi in pensione senza perdere un giorno di contributi o un giorno di disoccupazione».E oggi? «Siamo in un tempo in cui fai 30 lavori diversi in 30 anni, talvolta senza cumulare una busta paga o un solo anno di contributi». Questo è vero. «Come può reggere il vecchio sistema se non lo ripensi? Se non c'è un paracadute?».Con chi ce l'ha? «In primo luogo con la sinistra da cui provengo. Se l'ho capito io negli anni 90 come può non capirlo la Cgil oggi?». Perché ha criticato Tridico? «Esatto. Ha detto di sì solo la Uil, il sindacato teoricamente più a destra. Ma quando la frontiera è l'innovazione saltano i vecchi parametri. Gli altri pensano che sia un'idea di Bertinotti, invece è Keynes!».Ma come si può fare a parità di salario? «È cambiato il lavoro. Non si producono più bulloni ma idee. Riducendo il lavoro aumenta la produttività». Anche nell'industria?«Soprattutto. Perché adesso le nuove macchine saranno ovunque. Meno lavori più produci, perché l'uomo potrà solo far lavorare le macchine». È ancora utopia. «Ma se io le dico che dal primo gennaio i metallurgici di un Paese faranno 28 ore?». Dove? «E se io le dico che hanno avuto un aumento del 4% di stipendio?». Dove? (Ride). «E se io le aggiungo che questo aumento lo ottengono se stanno a casa e si occupano di lavoro domestico?». In che Paese? «In Germania. Ma se lo hanno capito i tedeschi, perché non lo capiscono questi?».Me lo spieghi lei. «Mi dice perché una legge così intelligente non la possiamo fare noi?». Quando inizia questa riflessione? «Con un profeta: Keynes. Nel 1930, a Madrid si riunisce la Società delle nazioni e il re di Spagna vuole regalare ai capi di Stato una sua conferenza». E Keynes va. «Sì. E la intitola: Prospettive per i nostri nipoti». Bello. Quei nipoti siamo noi.«Se fa due conti vede che è così. Keynes spiega poche cose chiare. Che si arriverà a un punto in cui la riduzione dell'orario del lavoro avverrà. E che quando accadrà ci sarà una crisi sociale enorme». È accaduto. «Dice che il lavoro e la ricchezza la faranno le macchine. E che a quel punto il problema sarà come gli uomini impiegheranno il loro tempo libero. Chiosando: “Esiste un solo esempio di cosa accadrà"». Quale? «Le mogli dei ricchi. Ma - aggiunge - non sono un modello perché sono tutte isteriche». Ah ah ah. Soluzione? «L'unica, ancora oggi: la cultura. Solo la cultura può impedire droga e depressione». Pazzesco. «Sa chi lo capì? Giovanni Agnelli, nonno dell'Avvocato. Voleva ridurre l'orario di lavoro. Scrisse a Einaudi».E cosa gli rispose? «“Non lo faccia! Sarebbe un errore!". Agnelli gli mandò un'altra lettera, ma non ho trovato risposte. Non ridusse l'orario, ovviamente. Però era troppo avanti». Domenico De Masi è il sociologo più famoso in Italia. Da una vita a sinistra, ha destato scandalo quando ha dichiarato di aver fatto da tutor ad alcuni parlamentari del M5s. La sua storia pare un romanzo di Dickens. Piena di lutti, dolori, ma anche, come dice lui «Di grandi colpi di fortuna». Per esempio il modo in cui arrivò alla sociologia. «Un giorno su una porta all'università leggo un biglietto: “Antropologia culturale". Entro. C'era un professore che parlava: Tullio Seppilli. Raccontava di fattucchiere, credenze popolari». Incredibile per l'epoca. «Io gli faccio: “Ma dove si studiano queste cose?". E lui: “In Francia. Questa si chiama sociologia". A Parigi ci sono corsi estivi. E io prendo e parto. Quando torno sono di nuovo fortunato. Ero sociologo, e in Italia eravamo in pochi». Ora dicono che questa laurea non serve. «Guardi. Gli unici economisti che si salvano sono quelli che sono un po' sociologi. Smith, Keynes e Pareto. Tutti sociologi!». E gli altri? «Salvo eccezioni, non capiscono un cazzo». A un certo punto diventa assistente universitario. «A Napoli. Ermini era il rettore dell'Università di Perugia. Mi fa una lettera: “Utilizzate De Masi, ne vale la pena!"». E lei va dal rettore. «Che mi dice: “Ma sta sociologia, che r'è?". Poi chiama la segretaria: “A' tenimm?"». Non ci credo. «La segretaria dice: “Abbiamo una cattedra di sociologia criminale". E lì vado». All'epoca cosa votava? «Ho sempre votato Pci, Pds, Ds, fino al 2013». Nel 1966 entra in cattedra. «Sì: Scienze sociali. Un'altra fortuna. I primi tre anni si dovevano fare fuori sede e scelgo Sassari dove si inaugurava Scienze politiche. Mi ritrovo con questi giovani: Bassanini. Onida, Zagrebelsky, Signorile e Giovanni Berlinguer». Divertenti? «Tre anni da Dio. 1967-1970. Dormivamo tutti nello stesso albergo». Aneddoto? «Zagrebelsky era teutonico. E Sassari non c'era cinema, proiettavano solo film pornografici». E voi? «Un giorno guardavamo i cartelloni, per vedere se c'era altro, e Gustavo era imbarazzato: “Ci riconoscono!"». E lei? «Ma figurati! Invece passa uno e subito gli dice: “Hai capito i professori?". Ah ah ah!».Dopodiché torna a Napoli. «La città era uscita dall'incubo di Lauro. A Napoli c'erano tre riviste: Napolitano e Chiaromonte dirigevano Cronache meridionali». E lei entra in rapporti con il futuro presidente. «Fu il primo a capire cosa intendevo per società post-industriale. Gli economisti non lo hanno ancora capito oggi». Perché? «Applicano le teorie industriali alla società post-industriale. Anche molte cazzate fatte dal Pd derivano da questo». Scrive saggi importanti: La negazione urbana e L'avvento post-industriale. «Il mio lavoro determinò una spaccatura nella sinistra. Scrivevo che si andava verso una società in cui il terziario prevale sulla classe operaia». Oggi è banale. E come viene accolta la tesi? «Mi considerano quasi un traditore. Il mio amico Aris Accornero mi toglie il saluto per un anno. E mi difende proprio Napolitano». Davvero? «L'Iri mi aveva mandato in Zaire. Ero lì quando il comitato centrale del Pci vota un documento in cui c'è scritto: “In quest'epoca post-industriale". Nasce un dibattito, Mussi propone un emendamento: “Scriviamo Capitalismo maturo". E passa, 71 voti contro 42». Lei torna in Italia. «Napolitano prese il resoconto e me lo mise nella cassetta delle lettere, sottolineato in rosso, per dire: “Guarda!"».Lei scrive altre eresie, ne L'emozione e la regola. «Che il futuro erano le professioni intellettuali. Che la leadership sarebbe passata ai creativi. Che il lavoro creativo non sarebbe più stato individuale. Tutte cose oggi banali». Storia che nel 2013 lei porta nel suo rapporto con il M5s. «Per il mio mondo fu uno choc. Mi hanno detto traditore, frivolo, rimbecillito. Mi divertivo a vedere le reazioni».Perché questo strappo? «Fu doloroso. Ma vedevo le leggi votate dalla sinistra. Diventavano da socialdemocratiche a liberiste e confuse». Perché? «Il renzismo ha portato caos e analfabetismo: ma era un processo globale. Il liberalismo è diventato neoliberismo. Tutti i professori, tutti i governi, tutti gli stati sono diventati neoliberisti. Ed è aumentato il divario tra ricchi e poveri». Cosa la stupisce? «Il modo come gli intellettuali tronfi che esaltavano il marxismo dogmatico siano diventati neo liberisti. Un giorno sento D'Alema dire: “Basta con il posto fisso". E resto di sasso». Nel 2013 ci sono le politiche. Il M5s prende il 27%. «Quando vedo i Meetup mi metto a studiare il Movimento. Un giorno mi telefona un loro deputato: “Sette di noi sono in commissione lavoro ma non sono ancora preparati. Potrebbe farci un seminario?"». Lei cosa risponde? «Senza dubbio. Una di loro era una caposala, gli altri operai. E gli dico: “Voi dovete combattere contro vecchi marpioni, dovete studiare". Si impegnarono come matti. Uno di loro, Claudio Cominardi, oggi è sottosegretario al lavoro». E lei poi fa per loro la famosa Ricerca previsionale sul lavoro. «Impegna 15 persone per otto mesi, e ce la pagano 56.000 euro. Calcoli che io non ho preso un euro». Sallusti la attacca. «Non mi ferisce quello. Ma che uno del Pd come Andrea Romano mi insulti mesi dopo come se fossi un tangentista».Perché le fa male? «Sono andato a votare Zingaretti, ma capisco che questi non cambiano. Sono stati selezionati da Renzi tra i più odiosi, i più arroganti e i più ostili alla questione sociale e al M5s». E cosa ne pensa? «Così non recupereranno mai i voti perduti a sinistra. Perché sono neoliberisti e persino antipatici». Cosa ha guadagnato con il suo strappo? «Personalmente nulla. Ho solo un potere di influenza, con le mie idee. Ma se dopo il decreto Dignità e il reddito passa la riduzione dell'orario di lavoro potrò dire di aver fatto qualcosa di utile». E il Pd? «Con questi numeri o capisce che si può solo alleare con il M5s...».Oppure? (Sospiro) «Governerà Salvini per altri cento anni».
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