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2018-05-10
L’autopsia di Sana svela l’orrore: «Collo rotto, è stata strangolata»
ANSA
Strano «malore», quello che ha ucciso Sana Cheema, la 25enne italopakistana morta a metà aprile in circostanze misteriose, nel Paese di cui sono originari i suoi genitori. Di «malore», forse di un infarto, aveva parlato il padre, respingendo le accuse giunte dall'Italia che prefiguravano un delitto avvenuto in famiglia. C'è solo una piccola falla, nella versione dell'uomo: che tipo di malore è quello che spezza l'osso del collo?
I risultati dell'autopsia realizzata dal laboratorio forense del Punjab parlano chiaro: Sana è morta per strangolamento. Gli esami, di cui stanno parlando in queste ore i media pakistani, mostrano che «l'osso del collo è stato rotto». Tutto lascerebbe pensare, insomma, che la pista dell'omicidio acquisisca forza. Una vittoria, per quanto amara, degli amici italiani della ragazza, che a quella strana morte per un improbabile infarto. Loro la conoscevano, sapevano dei suoi conflitti familiari, di un matrimonio combinato a cui la giovane voleva sottrarsi. L'avevano vista partire e mai più tornare. Vedremo ora come si evolverà la vicenda da un punto di vista giudiziario.
Già il solo fatto di aver ottenuto l'esame autoptico, tuttavia, può essere considerato un passo importante. Sana, infatti era stata sepolta il 18 aprile scorso, in tutta fretta, dalla famiglia. Che aveva dimostrato ulteriore malafede arrivando a falsificare addirittura i certificati medici per avvalorare la tesi della morte per malattia. Man mano che la vicenda destava scalpore, prima in Italia e poi in Pakistan, il padre della ragazza aveva cercato di fornire una versione minimamente credibile della decesso, parlando di un lungo ricovero con relative cure ospedaliere. La struttura in questione, tuttavia, aveva smentito di aver ricoverato e curato Sana. «È stata nella clinica per una visita l'11 aprile, le sono stati prescritti farmaci contro la nausea ma non è stata trattenuta», avevano dichiarato i medici. I genitori della giovane, insomma, avevano consegnato documenti falsificati all'ambasciata italiana.
I risultati dell'autopsia sono stati diffusi on line anche da Jabran Fazal, presidente dell'associazione culturale Pak Brescia, che li ha messi sui social network e ha espresso la sua condanna per quello che ormai, a tutti gli effetti, possiamo considerare un omicidio. «La comunità pakistana di Brescia», ha detto ieri l'uomo, «ha appreso la notizia ed esprime oltre alla rabbia e dolore una forte condanna per questo atroce delitto. Stiamo organizzando una manifestazione di solidarietà e ricordo per Sana Cheema. Appena ci saranno gli aggiornamenti, saremo i primi a diffondere, perché siamo la verità e giustizia». La presa di distanza dal delitto, una volta tanto, sembra netta e priva di ambiguità: «Chi ha ucciso deve pagare, chi ha sbagliato deve essere perseguito. Nessuno pensi che siamo conniventi, che approviamo questo orrore, la comunità pakistana del Bresciano è composta da 12.000 persone e non puo essere condannata per il comportamento sbagliato di una persona, di una famiglia».
Adesso, per il padre della ragazza, Ghulam Mustafa, per il fratello, Adnan Mustafa , e per lo zio, Mazhar Iqbal, le cose si mettono decisamente male. I tre erano in arresto già da alcune settimane, segno che persino la polizia pakistana aveva ritenuto che la versione iniziale diffusa dalla famiglia faceva acqua da tutte la parti. O, almeno, la versione che veniva dalla parte maschile dalla famiglia, perché, in questa confusa storia, sembrerebbe che la madre di Sana abbia avuto un ruolo in controtendenza, denunciando anch'essa il possibile omicidio.
Sana Cheema, 25 anni, viveva da sempre a Brescia: dopo gli studi, aveva lavorato a Milano. Era anche fidanzata, con un ragazzo di origini pachistane e con cittadinanza italiana. Un giovane che dopo aver vissuto con lei per anni a Brescia le aveva proposto di seguirlo in Germania. La scelta del fidanzato della stessa nazionalità non era però bastata al padre padrone, che per la figlia aveva altri programmi. Tra cui, sembra, un matrimonio combinato. Con un altro pakistano, residente in patria, però, e magari lontano da deviazioni e tentazioni occidentali. Qualche mese fa, la ragazza era tornata in Pakistan, nel distretto di Gujrat, dove era nata. Dopo qualche giorno, la notizia della scomparsa accidentale, a cui i suoi amici non hanno creduto sin da subito.
«Questa vicenda terribile» , ha commentato il leghista Paolo Grimoldi, «conferma che un certo islam, quello più oltranzista, non è compatibile con il nostro modo di vivere, con i nostri valori e che è impossibile un'integrazione, da parte di certi islamici fondamentalisti, che non si trasformi in una sottomissione da parte nostra».
La squadra dei «profughi» scatena la rissa
Una partitella di campionato amatoriale, un fallo, una piccola rissa. Come accade spesso quando si sfidano le nuove leve. Solo che questa volta in campo ci sono i richiedenti asilo e uno dei giocatori ha pensato bene di andare fino in fondo alla faccenda.
A bordo campo, lo sportivo ha trovato un rastrello e, brandendolo con forza, ha cominciato ad inseguire gli avversari della squadra opposta, con tanta foga da costringere gli organizzatori a sospendere il gioco per evitare rischi.
È finito così il primo campionato disputato dalla selezione calcistica dei richiedenti asilo nell'ambito del progetto Sprar gestito dal Comune di Ravenna. La squadra di profughi (o presunti tali) è proprio lo Sprar Ravenna, voluta e strutturata secondo un programma del Comune e della cooperativa Persone in Movimento e poi lanciata nel mondo ufficiale del calcio. Visto come ennesimo potenziale sbocco per la presenza dei giovani immigrati, accolti, mantenuti e incoraggiati a tentare, perché no, anche questa strada.
L'idea, però, ha mostrato subito la corda. La squadra, infatti, al suo debutto in un torneo ufficiale, ha subito dimostrato «quale straordinario potenziale abbia lo sport come strumento di inclusione e di costruzione di nuovi modelli di integrazione», per dirla con le parole dell'assessore all'Immigrazione, Valentina Morigi, che un anno fa aveva presentato con orgoglio l'iniziativa.
L'episodio è avvenuto il 30 aprile scorso a Marina di Ravenna, durante i play off amatoriali della Uisp.
Secondo le ricostruzioni dei presenti, al metà del secondo tempo della partita, mentre lo Sprar era in vantaggio, un fallo di gioco avrebbe provocato una reazione di un calciatore della squadra avversaria.
Due spintoni, qualche manata in faccia e l'arbitro a sedare la rissa con un paio di cartellini rossi.
Tutto sembrava risolto, quando, dall'altra parte del campo, uno dei calciatori dello Sprar ha sferrato un calcio ad un avversario e, secondo il racconto di alcuni presenti, imbracciato un rastrello avrebbe cominciato ad inseguire gli avversari con l'intenzione di colpirli. Per calmare i bollenti spiriti del giocatore e per evitare pericolose conseguenze l'arbitro è stato costretto a sospendere il match e, vista la gravità dei fatti, dalla Uisp, qualche giorno dopo sono arrivate le sanzioni: tre anni di squalifica al protagonista della storia e qualche giornata ad altri compagni.
«La nostra squadra non ha dimostrato una maturità sufficiente per affrontare le situazioni di forte stress verificatesi in campo, tenendo comportamenti non adeguati e contrari allo spirito del campionato», ha spiegato la società che gestisce la squadra, comunicando il ritiro dal campionato, mentre la Commissione giudicante gare della Uisp ha messo le mani avanti per i prossimi incontri: «A partire da questo momento non verranno ulteriormente tollerati segnali di escandescenze, offese e comportamenti minacciosi di qualsiasi genere», ha scritto in una nota ufficiale dopo l'episodio.
«Ecco dove finisce l'integrazione forzata della sinistra: nella violenza che macchia un momento dedicato allo sport», ha commentato Andrea Liverani, consigliere regionale Lega Nord Emilia Romagna, intervenendo sull'accaduto. «Il protagonista è un richiedente asilo ospite di una struttura, uno di quelli a cui offriamo vitto alloggio e attività sportive gratuite», specifica Liverani. «Le cooperative dimostrano ancora una volta la loro incapacità nel gestire i sedicenti profughi che vengono loro affidati a suon di milioni di euro», e l'accaduto «dimostra quanto sia assurdo da parte della sinistra pensare di integrare attraverso momenti ludici clandestini di cui non sono noti passato e, spesso, nemmeno le generalità».
Ravenna già considerata capitale dei foreing fighters per l'alto numero di immigrati radicalizzati e, a suo tempo, partiti per il Medio Oriente, «utilizza risorse e progetti importanti a favore di questi personaggi, senza evidentemente valutare in modo sufficientemente accurato i soggetti a cui dedicarli», conclude il leghista.
Qualche settimana fa, sempre a Ravenna, alcuni richiedenti asilo si erano fatti notare mentre smerciavano droga nel parco cittadino ed erano stati arrestati. La notizia aveva fatto scalpore perché si trattava di sedicenti profughi alloggiati nelle case popolari cittadine ristrutturate con fondi ministeriali e sottoposte, grazie ad un progetto di accoglienza, a un vincolo di destinazione per richiedenti asilo.
Alessia Pedrielli
La prof di Traini: «Umanamente va sostenuto»
L'autore della caccia al nero di Macerata ha scelto il giudizio con rito abbreviato. Si procederà a porte chiuse, con gli unici atti già raccolti dall'accusa nella fase delle indagini, senza testimonianze e solo con le parti civili che non hanno subìto un danno diretto. Il Partito democratico e l'associazione culturale che eroga servizi agli immigrati quindi restano fuori dall'aula (ammessa invece la sezione Pd di Macerata, per il danneggiamento di una vetrata colpita da un proiettile). Unica richiesta della Procura: la perizia psichiatrica. E se l'istanza venisse accolta dalla Corte d'assise di Macerata, Luca Traini, il ventottenne di Tolentino accusato di strage aggravata dall'odio razziale, tentato omicidio, porto abusivo d'arma, danneggiamento e anche di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa per il raid a colpi di pistola in cui il 3 febbraio ferì sei migranti per vendicare Pamela Mastropietro, verrà esaminato dal professor Marco Marchetti, ordinario di Medicina Legale e Psicopatologia forense dell'Università del Molise.
Una settimana per decidere. La corte ha quindi fissato per il 16 maggio la prossima udienza. Camicia amaranto e pantaloni scuri, Traini è arrivato all'ingresso carraio del palazzo di giustizia su un furgone della polizia penitenziaria, dove ad attenderlo c'erano giornalisti, fotografi e curiosi. In aula, invece, lo aspettavano il sindaco di Macerata, Romano Carancini, e le vittime che, tramite i loro avvocati hanno chiesto la costituzione di parte civile insieme a una ulteriore contestazione: il reato di attentato per finalità terroristiche o di eversione.
Delle 15 richieste di costituzione di parte civile ne sono state ammesse 13. Ai feriti si sono aggiunti, quindi, oltre al Partito democratico e all'associazione culturale che eroga servizi agli immigrati, anche una settima persona scampata all'agguato, il Comune di Macerata, una donna la cui auto è stata danneggiata e i titolari del Terminal e del Babau, i due discoclub dove, alle 11 del 3 febbraio, è iniziato il raid.
Jennifer, la ragazza ferita che suscitò il pentimento di Traini, non era presente. Ma il suo legale, Raffaele Delle Fave, ha chiesto un risarcimento danni per 750.000 euro. Il malese Muhammad Touré ha tirato su la polo per mostrare l'ampia ferita al costato: era il più grave tra i feriti e il suo legale, Gianfranco Borgani, ha sottolineato prima di entrare in aula come «non sia facile spiegare perché qualcuno l'abbia individuato come bersaglio». «Bisogna pregare affinché dio tocchi il suo cuore», ha commentato Innocent Aymere, pastore evangelico nigeriano ferito a un orecchio vicino ai giardini Diaz (luogo in cui il nigeriano Innocent Oseghale accompagnò Pamela per procurarsi la droga).
«Non sembra, ma Luca Traini è un gigante buono e non è xenofobo», l'ha difeso il suo avvocato Giancarlo Giulianelli. Secondo il difensore, Traini ha avuto «un momento di defaillance a livello psicologico dovuto a un evidente disturbo della personalità». L'avvocato si è opposto alla perizia psichiatrica, che considera «irrituale», e ha spiegato: «Nella fase delle indagini ne abbiamo già fatto una ed è agli atti».
«Penalmente va perseguito, ma umanamente va sostenuto», ha commentato, invece, Patrizia Meloni, l'insegnante di storia di Traini all'epoca della terza media, che ha deciso di assistere all'udienza. «Luca aveva un voto altissimo in storia», ha detto ai cronisti la prof, «e alla fine della terza media mi ha confessato con un certo imbarazzo che ammirava Mussolini». Sul gesto del suo ex alunno, secondo l'insegnante, potrebbero aver influito anche cattive compagnie: «Penso che il contesto abbia agito molto negativamente su di lui».
A sentire l'interrogatorio di Traini (finito l'altro giorno sul sito Web di Repubblica), invece, il contesto che gli ha armato la mano è un altro: «Io volevo colpire chi spaccia, come quello che ha venduto la droga a Pamela. E non è colpa mia poi se a Macerata tutti gli spacciatori sono neri».
Fabio Amendolara
Nuova versione dell’Otello: il Moro ora diventa un rom
Ma come ha fatto William Shakespeare a non pensarci? Ma quale moro di Venezia, Otello era un rom. A colmare l'imperdonabile lacuna ci ha però pensato Ilaria Testoni, regista di un adattamento della tragedia del Bardo inglese che andrà in scena da oggi al 27 maggio al teatro Arcobaleno di Roma.
La particolarità di questo Otello è appunto nel fatto che il protagonista è di etnia rom. «Mi sono a lungo interrogata verso quale cultura, oggi, il nostro odio ha puntato il dito», ha spiegato la regista, «e sono arrivata alla conclusione che Otello non poteva che essere un rom nella visione contemporanea del testo. Così l'odio di Jago verso Otello, misto alla gelosia per l'incapacità di raggiungere il suo grado e i suoi meriti, diventa un odio feroce verso una cultura incomprensibile, “sconosciuta e quindi spaventosa". E per lasciare una buona contraddizione tipica dell'animo umano, Jago - nell'opera sposato con Emilia - convive con la sua donna che è anche lei rom. La disprezza, sì, ne abusa, ma la tiene con sé». Perché si sa, se la gente ce l'ha con gli zingari è per «gelosia», ma soprattutto per «per l'incapacità di raggiungere il loro grado e i loro meriti».
Non sono la delinquenza, il degrado, l'arroganza che risultano respingenti a tante fasce della popolazione, è semmai l'invidia verso certe brillanti carriere a cui noi non potremmo mai aspirare. Vorremmo vivere come i rom, ma non ne siamo all'altezza, quindi li detestiamo. Caso risolto, quindi. Vale peraltro la pena ricordare che Otello, nella tragedia di Shakespeare, era un comandante militare. Sarà forse una lacuna nostra, ma non abbiamo notizie di questa brillante tradizione guerresca interna al mondo rom. C'è infine da rilevare che l'Otello non è affatto la storia di un povero immigrato che fa carriera ma viene stroncato dal razzismo invidioso della bigotta società in cui desidera vivere.
Tanto per cominciare non esiste alcun indizio che riveli l'etnia del personaggio. Un «moro», nell'Inghilterra del 1600, poteva essere semplicemente uno con la pelle più scura dei pallidi albionici. O un generico musulmano. O ancora, secondo altre versioni, un ex musulmano convertito. In ogni caso è un uomo di successo, con un invidiabile status sociale. È «integrato», diremmo oggi. Solo che, in un crescendo di gelosia, finisce per uccidere la donna che ama, rivelando un'anima ferina nascosta ma non scomparsa. Il personaggio, quindi, non è la vittima incolpevole di una società intollerante. Insomma, Otello non è uno spot del politicamente corretto. Almeno non quello di William Shakespeare. A differenza di quello di Ilaria Testoni.
Fabrizio La Rocca
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I medici forensi del Punjab fanno chiarezza sulla morte della ragazza pakistana di Brescia. A ucciderla non fu un malore, come sosteneva la famiglia. Il principale sospettato resta il padre. Il primo campionato del Ravenna Sprar, compagine calcistica di richiedenti asilo, finisce in malo modo. Durante una partita un migrante subisce fallo e si mette a inseguire un avversario con un rastrello. Gara sospesa e addio anticipato alla competizione. Anche l'ex insegnante di storia delle medie, Patrizia Meloni, all'udienza di Luca Traini, il ventottenne di Tolentino accusato di strage aggravata dall'odio razziale, tentato omicidio, porto abusivo d'arma, danneggiamento e anche di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa per il raid a colpi di pistola in cui il 3 febbraio ferì sei migranti per vendicare Pamela Mastropietro. La Procura chiede la perizia psichiatrica, l'avvocato si oppone. Ilaria Testoni, regista di un adattamento dell'Otello di Shakespeare in scena da oggi al 27 maggio al teatro Arcobaleno di Roma, trasforma il moro di Venezia in un rom. Un altro sfregio politicamente corretto al dramma del Bardo inglese. Lo speciale contiene quattro articoli. Strano «malore», quello che ha ucciso Sana Cheema, la 25enne italopakistana morta a metà aprile in circostanze misteriose, nel Paese di cui sono originari i suoi genitori. Di «malore», forse di un infarto, aveva parlato il padre, respingendo le accuse giunte dall'Italia che prefiguravano un delitto avvenuto in famiglia. C'è solo una piccola falla, nella versione dell'uomo: che tipo di malore è quello che spezza l'osso del collo? I risultati dell'autopsia realizzata dal laboratorio forense del Punjab parlano chiaro: Sana è morta per strangolamento. Gli esami, di cui stanno parlando in queste ore i media pakistani, mostrano che «l'osso del collo è stato rotto». Tutto lascerebbe pensare, insomma, che la pista dell'omicidio acquisisca forza. Una vittoria, per quanto amara, degli amici italiani della ragazza, che a quella strana morte per un improbabile infarto. Loro la conoscevano, sapevano dei suoi conflitti familiari, di un matrimonio combinato a cui la giovane voleva sottrarsi. L'avevano vista partire e mai più tornare. Vedremo ora come si evolverà la vicenda da un punto di vista giudiziario. Già il solo fatto di aver ottenuto l'esame autoptico, tuttavia, può essere considerato un passo importante. Sana, infatti era stata sepolta il 18 aprile scorso, in tutta fretta, dalla famiglia. Che aveva dimostrato ulteriore malafede arrivando a falsificare addirittura i certificati medici per avvalorare la tesi della morte per malattia. Man mano che la vicenda destava scalpore, prima in Italia e poi in Pakistan, il padre della ragazza aveva cercato di fornire una versione minimamente credibile della decesso, parlando di un lungo ricovero con relative cure ospedaliere. La struttura in questione, tuttavia, aveva smentito di aver ricoverato e curato Sana. «È stata nella clinica per una visita l'11 aprile, le sono stati prescritti farmaci contro la nausea ma non è stata trattenuta», avevano dichiarato i medici. I genitori della giovane, insomma, avevano consegnato documenti falsificati all'ambasciata italiana. I risultati dell'autopsia sono stati diffusi on line anche da Jabran Fazal, presidente dell'associazione culturale Pak Brescia, che li ha messi sui social network e ha espresso la sua condanna per quello che ormai, a tutti gli effetti, possiamo considerare un omicidio. «La comunità pakistana di Brescia», ha detto ieri l'uomo, «ha appreso la notizia ed esprime oltre alla rabbia e dolore una forte condanna per questo atroce delitto. Stiamo organizzando una manifestazione di solidarietà e ricordo per Sana Cheema. Appena ci saranno gli aggiornamenti, saremo i primi a diffondere, perché siamo la verità e giustizia». La presa di distanza dal delitto, una volta tanto, sembra netta e priva di ambiguità: «Chi ha ucciso deve pagare, chi ha sbagliato deve essere perseguito. Nessuno pensi che siamo conniventi, che approviamo questo orrore, la comunità pakistana del Bresciano è composta da 12.000 persone e non puo essere condannata per il comportamento sbagliato di una persona, di una famiglia». Adesso, per il padre della ragazza, Ghulam Mustafa, per il fratello, Adnan Mustafa , e per lo zio, Mazhar Iqbal, le cose si mettono decisamente male. I tre erano in arresto già da alcune settimane, segno che persino la polizia pakistana aveva ritenuto che la versione iniziale diffusa dalla famiglia faceva acqua da tutte la parti. O, almeno, la versione che veniva dalla parte maschile dalla famiglia, perché, in questa confusa storia, sembrerebbe che la madre di Sana abbia avuto un ruolo in controtendenza, denunciando anch'essa il possibile omicidio. Sana Cheema, 25 anni, viveva da sempre a Brescia: dopo gli studi, aveva lavorato a Milano. Era anche fidanzata, con un ragazzo di origini pachistane e con cittadinanza italiana. Un giovane che dopo aver vissuto con lei per anni a Brescia le aveva proposto di seguirlo in Germania. La scelta del fidanzato della stessa nazionalità non era però bastata al padre padrone, che per la figlia aveva altri programmi. Tra cui, sembra, un matrimonio combinato. Con un altro pakistano, residente in patria, però, e magari lontano da deviazioni e tentazioni occidentali. Qualche mese fa, la ragazza era tornata in Pakistan, nel distretto di Gujrat, dove era nata. Dopo qualche giorno, la notizia della scomparsa accidentale, a cui i suoi amici non hanno creduto sin da subito. «Questa vicenda terribile» , ha commentato il leghista Paolo Grimoldi, «conferma che un certo islam, quello più oltranzista, non è compatibile con il nostro modo di vivere, con i nostri valori e che è impossibile un'integrazione, da parte di certi islamici fondamentalisti, che non si trasformi in una sottomissione da parte nostra». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lautopsia-di-sana-svela-lorrore-collo-rotto-e-stata-strangolata-2567375800.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-squadra-dei-profughi-scatena-la-rissa" data-post-id="2567375800" data-published-at="1765403166" data-use-pagination="False"> La squadra dei «profughi» scatena la rissa Una partitella di campionato amatoriale, un fallo, una piccola rissa. 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Tutto sembrava risolto, quando, dall'altra parte del campo, uno dei calciatori dello Sprar ha sferrato un calcio ad un avversario e, secondo il racconto di alcuni presenti, imbracciato un rastrello avrebbe cominciato ad inseguire gli avversari con l'intenzione di colpirli. 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Camicia amaranto e pantaloni scuri, Traini è arrivato all'ingresso carraio del palazzo di giustizia su un furgone della polizia penitenziaria, dove ad attenderlo c'erano giornalisti, fotografi e curiosi. In aula, invece, lo aspettavano il sindaco di Macerata, Romano Carancini, e le vittime che, tramite i loro avvocati hanno chiesto la costituzione di parte civile insieme a una ulteriore contestazione: il reato di attentato per finalità terroristiche o di eversione. Delle 15 richieste di costituzione di parte civile ne sono state ammesse 13. Ai feriti si sono aggiunti, quindi, oltre al Partito democratico e all'associazione culturale che eroga servizi agli immigrati, anche una settima persona scampata all'agguato, il Comune di Macerata, una donna la cui auto è stata danneggiata e i titolari del Terminal e del Babau, i due discoclub dove, alle 11 del 3 febbraio, è iniziato il raid. Jennifer, la ragazza ferita che suscitò il pentimento di Traini, non era presente. Ma il suo legale, Raffaele Delle Fave, ha chiesto un risarcimento danni per 750.000 euro. Il malese Muhammad Touré ha tirato su la polo per mostrare l'ampia ferita al costato: era il più grave tra i feriti e il suo legale, Gianfranco Borgani, ha sottolineato prima di entrare in aula come «non sia facile spiegare perché qualcuno l'abbia individuato come bersaglio». «Bisogna pregare affinché dio tocchi il suo cuore», ha commentato Innocent Aymere, pastore evangelico nigeriano ferito a un orecchio vicino ai giardini Diaz (luogo in cui il nigeriano Innocent Oseghale accompagnò Pamela per procurarsi la droga). «Non sembra, ma Luca Traini è un gigante buono e non è xenofobo», l'ha difeso il suo avvocato Giancarlo Giulianelli. Secondo il difensore, Traini ha avuto «un momento di defaillance a livello psicologico dovuto a un evidente disturbo della personalità». L'avvocato si è opposto alla perizia psichiatrica, che considera «irrituale», e ha spiegato: «Nella fase delle indagini ne abbiamo già fatto una ed è agli atti». «Penalmente va perseguito, ma umanamente va sostenuto», ha commentato, invece, Patrizia Meloni, l'insegnante di storia di Traini all'epoca della terza media, che ha deciso di assistere all'udienza. «Luca aveva un voto altissimo in storia», ha detto ai cronisti la prof, «e alla fine della terza media mi ha confessato con un certo imbarazzo che ammirava Mussolini». Sul gesto del suo ex alunno, secondo l'insegnante, potrebbero aver influito anche cattive compagnie: «Penso che il contesto abbia agito molto negativamente su di lui». A sentire l'interrogatorio di Traini (finito l'altro giorno sul sito Web di Repubblica), invece, il contesto che gli ha armato la mano è un altro: «Io volevo colpire chi spaccia, come quello che ha venduto la droga a Pamela. E non è colpa mia poi se a Macerata tutti gli spacciatori sono neri».Fabio Amendolara <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lautopsia-di-sana-svela-lorrore-collo-rotto-e-stata-strangolata-2567375800.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="nuova-versione-dellotello-il-moro-ora-diventa-un-rom" data-post-id="2567375800" data-published-at="1765403166" data-use-pagination="False"> Nuova versione dell’Otello: il Moro ora diventa un rom Ma come ha fatto William Shakespeare a non pensarci? Ma quale moro di Venezia, Otello era un rom. A colmare l'imperdonabile lacuna ci ha però pensato Ilaria Testoni, regista di un adattamento della tragedia del Bardo inglese che andrà in scena da oggi al 27 maggio al teatro Arcobaleno di Roma. La particolarità di questo Otello è appunto nel fatto che il protagonista è di etnia rom. «Mi sono a lungo interrogata verso quale cultura, oggi, il nostro odio ha puntato il dito», ha spiegato la regista, «e sono arrivata alla conclusione che Otello non poteva che essere un rom nella visione contemporanea del testo. Così l'odio di Jago verso Otello, misto alla gelosia per l'incapacità di raggiungere il suo grado e i suoi meriti, diventa un odio feroce verso una cultura incomprensibile, “sconosciuta e quindi spaventosa". E per lasciare una buona contraddizione tipica dell'animo umano, Jago - nell'opera sposato con Emilia - convive con la sua donna che è anche lei rom. La disprezza, sì, ne abusa, ma la tiene con sé». Perché si sa, se la gente ce l'ha con gli zingari è per «gelosia», ma soprattutto per «per l'incapacità di raggiungere il loro grado e i loro meriti». Non sono la delinquenza, il degrado, l'arroganza che risultano respingenti a tante fasce della popolazione, è semmai l'invidia verso certe brillanti carriere a cui noi non potremmo mai aspirare. Vorremmo vivere come i rom, ma non ne siamo all'altezza, quindi li detestiamo. Caso risolto, quindi. Vale peraltro la pena ricordare che Otello, nella tragedia di Shakespeare, era un comandante militare. Sarà forse una lacuna nostra, ma non abbiamo notizie di questa brillante tradizione guerresca interna al mondo rom. C'è infine da rilevare che l'Otello non è affatto la storia di un povero immigrato che fa carriera ma viene stroncato dal razzismo invidioso della bigotta società in cui desidera vivere. Tanto per cominciare non esiste alcun indizio che riveli l'etnia del personaggio. Un «moro», nell'Inghilterra del 1600, poteva essere semplicemente uno con la pelle più scura dei pallidi albionici. O un generico musulmano. O ancora, secondo altre versioni, un ex musulmano convertito. In ogni caso è un uomo di successo, con un invidiabile status sociale. È «integrato», diremmo oggi. Solo che, in un crescendo di gelosia, finisce per uccidere la donna che ama, rivelando un'anima ferina nascosta ma non scomparsa. Il personaggio, quindi, non è la vittima incolpevole di una società intollerante. Insomma, Otello non è uno spot del politicamente corretto. Almeno non quello di William Shakespeare. A differenza di quello di Ilaria Testoni.Fabrizio La Rocca
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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