
In libreria il primo volume della saga di Antonio Scurati sul Duce. Un'opera ambiziosa, che sa di segreta fascinazione.«Voi mi odiate perché mi amate ancora». Quando Benito Mussolini apostrofava così i suoi sodali socialisti, lasciandosi alle spalle la militanza in cui era letteralmente nato, si stava in realtà rivolgendo a tutti gli italiani.Che da quell'amore e da quell'odio non riescano ad emergere, anche al netto delle surreali denunce sull'avanzata della marea nera che punteggiano le cronache quotidiane di Repubblica, ne è testimonianza il nuovo, ambizioso romanzo di Antonio Scurati: M, il figlio del secolo. Quello appena uscito per Bompiani è solo il primo capitolo, anche se dalla mole non si direbbe. Lo stile è indefinibile, fosse un prodotto televisivo la chiameremmo una docufiction: un intreccio narrativo intessuto con l'ago della letteratura, partendo però dalla stoffa di solo materiale storico verificato, alla luce di una ricerca che traspare bulimica, maniacale. Il paragone letterario più facile è Le Benevole, di Jonathan Littell, che tuttavia è un romanzo più classico, ha una materia prima più luciferina (il nazismo) e del quale qui mancano anche, per fortuna, le ossessioni psicanalitiche e scatologiche. Forse il vero alter ego di quest'opera è allora proprio la monumentale biografia mussoliniana di Renzo De Felice, simile per estensione, per acribia e forse anche per segreta fascinazione con l'oggetto della trattazione. Sei anni di storia da raccontare (1919-1924), 839 pagine. È come se la famosa considerazione di uno dei primi storici del mussolinismo, Angelo Tasca («Definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia») fosse destinata a essere presa troppo alla lettera, per cui l'incontro ravvicinato con l'oggetto misterioso può avvenire solo se è troppo ravvicinato, sezionandone ogni frammento, descrivendolo quasi in presa diretta, ma con costante difficoltà a raccogliere il tutto in una visione d'insieme.Il libro, lo diciamo subito, è decisamente migliore delle interviste con cui Scurati ha preventivamente messo le mani avanti, come quella concessa mesi fa alla Lettura del Corriere della Sera, in cui lo scrittore non poteva esimersi dal precisare che «a me interessa, rimanendo antifascista, raccontare il fascismo attraverso i fascisti, il che non significa aderire alla loro ideologia». Proprio il caso De Felice, forse, ha insegnato una certa prudenza, ma è bene ricordare che anche lo storico reatino partì con le migliori intenzioni antifasciste, prima di diventare la bestia nera dei gendarmi della memoria.L'inizio è portentoso, ammaliante, con Mussolini che passeggia a tarda notte in una Milano putrida e selvaggia oggi sparita, fra canaglie e puttane, sicuro in mezzo ai manigoldi, perché di quella teppa amico e sodale. Una Milano che suda disgrazia, abitata da un'umanità lombrosiana, segnata fisicamente e moralmente dalla guerra, dalle scazzottate, dall'alcolismo, dalla miseria. Mussolini vi si muove forte di quella che è ad un tempo vicinanza e lontananza rispetto al popolo. Nel ciclone della tempesta politica che spazza l'Italia di quegli anni, Mussolini è al centro, nell'occhio: è dentro e fuori a un tempo, uomo della massa e della solitudine, personalità del suo tempo e dell'avvenire. Quello iniziale è veramente un ritratto potente, ben scritto, che coglie l'essenza del personaggio. Di rara potenza anche il racconto dell'assalto squadrista all'Avanti. Poi, inevitabilmente, la scelta di dilatare in modo estremo la narrazione e la volontà di non mantenere un unico punto di vista rendono la narrazione più faticosa e sfilacciata.Scurati vuole tenere dentro tutto, ma tutto, dentro, non ci sta. Bisognava forse selezionare argomenti e personaggi, ma selezionare è già interpretare, per l'appunto, cioè cogliere in una visione d'insieme. Più facile, e anche più furbo, è il caro vecchio ripiego nello «spiegone». Raccontare nel dettaglio, sminuzzare, fare la cronaca minuto per minuto, che poi in qualche modo è anche sempre un giustificare se stessi e l'oggetto della propria passione letteraria e storica. Il Mussolini che esce da questo racconto in presa diretta è più simile ai primi ritratti che ne fecero i nemici che non alla macchietta che va di moda presentare oggi, ovvero il Mussolini gangster, cinico, spietato. Quello che compie la sua rivoluzione all'insegna di una linea di condotta semplice: «Trattare, ingannare, minacciare. Trattare con tutti, tradire tutti» (cosa che, par di capire, è geniale machiavellismo solo se ti chiami Frank Underwood e sei in House of Cards). È una macchietta anche questa, ma forse più vicina alla verità di quella del Mussolini clown, tronfio quanto ridicolo, che per ragioni misteriose ha finito per sedurre un intero popolo, intellettuali di ogni Paese e capi di Stato dagli orientamenti ideologici più disparati. La tentazione dell'attualizzazione fa capolino più volte, ma resta per lo più accennata. Certo è difficile non notare la strizzata d'occhio, quando si cita un discorso di Gabriele D'Annunzio contro la «casta» dei suoi tempi: «Nel giro di poche ore, l'immagine del ceto politico come “casta" privilegiata e separata dalla società, con la stessa rapidità di quella della “vittoria mutilata", inizia ad attecchire sul tronco dello scontento popolare». Ma è soprattutto nel raccontare la resa della vecchia classe dirigente che Scurati sembra non rinunciare, in filigrana, alla seduzione del monito «oggi più che mai attuale». Ecco allora che nel Parlamento che si arrende alle camicie nere c'è «un'adamantina volontà di capitolazione». E quando le guardie regie vogliono arrestare Mussolini alla vigilia della marcia su Roma, lui riesce a convincerle a chiacchiere: «Le parole – ancora le parole – prevalgono sulla realtà, tenendola a bada». Stai a vedere che allora anche all'ombra di certi brillanti comunicatori di oggi ristagna sornione l'olio di ricino pronto all'uso… Alla fine, dopo diverse pagine mirabili, ma anche troppi personaggi e interminabili cronache, resta sempre sospesa nell'aria quella sensazione di amore tradito, di conti non regolati fino in fondo, non col fascismo, ma con sé stessi, di una repulsione che sa di segreta attrazione. Non sarà del resto un caso se la letteratura italiana contemporanea, quando vuole affrancarsi della non epica dei giovani precari e dei cinquantenni in crisi, finisca sempre per abbeverarsi a quella fonte: come nel Peccato mortale di Carlo Lucarelli, come nel Canale Mussolini di Antonio Pennacchi. Prima o poi, tutta la nostra cultura torna al fascismo. Chiamiamola, al limite, un'adamantina volontà di capitolazione.
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