2021-11-16
L’arroganza al servizio di dati fasulli
Fabrizio Pregliasco (Ansa)
Fabrizio Pregliasco è il direttore sanitario dell'Istituto ortopedico Galeazzi di Milano. Prima che scoppiasse la pandemia, quando ancora conducevo un programma tv su Rete 4, mi capitava ogni tanto di incontrarlo nei corridoi di Mediaset, dove veniva invitato per parlare dei disturbi di stagione e di medicina preventiva. Il professore è un signore a modo, molto cortese, che in studio dava consigli di buon senso di medicina spicciola. Ma poi, con il Covid è cambiato tutto, perché da quando il virus ha fatto il suo ingresso nelle nostre vite, non solo il buon senso è stato messo da parte, ma i virologi - e Pregliasco è tra questi - si sono trasferiti in pianta stabile davanti alle telecamere.Come si sa, la televisione, con la notorietà che comporta per chi la frequenta assiduamente, può dare alla testa e cambiare le persone. Non dico che il fatto di stare ogni giorno a dispensare pareri, passando da un canale all'altro, abbia dato alla testa al professor Pregliasco, ma di certo lo ha cambiato. Da misurato e rassicurante che era, ora si è fatto più aggressivo e non di rado alza i toni, quasi mai con l'intenzione di rasserenare gli animi. Si dirà che la pandemia, i contagi e l'incredibile numero di decessi, negli ultimi due anni potrebbero averne indurito l'animo, spingendolo a toni che prima non gli erano congeniali. Può essere. Sta di fatto, che quando lo vedo impegnato in alcuni talk show, stento a riconoscerlo. Soprattutto se dispensa informazioni con assoluta certezza, quando quasi due anni di pandemia ci hanno insegnato che di certezze ce ne sono poche, anche se a parlare sono fior di professoroni. Le ultime asserzioni che gli ho sentito pronunciare mi hanno lasciato addirittura senza parole. Su La 7 ha spiegato che l'80 per cento dei ricoverati in ospedale per Covid è costituito da persone non vaccinate. Peccato che i dati diffusi dall'Istituto superiore di sanità dicano altro. Nel mese di ottobre, in corsia sono finiti 2.890 pazienti non vaccinati, 144 vaccinati con una sola dose, 1.774 vaccinati con ciclo completo entro i sei mesi, 618 vaccinati con ciclo completo dopo più di sei mesi e 17 persone che avevano ricevuto anche la terza dose. A casa mia, ma credo anche in quella di tanti italiani, questo significa che il 53 per cento dei ricoverati non era immunizzato, il 45,3 lo era con doppia o tripla dose e il 2,6 non aveva ancora fatto il richiamo. Ciò vuol dire che chi ha ricevuto l'iniezione si ammala come chi non l'ha avuta? No, perché sul totale della popolazione, i primi sono 8 milioni e i secondi circa 45 milioni: ma che senso ha «taroccare» i dati, dicendo una cosa non vera? In terapia intensiva, nel mese di ottobre c'erano 370 non vaccinati, ma anche 178 malati con doppia o tripla dose, il che equivale a un 66 per cento di non immunizzati, ma il 34 per cento vuol dire che lo erano. Perché dunque mentire in tv?Altro esempio. Qualche giorno fa, nel programma condotto da Paolo Del Debbio su Rete 4, rispondendo a un ospite che parlava di anticorpi per spiegare come mai non fosse stato vaccinato, Pregliasco se n'è uscito con le seguenti frasi: «La valutazione degli anticorpi non è ancora una valutazione standardizzata che garantisca rappresentatività della situazione di protezione o meno». E, per evitare che qualcuno avesse capito male, poi ha aggiunto: «Il test sierologico è un'indicazione quantitativa, ma non standardizzata e vediamo il calo di efficacia su studi rispetto al numero di persone che si reinfettano passando il tempo». Chiaro il concetto? Per Pregliasco, il sierologico per appurare gli anticorpi anti Covid serve a poco. E forse anche gli stessi anticorpi non sono un indicatore decisivo, «perché c'è una risposta di altro tipo che non viene misurata se non in alcuni studi sperimentali che facciamo su piccoli campioni». Insomma, Il messaggio non lascia spazio a dubbi: fate il vaccino e basta, a prescindere che abbiate avuto il Covid o abbiate ricevuto due dosi, che abbiate gli anticorpi oppure no. Parola di esperto. Poi uno cambia canale e si trova davanti la faccia di Massimo Galli, quello che a proposito di tamponi diceva che non servono a niente e organizzava il concorso universitario per far vincere un suo allievo, il quale spiega che «stiamo basando tutte le decisioni che vengono prese su studi che riguardano la risposta anticorpale. Bisogna avere il coraggio di dire che il sierologico è indispensabile». Cioè il contrario di quanto sostenuto da Pregliasco. Vabbè che con la scienza si procede per tentativi e dunque bisogna sempre tener presente che quando si parla di metodo scientifico non significa che il metodo preveda una risposta esatta, ma viste le diverse opinioni, non sarebbe stato meglio che Pregliasco e come lui Galli evitassero tanta assertività, riconoscendo che anche i virologi da salotto, al pari dei comuni cittadini, non hanno la verità in tasca e dunque non possono promettere nulla? Dopo non ci si può lamentare se qualcuno non crede ai presunti esperti…
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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