
Il successo dei peronisti alle primarie fa crollare Borsa e peso. Intanto gli Usa, ostili all'asse con Xi Jinping, stanno a guardare.Turbolenze finanziarie in Argentina. Lunedì scorso, la Borsa di Buenos Aires è arrivata a perdere il 48%, mentre il peso ha ceduto il 20% sul dollaro. A far esplodere questa catastrofe, sono stati i risultati delle elezioni primarie di domenica, in cui l'attuale presidente, Mauricio Macri, ha subito una netta sconfitta contro il peronista Alberto Fernandez che - correndo in ticket con l'ex presidentessa Cristina Kirchner - ha conseguito oltre il 48% dei voti, inchiodando il rivale al 33%. Un pessimo segnale per Macri, che teme adesso di non riuscire ad ottenere la riconferma alle presidenziali del 27 ottobre. Sulle ragioni del tracollo finanziario intanto ci si accapiglia: se Fernandez afferma di non essere lui la causa di tale situazione, Macri ribatte sostenendo che i mercati nutrano profonda preoccupazione per una sua eventuale vittoria il prossimo autunno. Il quadro macroeconomico resta confuso: se dal 2016 al 2017 il PIL aveva registrato una forte crescita, nel 2018 ha avuto un calo. Tutto questo, mentre anche a livello politologico, si assiste a una situazione non esattamente chiara. È difficile dire se il buon risultato ottenuto da Fernandez vada ad inscriversi nella più generale ondata politica anti establishment che - prendendo il via dalla vittoria di Trump nel 2016 - si è man mano espansa anche in altri Paesi. L'Argentina ha infatti una lunga tradizione politica che affonda le sue radici nel Partito Giustizialista di Juan Domingo Peron: formazione che ha di fatto espresso gli ultimi sei presidenti argentini prima di Macri. A questo punto, è abbastanza interessante cercare di capire che cosa pensino gli Stati Uniti di un eventuale cambio della guardia alla Casa Rosada. Storicamente è un dato di fatto che Macri intrattenesse dei buoni rapporti con Washington. In primo luogo, non bisogna dimenticare che un duro colpo al potere della Kirchner fu sferrato dal default del 2014, scattato dopo che un giudice americano emise una sentenza a favore di alcuni fondi statunitensi creditori, che non avevano accettato la ristrutturazione del debito argentino. In particolare, la sentenza stabiliva che la Kirchner avrebbe potuto effettuare i pagamenti sui titoli ristrutturati, solo nel momento in cui avesse pagato gli hedge fund riottosi, congelando per questo i fondi argentini depositati presso la Bank of New York Mellon. In secondo luogo, a livello politico, Macri ha sempre potuto contare sull'appoggio di Barack Obama. Una convergenza piuttosto netta, tanto che il presidente argentino lasciò intendere una sua preferenza per la candidata democratica, Hillary Clinton, in occasione della campagna per le elezioni statunitensi del 2016. E qui veniamo ai rapporti con Trump. A prima vista, sembrerebbe che i due siano alleati di ferro. Durante il G20 di Buenos Aires avevano ostentato una forte amicizia, senza poi dimenticare il maxi-prestito concesso alcuni mesi fa all'Argentina dall'Fmi. Inoltre, più in generale, Macri ha allontanato il suo Paese dalle convergenze geopolitiche con il Venezuela: un elemento che certamente si pone in consonanza con la linea dell'amministrazione Trump di aperta ostilità nei confronti del regime di Maduro. Nonostante questi elementi di vicinanza, motivi di attrito sottotraccia con Washington non mancano. In primis, sebbene critico di Maduro, Macri ha sempre cercato di evitare un approccio eccessivamente duro nei confronti di Caracas, distanziandosi – sotto questo aspetto – dalla linea indubbiamente più energica, invocata dal presidente brasiliano, Jair Bolsonaro. In secondo luogo, un enorme problema è rappresentato dal dossier cinese. Lo scorso dicembre, Macri e Xi Jinping hanno siglato oltre trenta accordi in materia agricola e di investimenti. Si tratta, a ben vedere, di una convergenza che di certo alla Casa Bianca non viene vista troppo di buon occhio: soprattutto oggi, in piena guerra tariffaria tra Washington e Pechino. E, proprio in questo senso, una ruolo divisivo potrebbe giocarlo la soia, di cui Buenos Aires è forte esportatrice. La Cina ha negli ultimi mesi evitato di acquistare il legume dal mercato statunitense, ricorrendo a quello sudamericano: un elemento che sta creando non pochi problemi a Trump in patria. Ebbene, in questi stessi giorni, Pechino starebbe cercando di stringere ulteriori legami con Buenos Aires proprio nel comparto della soia (e della farina di semi di soia), nello stesso momento in cui le sue importazioni dal Brasile rischiano di calare, a causa di un aumento dei prezzi. Un fattore che Trump non deve gradire troppo. Infine, non va trascurato un ulteriore elemento: è fuori dubbio che esista una forte intesa tra Bolsonaro e Macri, tanto che il presidente brasiliano si è detto preoccupato da un eventuale ritorno della Kirchner, parlando anche di un probabile esodo di argentini verso il Brasile. Ciò detto, Macri non nutre troppa simpatia per l'asse tra Bolsonaro e la Casa Bianca, temendo di restare isolato e di ritrovarsi un potente concorrente a livello regionale.
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