
L'Autorità garante della concorrenza e del mercato non costa allo Stato e viene finanziata dalle imprese. Sulle cifre di quello che dovrebbe essere il tempio della trasparenza regna però una grande confusione.Sono tre, anzi quattro, i re dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm o antitrust). Perché? Un presidente, due commissari e un segretario generale. Sono tecnici, come vedremo, di grande esperienza, anche se non mancano le ombre. Insomma loro sono «il Collegio», i comandanti, i «torturatori», ma anche le vittime, di questa potente Autorità, che deve vigilare contro gli abusi di posizione dominante, impedire cartelli lesivi della concorrenza, controllare severamente le concentrazioni (fusioni) che superano un certo valore, valutare (e combattere) i conflitti di interesse dei componenti del governo e difendere in ogni modo gli interessi dei consumatori. Sulla carta quindi i poteri sono immensi e vengono esercitati con sanzioni pesantissime e l'ausilio costante della Guardia di finanza. Il lavoro dell'Antitrust non finisce qui: lavora insieme alle consorelle degli altri paesi Ue, prepara relazioni, segnala al parlamento e a Regioni e agli enti locali «le situazioni distorsive della concorrenza» e così via.Ma chi sono i «grandi capi» di questa potente Autorità indipendente, nata nell'ottobre 1990 e che ha avuto già ben sei presidenti di alto profilo: Francesco Saja, Giuliano Amato, Giuseppe Tesauro, Antonio Catricalà, Giovanni Pitruzzella e l'attuale Roberto Rustichelli. Quest'ultimo, indicato da Luigi Di Maio, considerato vicino ai 5 stelle, è stato scelto, nel dicembre 2018, dopo l'analisi di 112 candidature (avvocati, magistrati, docenti universitari, imprenditori, pensionati, impiegati). Sarà vero o era già tutto deciso dai due presidenti della Camera e del Senato, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati? Il nuovo presidente Roberto Rustichelli, è un magistrato di Ravenna, ora collocato fuori ruolo per decisione del Csm, laureato in giurisprudenza e in scienze economiche. Prima della nomina all'Antitrust era presidente del Collegio B del Tribunale delle imprese di Napoli ed era anche presidente di Sezione della Commissione tributaria della stessa città. Rustichelli, oltre a una frequentazione napoletana, che lo ha fatto conoscere al ministro Di Maio (e al presidente della Camera, Fico) ha avuto anche diversi incarichi come esperto (vice capo di gabinetto del ministro delle Attività produttive e poi consigliere giuridico a palazzo Chigi in vari governi). Insomma Rustichelli non è stato un politico, ma ha sempre lavorato vicino agli uomini di governo. Ed ora ha avuto la grande opportunità di diventare il numero uno di un'Autorità molto importante e prestigiosa. La stessa opportunità non l'ha avuta un altro prestigioso componente del Collegio dell'Agcm, il professor Michele Ainis, forse perché non ha saputo muoversi nel pantano della politica. È stato vicino alla Margherita, poi al Pd, ma ha conservato sempre una sua autonomia di giurista e di editorialista di grandi giornali (da anni scrive per La Repubblica) e talvolta questo suo impegno di «comunicatore» gli ha generato accuse di conflitto di interessi. Il professore, da buon siciliano che si annoia spesso («caratteristica dei siciliani colti», osservava Leonardo Sciascia) si dà, oltre che ai saggi di natura giuridica, anche alla letteratura e ogni tanto filosofeggia nelle riviste culturali. Sperava probabilmente in una promozione a presidente dell'Autorità, ma l'ondata gialloblù gli hanno impedito la scalata al vertice. E di questo è amareggiato, anche se fa di tutto per non farlo trapelare e si sfoga dandosi alla scrittura, anche di romanzi.L'altra componente del collegio Agcm è una seria studiosa di diritto, Gabriella Muscolo. È stata nominata da Laura Boldrini, trionfante perché è riuscita a ottenere, anche all'Antitrust, la quota rosa, ma (insieme a Pietro Grasso) non si sono accorti che la signora (magistrato al Tribunale di Roma) non aveva tutti i titoli per essere nominata all'Agcm. I due presidenti del Senato e della Camera nel 2014 ignoravano ( o hanno sorvolato) che, secondo la legge, i magistrati per essere eletti nelle Autorità devono essere inquadrati alla Corte dei conti, al Consiglio di Stato o alla Corte di cassazione. La Muscolo aveva lo stipendio di un giudice di Cassazione, per la sua progressione di carriera, ma non aveva mai messo piede negli organi menzionati. Alcuni giornali hanno fatto notare che le regole andavano rispettate… ma sapete bene come vanno queste cose. Tutto è passato sotto silenzio e le regole della legge sono diventate lettera morta. Tutti sono felici e contenti per sette anni, con lo stipendio annuo di 240.000 euro, 20.000 euro lordi mensili (presidente, gli altri due componenti il Collegio e il segretario generale) . Ma che cosa ha realizzato negli ultimi tempi questa megastruttura (in cui operano ben 285 dipendenti, fra dirigenti, funzionari e impiegati, oltre ai consulenti, esperti e Guardia di finanza)? Il 2 luglio avrà luogo lo show pubblico, con la solenne relazione annuale (come avviene anche nelle altre Autorità). Ma i componenti il Collegio e lo stesso presidente non si possono pronunciare prima: hanno il divieto assoluto di rilasciare interviste o parlare con i giornalisti per impedire loro di rivelare i grandi segreti dell'Autorità che pontifica solo una volta l'anno, alla presenza del presidente della Repubblica e delle altre massime autorità dello Stato. Alla faccia dell'Autorità trasparente. Ma che rivelerà mai l'Agcm? Nulla di particolarmente nuovo, come si evince dalla Relazione annuale 2019 (di 293 pagine), presentata il 31 marzo di quest'anno al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, e che costituirà parte centrale del lungo discorso del presidente Rustichelli.In particolare, si elencano in questo testo gli interventi dell'Agcm nel corso del 2018 per garantire il corretto funzionamento dei mercati. Citiamo solo qualche esempio: l'istruttoria nel settore auto, per eliminare il cartello tra le principali imprese per l'acquisto di autovetture nuove; l'intervento nel campo dei farmaci contro pratiche abusive messe in atto da imprese in posizione dominante (che ha permesso la riduzione del prezzo dei farmaci); gli interventi nei mercati dei servizi (di trasporto, finanziari, professionali, delle tlc e del settore energia). Complessivamente in sei casi l'istruttoria si è conclusa con 820 milioni di euro di sanzioni. L'Autorità è stata chiamata a valutare 73 casi di concentrazione di imprese. Il numero di questi casi è aumentato del 14% rispetto all'anno precedente. Nel campo dell'advocacy, cioè la presenza di norme che producono effetti anticoncorrenziali sul mercato, l'Autorità ha compiuto 84 interventi, impugnando atti anche dei Tar (soprattutto nel campo dei servizi pubblici e del turismo). Nel settore specifico della tutela dei consumatori l'Agcm ha concluso 90 istruttorie, riscontrando infrazioni delle leggi in 63 casi. Le sanzioni irrorate complessivamente ammontano a 65 milioni di euro, di cui la metà a danno di imprese dei settori comunicazione, finanza, assicurazioni e servizi postali. Intensa è stata l'attività dell'Antitrust anche nel campo dei mercati informatici e, tra le attività recenti, la vicenda di Blue Panorama airlines, in cui è stata comminata una sanzione di un milione di euro per «pratiche commerciali scorrette».L'altro clamoroso caso ha riguardato l'assegnazione dei diritti televisivi (partite di calcio), in territori diversi dall'Italia. Le sanzioni ai soggetti interessati ammontano a 67 milioni di euro. È stata anche risolta la controversia tra Sky e Mediaset Premium per ripristinare la concorrenza fra queste reti nel mercato delle pay tv ,con un accordo di tre anni. L'Autorità ha anche deciso di aprire un'approfondita istruttoria nei confronti di Google per accertare «un presunto abuso di posizione dominante in violazione della legge». Il procedimento si concluderà entro maggio del prossimo anno. Infine, una gigantesca sanzione (235 milioni di euro) è stata comminata nell'aprile scorso alla Consip (la centrale acquisti della pubblica amministrazione) per un appalto del valore complessivo di 2,7 miliardi (suddiviso in 18 lotti geografici). L'appalto riguarda l'esecuzione dei servizi di pulizia e manutenzione degli uffici pubblici in tutto il Paese. Sono state accertate intese extra gara fra tre grandi imprese, che hanno violato la legge sulla concorrenza nel mercato.Come si vede, la «macchina» funziona: le sanzioni, anche pesanti, vengono irrorate. Dai documenti del sito si evidenzia che anche nei sette anni precedenti (nella gestione di Giovanni Pitruzzella), dal 2011 al 2018, sono state comminate multe per un miliardo e mezzo di euro (130 casi). Non è chiaro però se queste cifre siano state realmente pagate perché «l'Amministrazione trasparente» non dice nulla a questo proposito. Fa piuttosto intravvedere una sorta di sanatoria quando osserva che, a causa della crisi economica, le sanzioni sono state ridotte. È anche per questa ragione che risulta ribassato il contributo delle imprese per finanziare l'Agcm (attualmente è dello 0,06 per mille del fatturato dell'anno precedente). L'Autorità non grava più da anni sullo Stato e il bilancio risulta sempre in attivo. Nel 2017 è stata acquistato il palazzo di piazza Verdi a Roma, dove aveva sede l'Enel e lo Stato l'ha ceduta in uso gratuito all'Agcm. Per la storia, la spesa è stata di 88 milioni 244.580 euro. Secondo il piano finanziario, il 69 per cento delle uscite è rappresentato dal costo del personale. Il resto è suddiviso per trasferimenti: ai ministeri (2%), alle altre Autorità (7%), al Fondo di riserva (6%), per investimenti fissi (4%). Sulle cifre trionfa sempre una grande confusione, in un sito con voluminosi rapporti, relazioni e tabelle anche contradditorie. Abbiamo chiesto al portavoce e all'Ufficio stampa: è così difficile sapere quali sono le entrate e le uscite 2018? La risposta è stata un lungo silenzio. Per fortuna il chiarimento lo abbiamo trovato in una nota aggiuntiva del Bilancio di previsione 2019. Chi ha scritto questa nota ha premesso: «Al fine di rendere più comprensibile le spese effettive dell'Autorità si pubblica il seguente prospetto». Ora noi lo riassumiamo : i costi effettivi di funzionamento dell'Agcm sono pari a 61,67 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti i versamenti, contribuzioni e rimborsi di legge. Complessivamente dunque le uscite sono 67,99 milioni di euro. In realtà (secondo il Bilancio 2018, che ci è stato fatto recapitare quando avevamo chiuso questo articolo) le uscite equivalgono a 69 milioni e 971.000 e le entrate a 93 milioni 184.000. Come si è detto le entrate sono a carico delle imprese: un attivo di quasi 25 milioni di euro. Si può essere contenti soltanto del fatto che finalmente un ente pubblico chiude il suo bilancio in attivo?
Gennaro Varone
Il pubblico ministero Gennaro Varone sulla separazione delle carriere: «Le correnti sono orientate proprio come un partito politico».
«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).
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Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.
Piero Amara (Ansa)
L’ex avvocato svela l’ascesa del manager di Gioia Tauro già accusato in Iran e imputato a Roma «Diventò fornitore di Eni grazie a me, ma si tenne le quote. In Calabria aveva relazioni pericolose».
The italian job è diventato un intrigo internazionale. L’agenzia di stampa Bloomberg, da alcune settimane, si sta dedicando agli affari petroliferi del manager calabrese Francesco Mazzagatti, il più pagato in Gran Bretagna (oltre 30 milioni di euro di stipendio nel 2024). Il suo tentativo di acquisire da Shell ed Exxon mobile, con la sua società Viaro Energy Ltd (controllata da Viaro investment Ltd), l’impianto di gas di Bacton, a nord-est di Londra, considerato la «spina dorsale» della struttura energetica inglese, ha attirato l’attenzione dell’agenzia governativa britannica Nsta (l’Autorità di transizione del Mare del Nord che regola l’attività delle industrie di petrolio e gas offshore). Ma anche l’acquisto della Rockerose energy ha portato all’apertura un’inchiesta.
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.
«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».






