2019-10-26
L’America non si fida più. Avviata indagine per capire a che gioco gioca Conte
L'investigazione sul presunto complotto contro Donald Trump diventa un'inchiesta penale «anche grazie alle prove raccolte a Roma». Scenario che imbarazza Palazzo Chigi. La «promozione» dell'indagine sul presunto complotto ai danni di Donald Trump al rango di inchiesta penale, anticipata dalla Verità già alcuni giorni fa, si è effettivamente concretizzata nella notte tra giovedì e venerdì. Secondo il New York Times, il procuratore generale (titolo che negli States coincide con il ministro della Giustizia) William Barr avrebbe disposto la trasformazione del cosiddetto «Spygate» in una vera e propria investigazione criminale. Quello che fino a oggi veniva considerato un semplice filone del Russiagate - il caso condotto dal procuratore speciale Robert Mueller per chiarire l'esistenza di ingerenze russe nelle elezioni presidenziali americane del 2016 - rischia di diventare dunque un affare molto serio. Con possibili ripercussioni che, a cascata, minacciano di colpire anche l'Italia.Ma andiamo con ordine. È proprio dall'impossibilità di rintracciare la «pistola fumante» decretata dal Russiagate che bisogna partire per comprendere come si è arrivati a questo punto. Da un lato, infatti, il rapporto Mueller non è riuscito a stabilire un nesso certo fra Trump e il Cremlino, sebbene l'indagine abbia finito per appurare i contatti tra alcuni esponenti della campagna e ambienti vicini alla Russia. Se dunque Donald Trump risulta estraneo, chi ha mosso i fili di tutta la vicenda? È questa la domanda che si è posto il presidente americano e che sta alla base dello Spygate. Un accenno di risposta l'ha fornito una decina di giorni fa lo stesso inquilino della Casa Bianca, nel corso della conferenza stampa a margine della visita del presidente Sergio Mattarella: «Le elezioni del 2016 sono corrotte e bisognerebbe indagare su quello che è accaduto negli altri Paesi, l'Italia può essere coinvolta». Nel libro Inside Trump's White House, in uscita il 26 novembre, il presidente ha parlato all'autore Doug Wead delle ingerenze nella campagna elettorale e dei suoi sospetti su Obama: «Non l'ho mai detto, ma la verità è che li abbiamo sorpresi a spiare la campagna elettorale». Cosa cambia a seguito della svolta dell'altra notte? Ancora non risulta chiaro quali crimini (e a chi) vengano contestati. L'unica cosa sicura è che ora il procuratore John Duhram, incaricato da Barr di svolgere l'indagine, potrà disporre di maggiori poteri. Tra questi, convocare un gran giurì, citare in giudizio testimoni e - soprattutto - incriminare i soggetti sospettati di aver violato la legge. Nella pratica, è plausibile che nell'immediato futuro funzionari dell'Fbi e del dipartimento di Giustizia americano vengano chiamati a rispondere delle loro azioni, trasformando l'inchiesta in un clamoroso «redde rationem» interno all'apparato burocratico - meglio conosciuto come deep state - a stelle e strisce. Ma il passaggio al livello penale non avrà ricadute solo all'interno dei confini americani. Tutt'altro: come ha riportato ieri Fox News, sulla decisione di Barr avrebbero influito le «nuove prove scoperte durante il recente viaggio a Roma» di Durham e dello stesso attorney general. Nota a margine che fa comprendere quanto pesanti potrebbero essere le conseguenze, almeno a livello politico, per l'attuale esecutivo e per quelli passati. Quali prove abbiano raccolto nello stivale Barr e Duhram non è dato sapere. Sembrerebbe che al termine del colloquio con la nostra intelligence infatti - informazione confermata proprio in queste ore da voci vicine ai servizi italiani - i due siano usciti con le pive nel sacco. Circostanza quest'ultima che spiegherebbe il disappunto registrato anche dalla stampa a margine dell'ultima visita a fine settembre. Ma alla Verità altre fonti suggeriscono che la mossa di far accomodare gli americani nelle stanze del Dis sia stato solo un pretesto per prendere tempo, e che le prove di cui parlano Barr e Durham in realtà potrebbero essere state acquisite presso l'ambasciata americana. Sembra difficile, tuttavia, che gli ultimi sviluppi producano ricadute concrete sul piano giuridico. Secondo quanto riferisce al nostro quotidiano il professor Luigi Crema, docente di diritto internazionale alla Statale di Milano, «gli Stati stranieri non possono contestare i funzionari di altri Stati quando questi agiscono, o abbiano agito, nell'esercizio delle proprie funzioni». Le uniche eccezioni previste riguardano crimini commessi a titolo personale oppure fatti molto gravi, come per esempio il genocidio. Qualche evento analogo in passato esiste, ma nella quasi totalità dei casi si è risolto con un nulla di fatto. «Andare contro questa norma consuetudinaria del diritto internazionale», prosegue Crema, «significherebbe violare il principio dell'immunità sovrana dei singoli Stati». C'è poi l'eventualità che governanti, funzionari e membri dei servizi vengano invitati a testimoniare. Una chiamata dalla quale si potrebbero comunque sottrarre, non senza incorrere nel rischio di danneggiare irrimediabilmente i rapporti con il Paese che li chiama a deporre. Naturalmente, a prescindere dall'esito, qualora Barr e Durham dovessero optare per intraprendere azioni così dure rimarrebbe il fortissimo dato politico. D'altronde è stato lo stesso premier Conte, nel corso della conferenza stampa a margine dell'audizione al Copasir, ad ammettere la possibilità che ora si possa andare incontro a «rogatorie internazionali». Bisognerà attendere le prossime settimane per capire come evolverà la vicenda. La posta in gioco è altissima e dall'esito di questa partita dipenderà chi è destinato a stare dentro o fuori dalla Casa Bianca.