2021-04-03
L’alleanza tra dem e miliardari Usa per mettere all’angolo i repubblicani
Joe Biden (Drew Angerer/Getty Images)
Google, Apple, Facebook e Coca Cola contro la legge della Georgia che impone più verifiche sul voto postale. Il terreno di contesa è la riforma statale, spalleggiata dai Democratici, per controllare il sistema elettorale.La riforma elettorale, approvata il mese scorso dal parlamento a maggioranza repubblicana della Georgia, ha scatenato un putiferio. Democratici e associazioni di attivisti hanno accusato la legge di introdurre indebite restrizioni alla facoltà di voto: un elemento che, sostengono, colpirebbe soprattutto le minoranze etniche. Eppure l'aspetto forse più interessante di questa polemica risiede nell'elevato numero di colossi aziendali che è sceso in campo contro la norma. Come riportato da Axios, a pronunciarsi per dare manforte ai dem sono infatti stati Roy Austin (vicedirettore generale di Facebook), Kent Walker (vicepresidente per gli affari globali di Google), Tim Cook (ceo di Apple), Brad Smith (presidente di Microsoft), Brian Moynihan (ceo di Bank of America), James Quincey (ceo di Coca Cola), Jamie Dimon (ceo di JP Morgan). A intervenire sono poi stati alti rappresentanti di Cisco, American Express e Delta Airlines. Del resto, sono gli stessi attivisti antirepubblicani che stanno esercitando pressioni per spingere le grandi aziende al boicottaggio. Tutto questo pone alcune questioni di fondo. In primis, non è ben chiaro con quale diritto dei colossi privati possano permettersi di prendere posizioni politiche su una legge che, piaccia o meno, è stata regolarmente approvata da un Parlamento. In secondo luogo, si nota un problema sul fronte dell'attivismo. Sia chiaro: le associazioni hanno tutto il diritto di protestare e di fare ricorso contro questa legge. Ma esercitare pressioni su dei giganti aziendali per boicottare norme regolarmente votate da un parlamento è un esempio di lotta politica antidemocratica. In terzo luogo, si scorge anche una sorta di conflitto di interessi. Alle ultime elezioni, svariate delle suddette società hanno spalleggiato i dem in termini di finanziamenti (soprattutto, secondo il Center for responsive politics, Google, Microsoft, Apple e Facebook). A pensar male verrebbe quindi da credere che molti di questi colossi, più che per una giusta causa, siano scesi in campo in ossequio a logiche di natura politica. Qualcuno obietterà che le considerazioni appena fatte lasciano il tempo che trovano. Se la legge è iniqua, si dirà, va boicottata punto e basta. Ora, ammesso e non concesso che un simile ragionamento sia valido, entriamo pure nel merito della norma. Indubbiamente la riforma della Georgia contiene degli aspetti problematici: come, per esempio, il divieto di distribuire cibo e acqua agli elettori in fila ai seggi. Una misura che presta il fianco a chi dice che i repubblicani vogliono indebitamente limitare il diritto di voto, ma che - va sottolineato -mira altresì ad evitare la propaganda elettorale fuori dai seggi. Ciò detto, la legge include anche misure di buon senso. Interviene, per esempio, su un tema controverso come quello del voto postale, riducendo la finestra temporale per richiederlo e, soprattutto, introducendo criteri di identificazione più stringenti per ottenerlo. C'è chi grida allo scandalo. Ma chiedere un documento d'identità con foto (come la patente di guida) non sembra essere un ostacolo insormontabile: requisito, quest'ultimo, sostenuto - secondo un sondaggio dell'Atlanta Journal-Constitution - dal 74% degli abitanti della Georgia. Non solo: i critici sostenevano che la legge colpisse gli afroamericani proibendo il voto domenicale. Un divieto tuttavia assente nel provvedimento finale: «la legge», ha riportato Politico, «prevede due giorni di votazione anticipata del sabato e prevede la possibilità di due giorni di votazione la domenica». Parlare quindi di «legge Jim Crow» (come fatto da qualcuno) significa affermare qualcosa di infondato, oltre che di profondamente irrispettoso verso il dramma del segregazionismo che gli afroamericani del Sud hanno dovuto affrontare fino a non molti decenni fa. È del resto chiaro che, a livello statale, i repubblicani si stanno organizzando per opporsi al For the people act: un disegno di legge federale, sponsorizzato dai dem, che contiene misure di riforma elettorale non poco controverse. Consente, per esempio, la registrazione dell'elettore il giorno stesso del voto e rende particolarmente blandi i criteri di sicurezza per il suffragio postale. Le schede dovranno in particolare essere accettate fino a 10 giorni dopo l'Election day, mentre – recita il testo – «uno Stato non può richiedere l'autenticazione notarile o la firma di un testimone o altra autenticazione formale (diversa dall'attestazione dell'elettore) come condizione per ottenere o esprimere un voto per corrispondenza». Tutto questo, senza dimenticare un potenziamento del voto anticipato: una modalità che avviene in maggioranza per posta. Eppure, ben prima del 2020, sul voto postale erano state espresse forti riserve, tra gli altri, dalla Commission on Federal election reform nel 2005 e dal New York Times nel 2012. La narrazione dei «repubblicani che vogliono impedire alla gente di votare» regge quindi fino a un certo punto. Perché il problema forse è di chi vuol far votare coloro che non ne hanno realmente diritto.