2020-12-28
«La Verità» nell’inchiesta per una fake news
La Procura di Perugia che indaga sulle fughe di notizie si concentra su un messaggio di Luca Palamara a un collega: «A breve uscirà la verità». Per le toghe è la prova regina di un asse tra il nostro giornale e l'ex pm. Ipotesi clamorosamente smentita dai fatti.I nostri vecchi dicevano, riferendosi a chi era vittima di un grosso abbaglio, che aveva preso «fischi per fiaschi» e «lucciole per lanterne». Non ci viene in mente nessuna espressione migliore per definire una delle piste investigative della Procura di Perugia che coinvolge anche il nostro quotidiano. Nei giorni scorsi gli inquirenti perugini hanno chiuso le indagini sugli ex pm Luca Palamara e Stefano Fava, accusandoli di aver rivelato alla Verità e al Fatto Quotidiano «notizie d'ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Fava è anche sospettato di aver raccolto informazioni riservate «al fine di avviare una campagna mediatica» ai danni dell'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dell'aggiunto Paolo Ielo, «da effettuarsi anche mediante l'ausilio del dottor Palamara».La pietra dello scandalo, secondo gli inquirenti, sarebbe stato un esposto che Fava aveva inviato al Csm nei confronti del suo vecchio capo e di cui hanno dato notizia in anteprima La Verità e Il Fatto Quotidiano il 29 maggio 2019. Una pubblicazione che per i pm sarebbe stata orchestrata proprio da Palamara. Qual è la pistola fumante di questa ipotesi accusatoria? La troviamo in una chat dello stesso Palamara con l'ex sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, Cesare Sirignano. La sera del 22 maggio i due discutono della nomina del procuratore di Roma. «Luca questa partita va vinta» scrive Sirignano. «È la più importante» replica Palamara. Il giorno dopo arriva la notizia del voto al Csm, favorevole al candidato di Magistratura indipendente Marcello Viola. Il pg di Firenze ha conquistato in quinta commissione quattro preferenze, una è andata all'esponente di Unicost, mentre il consigliere di Area, il cartello delle toghe progressiste, ha scelto Franco Lo Voi, considerato da molti erede naturale di Pignatone. Poco dopo le 11 Sirignano sollecita Palamara: «Attento ai giochi e alle pressioni. Ora ci saranno gli ultimi tentativi. Che vergogna Area. Bisogna sputtanarli». Palamara concorda: «Esatto. Sono dei banditi. Vergognosi». Sirignano ha un'idea: «Andate a prendere l'intervd (quasi sicuramente intervento, ndr) di Ardituro (Antonio, già consigliere del Csm in quota Area, ndr) quando venne nominato Lo Voi a Palermo». Ovviamente Ardituro aveva criticato la scelta del magistrato che nel 2019 le cosiddette toghe rosse avevano deciso di contrapporre a Viola. Sirignano: «Così li sputtanate. Fallo fare da qualcuno un richiamo a quella valutazione così li mortifichiamo». Palamara è d'accordo con il collega: «Sì certo. A breve uscirà la verità». Verità con la «v» minuscola. Anche perché un «richiamo» al discorso di Ardituro sul nostro giornale non è mai apparso, e il 23 maggio 2019 non ci eravamo ancora concentrati sulla battaglia per la Procura di Roma. Il 24 sulle nostre pagine non fu pubblicato nessun articolo sul voto in commissione. Torniamo alla chat. Di fronte all'annuncio dell'imminente uscita della «verità», Sirignano commenta: «Senza esclusione di colpi». Palamara si definisce «prontissimo». Pare chiarissimo che i due magistrati non si stiano riferendo al quotidiano La Verità, ma a una presunta verità storica. Come è potuto nascere un simile equivoco? Un po' di colpa va data anche a Palamara, il quale, pressato da ben quattro magistrati - il procuratore Raffaele Cantone, l'aggiunto Giuseppe Petrazzini e i pm Gemma Miliani e Mario Formisano - non ha chiesto di rileggere la chat, ma ha accettato la versione offerta dagli inquirenti. Formisano il 29 luglio 2020 introduce l'interrogatorio con questo assioma: «Si è dato atto del messaggio presente sulla chat di Sirignano del 23 maggio 2019 in cui il dottor Palamara preannuncia l'articolo che verrà pubblicato sul quotidiano La Verità». Durante il confronto la Miliani cita quella che a suo dire è la frase esatta: «Nei prossimi giorni esce La Verità e sarà la guerra per tutti». Formisano le fa eco: «E sarà guerra per tutti». Ma nelle chat queste due frasi non compaiono da nessuna parte. A questo punto Formisano contesta a Palamara: «Lei sapeva anche il contenuto…». L'indagato balbetta: «Mi è stato detto… ma non mi ricordo se me l'ha detto Fava». Miliani lo incalza: «E via su, Palamara». Il magistrato sotto inchiesta è confuso, cerca di ricostruire fatti che non sono mai avvenuti e cincischia. Il 21 settembre Palamara finisce di nuovo sotto torchio e crolla definitivamente, ammettendo cose che non ha fatto, né scritto. Cantone domanda: «Quindi il 23 La Verità già ce l'aveva la notizia o stava per averla?». Palamara collega confusamente un suo colloquio con il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli del 16 maggio 2019 (tema: l'esposto di Fava), un'intervista dello stesso magistrato realizzata dalla Verità il 24 maggio (e uscita il 25) e una circostanza che nei giorni successivi Fava gli aveva riferito, e cioè che erano passati da lui una giornalista del Fatto quotidiano e chi scrive per chiedere lumi sull'esposto. Conclusione di Palamara, evidentemente groggy: «E io sicuramente a Sirignano faccio capire: “Preparati che uscirà. Sicuro"». Peccato che i fatti che Palamara cuce tra loro, a parte il colloquio con Racanelli, siano tutti successivi al 23 maggio. Mentre il messaggio, sulla verità con la «v» minuscola è proprio di quel giorno. Per fortuna almeno Sirignano non cade nell'equivoco e sommessamente l'1 ottobre fa notare ai colleghi perugini: «Io interpreto il messaggio nel senso che sarebbe uscita la verità in senso storico. Io ho pensato che a breve sarebbe emersa la verità». Ma ormai i pm sono immersi nella loro realtà virtuale.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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