
Carlo Fuortes e Stefano Coletta sfruttano il vuoto che c’è in commissione Vigilanza per imporre logiche di sinistra a viale Mazzini. La Grande trappola è scattata. Chi dentro la Rai s’aspettava il consueto Festival gay friendly nazionalpopolare senza arte né parte e pieno di brocchi canterini si è ritrovato dentro una festa dell’Unità vecchio stampo. Trotzkismo d’antan. Chiassosa, con il profumo di salamelle costituzionali e l’olio rifritto di Roberto Benigni, lo spazio propaganda col poster di Che Guevara-Fedez, i razzismi immaginari a scopo pubblicitario di Paola Egonu. E il sorriso condiscendente di Sergio Mattarella arrivato al primo minuto a legittimare - senza dire una parola, come un totem dell’opposizione - il circo politico messo in piedi da Amadeus con i soldi dei contribuenti.Oltre al conduttore, i protagonisti della Grande trappola sono due piddini di ferro, l’ad Carlo Fuortes molto legato all’ex ministro della Cultura Dario Franceschini e il direttore dell’intrattenimento prime time, Stefano Coletta, fautore di una mutazione genetica tentata negli anni contiani e draghiani: trasformare Rai 1 in una Rai 3 per plasmare l’italiano 3.0, farlo diventare un fan di Enrico Letta e Peppe Provenzano, indurlo ad autoflagellarsi e ad aggrapparsi all’alto magistero dem per uscire dal medioevo.Con Unomattina della fida Serena Bortone (traghettata apposta da Agorà) ha fallito su tutta la linea e la «revolution» ha prodotto un solo risultato: la migrazione della casalinga a Mattino Cinque per la felicità dei pubblicitari di Mediaset. Era il tempo del Festival così descritto da Mario Adinolfi: «Una volta Sanremo era lo specchio del Paese. Ora pare un manicomio dove sono tutti fluidi e vanno in giro mezzi nudi e coi capelli pitturati come una tribù cheyenne».Quest’anno si è andati oltre, recuperando la propaganda politica come mezzo di condizionamento di massa. A questo punto Volodymyr Zelensky è una comparsa, uno specchietto per le allodole agitato mentre si preparavano ben altre pietanze. Quando Coletta ha saputo dell’arrivo del presidente della Repubblica (prima dei componenti del cda, all’oscuro di tutto fino al giorno zero) ha detto: «Non ho partecipato all’operazione ma sono emozionato e non mi sento sminuito». Silenzio assenso di un civil servant funzionale alla causa, lasciato scorrazzare al settimo piano di viale Mazzini dall’azionista di palazzo Chigi che non ha ancora messo la Rai nell’agenda delle riforme. Al tempo della destra al governo è andato in onda il Festival di Sanremo più a sinistra della storia. Con tre conseguenze: la depressione immediata di Fabio Fazio che deteneva il record dagli anni della resistenza anti-berlusconiana, la constatazione che il pericolo fascista alberga solo dentro alcune psycho-redazioni e la conferma di una singolare distrazione da parte di Giorgia Meloni e dei suoi alleati nel gestire il dossier Rai.Fuortes, Coletta, la stessa zarina Monica Maggioni continuano a imperversare come se nel Paese la maggioranza piddina fosse del 40%; continuano a immaginare un’Italia da catechizzare, una scolaresca di elettori da rieducare dopo il voto del 25 settembre e da ricondurre sulla via del progressismo mondialista in modalità La7, versione Propaganda Live. Poiché l’azienda culturale più importante del Paese non rappresenta il Paese che vorrebbe raccontare, sarebbe utile che il governo decidesse una strategia d’intervento esattamente come fece Matteo Renzi con Antonio Campo dall’Orto e Carlo Verdelli, Giuseppe Conte con Fabrizio Salini e il Nazareno tutto con il debole ma astuto Fuortes.In questo contesto spicca per assenza la commissione di Vigilanza, lasciata senza testa dall’uscita di Alberto Barachini (Forza Italia), destinazione presidenza del Consiglio come sottosegretario con delega all’Editoria. L’organismo di sorveglianza e rappresentanza governativa, semplicemente, non esiste. Oggi la Rai è tecnicamente fuori controllo perché (a quattro mesi dall’uscita di scena) non è ancora stato trovato un accordo per sostituire il presidente, in quota opposizione. Centrodestra e terzo polo vorrebbero Maria Elena Boschi, dem e 5 stelle Riccardo Fraccaro o l’ultrasinistro Riccardo Ricciardi, ala Roberto Fico, con il santino di Piercamillo Davigo sul comodino. Ci siamo capiti. Così ecco una Vigilanza che non vigila, che neppure si riunisce, che semplicemente non esiste.Alla sinistra in giacca di velluto, consapevole di poter imporre il proprio storico potere persuasivo nella terra di mezzo, tutto ciò va benissimo.Eppure in Rai c’è chi è convinto che la Grande trappola di Sanremo sia stata un grande boomerang anche in funzione elezioni regionali, autonomia e presidenzialismo. È il motivo per il quale Meloni e i suoi non sono per niente preoccupati. Della serie: «A sinistra considerano gli italiani degli imbecilli, facciamoli schiantare una volta di più». Spiega un manager di viale Mazzini, antico frequentatore delle stanze che contano: «Fratelli d’Italia è passato dall’1% al 30% senza la Rai. La verità è che non spostiamo più un voto e anzi, con queste sgangherate esibizioni di spiccata partigianeria, facciamo arrabbiare ancora di più l’elettore. Ma ai politici non va detto perché la Rai è il loro giocattolo».Con un’amara conclusione che prefigura l’eterno sbadiglio rosso nelle Sanremo a venire. «Loro si vedono in onda come allo specchio e pensano di essere vivi».
Teresa Ribera (Ansa)
Il capo del Mef: «All’Ecofin faremo la guerra sulla tassazione del gas naturale». Appello congiunto di Confindustria con le omologhe di Francia e Germania.
Chiusa l’intesa al Consiglio europeo dell’Ambiente, resta il tempo per i bilanci. Il dato oggettivo è che la lentezza della macchina burocratica europea non riesce in alcun modo a stare al passo con i competitor mondiali.
Chiarissimo il concetto espresso dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: «Vorrei chiarire il criterio ispiratore di questo tipo di politica, partendo dal presupposto che noi non siamo una grande potenza, e non abbiamo nemmeno la bacchetta magica per dire alla Ue cosa fare in termini di politica industriale. Ritengo, ad esempio, che sulla politica commerciale, se stiamo ad aspettare cosa accade nel globo, l’industria in Europa nel giro di cinque anni rischia di scomparire». L’intervento avviene in Aula, il contesto è la manovra di bilancio, ma il senso è chiaro. Le piccole conquiste ottenute nell’accordo sul clima non sono sufficienti e nei due anni che bisogna aspettare per la nuova revisione può succedere di tutto.
Maurizio Landini
Dopo i rinnovi da 140 euro lordi in media per 3,5 milioni di lavoratori della Pa, sono in partenza le trattative per il triennio 2025-27. Stanziate già le risorse: a inizio 2026 si può chiudere. Maurizio Landini è rimasto solo ad opporsi.
Sta per finire quella che tra il serio e il faceto nelle stanze di Palazzo Vidoni, ministero della Pa, è stata definita come la settimana delle firme. Lunedì è toccato ai 430.000 dipendenti di Comuni, Regioni e Province che grazie al rinnovo del contratto di categoria vedranno le buste paga gonfiarsi con più di 150 euro lordi al mese. Mercoledì è stata la volta dei lavoratori della scuola, 1 milione e 260.000 lavoratori (850.000 sono docenti) che oltre agli aumenti di cui sopra porteranno a casa arretrati da 1.640 euro per gli insegnanti e 1.400 euro per il personale Ata (amministrativi tecnici e ausiliari). E il giorno prima, in questo caso l’accordo era stato già siglato qualche mese fa, la Uil aveva deciso di sottoscrivere un altro contratto, quello delle funzioni centrali (chi presta opera nei ministeri o nell’Agenzia delle Entrate), circa 180.000 persone, per avere poi la possibilità di sedersi al tavolo dell’integrativo.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Dopo aver predicato il rigore assoluto sulla spesa, ora l’opposizione attacca Giancarlo Giorgetti per una manovra «poco ambiziosa». Ma il ministro la riporta sulla terra: «Quadro internazionale incerto, abbiamo tutelato i redditi medi tenendo i conti in ordine».
Improvvisamente, dopo anni di governi dell’austerity, in cui stringere la cinghia era considerato buono e giusto, la sinistra scopre che il controllo del deficit, il calo dello spread e il minor costo del debito non sono un valore. Così la legge di Bilancio, orientata a un difficile equilibrio tra il superamento della procedura d’infrazione e la distribuzione delle scarse risorse disponibili nei punti nevralgici dell’economia puntando a far scendere il deficit sotto il 3% del Pil, è per l’opposizione una manovra «senza ambizioni». O una strategia per creare un tesoretto da spendere in armi o per la prossima manovra del 2027 quando in ballo ci saranno le elezioni, come rimarcato da Tino Magni di Avs.





