2025-09-18
La solitudine armata della sinistra che ha rinnegato Marx per il woke
Esaurito l’afflato rivoluzionario, oggi i compagni bramano misere vendette individuali.Tra la sinistra sterminazionista di Vladimir Ilic Ulianov Lenin e quella paranoide delle sciroccate coi capelli fucsia dei campus americani non passa solo il fisiologico decadimento da tragedia a farsa, tanto per restare nelle citazioni della casa madre, ma si verifica anche un sostanziale salto di qualità: quelli di oggi sono molto peggio. Non in potenza di fuoco omicida, ovviamente (ma, come si dice in questi casi, diamogli tempo…), bensì nella capacità di adesione alla realtà e radicamento in essa. In questo senso, l’ottimo affresco di storia delle idee proposto ieri sulla Verità da Boni Castellane ha l’unica pecca dell’eccessiva galanteria: dando ai woke dei leninisti, ha fatto loro un complimento. L’argomentazione di Castellane è chiara: nel pensiero europeo, da Machiavelli in poi, la violenza è stata ritenuta un male necessario, una triste costante della realtà, da riconoscere, in primis, e poi da controllare. Nei loro rispettivi ambiti, Carl Schmitt e Konrad Lorenz non dicevano nulla di diverso: proprio perché si accetta l’inevitabilità del conflitto, lo si può normare, limitare, sublimare. Con Marx, le cose cambiano: da male necessario, la violenza diventa bene in sé, vettore della palingenesi rivoluzionaria. Lenin ne farà una scienza, da cui discenderà una tecnica omicidiaria rivendicata senza complessi. La sintesi storica, ovviamente, si potrebbe ampliare: forse non tutto inizia proprio con Marx. E forse l’eresia soreliana, che declinerà tutt’altro approccio alla violenza, meriterebbe una menzione. Ma il nocciolo della questione c’è tutto.È anche sacrosanto riconoscere che nella sinistra di oggi c’è lo stesso odio freddo, burocratico, la stessa teorizzazione algida della disumanità dell’altro, la stessa convinzione messianica della sua intrinseca nocività. C’è però anche dell’altro. O, meglio, manca qualcosa. Manca il senso dell’avventura collettiva, l’afflato rivoluzionario, il sentirsi parte di un popolo, di un movimento mondiale, l’essere sospinti dalle speranze (per quanto malriposte) di milioni di diseredati. Manca l’approccio dialettico e il materialismo storico, il respiro teorico ampio che pretendevano di avere. E al posto di tutto questo cosa abbiamo? Un concentrato di paranoie solitarie e passioni tristi. L’agente che mette in moto la storia non è più il «quarto stato» di Giuseppe Pellizza da Volpedo, ma il lupo solitario, il killer paranoide. La violenza non è più giustificata alla luce di una volontà palingenetica, per quanto illusoria, ma si nutre di ossessioni igieniste: eliminate il morbo, la peste, il contagio. Eccoli lì: sognavano l’avvenire fraterno dei popoli liberati e ora stanno su X a ghignare sul cecchino che finalmente ha la mira giusta.A ben vedere, pochi cedimenti alla modernità capitalistica americana sono meglio esemplificati: il mito dell’omicidio politico, del cittadino solitario che si arma e colpisce il politico oppressore, è profondamente radicato nell’inconscio statunitense, ma certifica l’addio a qualsiasi velleità di calarsi in una dinamica collettiva. Il goffo tentativo di accreditare la pista nera, il regolamento di conti interno, cela l’incredulità di fronte alla propria deriva autoreferenziale: sì, anche un progressista può rinchiudersi in cameretta, rimbambirsi di videogiochi e coltivare le proprie ossessioni fino al punto di non ritorno. E forse quella cameretta e solo un’estensione delle echo chambers giornalistiche, culturali, universitarie, dove si coltivano paranoie e ci si stacca dalla realtà. Non ci sono più grandi strutture di potere da abbattere, come il capitalismo: c’è il politico malvagio da eliminare; non c’è più una massa di cui intestarsi gli interessi, ci sono minoranze marginali; non c’è più un presunto senso della storia da assecondare, c’è un manicheismo fanatizzato e moralistico; non c’è più una rivoluzione da fare per riparare il mondo, ci sono solo vendette rancorose e individuali.Così come è ben poco marxista, perché non dialettico, lo stupore incredulo e indignato che ogni volta colpisce l’attivista woke alla scoperta della semplice esistenza dell’altro. Avete presente la scena, no? La bocca, muta, che annaspa inghiottendo aria, gli occhi sgranati. Poi solo un sordo «wow!» a cui, dopo interminabili secondi, segue il balbettio di un’argomentazione che non è tale, perché è solo il vano tentativo di spiegare a se stessi qualcosa di incomprensibile. Marx non ha bisogno di spiegare l’esistenza del padrone dei mezzi di produzione, la sua esistenza è perfettamente logica nel quadro di una fisica della storia dogmatica, ma coerente. L’attivista woke, di fronte a qualcuno che gli dica qualcosa di sconvolgente, tipo «se hai un pene sei un uomo», resta senza parole. Da questo sbigottimento ottuso deriva l’istantanea degradazione dell’altro a non persona, e ovviamente dei suoi argomenti a non argomenti. Chiunque, dopo una banale conversazione, può diventare istantaneamente Hitler. E si sa, il sogno di ogni buon americano non è certo fare la rivoluzione contro Hitler, ma tornare indietro nel tempo e sparargli da sopra un tetto.
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